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James William Guercio e la polizia

Il cinema dei margini da riscoprire. Rubrica a cura di Beniamino Biondi

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Electra Glide è il primo ed unico film diretto dal ventisettenne James William Guercio, nato a Chicago da genitori siciliani e noto soprattutto come editore discografico (ma è stato anche compositore, suonatore di basso, fondatore di una comunità creativa situata nel Colorado).

Con la programmatica consapevolezza di chi non intende che realizzare un’opera unica ed isolata, Guercio racconta la storia di John Wintergreen, poliziotto della stradale che pattuglia le strade a bordo della sua motocicletta Electra Glide, che coltiva il sogno di passare alla squadra omicidi, anche se è limitato nella carriera dalla sua bassa statura; ma soprattutto racconta la storia di un uomo onesto i cui ideali saranno umiliati cinicamente dai suoi superiori, i quali tenteranno di infrangerne il rigoroso codice morale, e per la brutalità dei quali, alla fine, rimarrà ucciso con un colpo di fucile durante un inseguimento proprio da uno di quegli hippies verso i quali si sente attratto. Guercio cala la sua amara ideologia del tramonto del mito americano sulla torrida lingua d’asfalto di un’autostrada dell’Arizona, lungo gli immensi spazi naturali del territorio brullo della Monument Valley, in una scenografia simbolica che marca benissimo l’inquietudine ineffabile e il male di vivere dell’agente di polizia.

Il film di Guercio, che certamente appartiene al genere del road movie di contestazione, è stato erroneamente ritenuto come una derivazione suppletiva di Easy rider, giungendo ad esso col ritardo dell’omaggio d’autore. Erroneamente, in quanto la parabole del film di Hopper è qui del tutto rovesciata e non serve che da pretesto iconografico per un discorso ben più esteso sull’amarezza e la disillusione della gioventù nell’era post-Vietnam, e sul romanticismo della sconfitta del sogno americano (visto dall’altra parte, quella dei poliziotti, come allegoria di quella crisi del cinema radicale di sinistra e di un’intera cultura utopica voltata alla nemesi della propria inconfutabile destituzione). Film fascista, dunque? No, piuttosto un’opera che anticipa acutamente il trauma della sclerotizzazione del sogno americano nel canone di un nuovo potere, che, attecchito sul mito infantile della liberazione totale, era prossimo alla ferocia reazionaria del caos come principio di sé stesso (da qui il finale, brutale e tragico, splendidamente metaforico, del film: un’immagine assoluta e cristallizzata, dopo un lunghissimo carrello all’indietro di fascinoso lirismo sulle note di una struggente ballata). L’intuizione di Guercio (che rimase ignota, ad esempio, alla critica italiana di sinistra che non la comprese in alcun modo) è di aver capito che il conflitto non è tra polizia e hippies ma tra uomini di potere e uomini non al potere, e non importa che tra questi vi siano tanto i poliziotti che i contestatori.

Opera a suo modo epica, dunque risolta nei modi di un malinconico e moderno western, sin dalle sue prime sequenze sulla meccanica quotidiana dello sbirro (gli esercizi fisici con i pesi, la vestizione con l’uniforme d’ordinanza che assai da vicino ricorda Scorpio Rising di Kenneth Anger, la 357 Magnum nella fondina), il film è la celebrazione crudele e rassegnata di una umanissima generazione di sconfitti poveri e straccioni in un’America dimidiata fra contestazione giovanile e alienata repressione, che trova il simbolo della propria frustrazione in un paesaggio (splendidamente fotografato) di immensi spazi e strade desertiche che incorniciano l’esistenza ascetica degli hippies, rivali inselvatichiti della società dei consumi. Se Easy rider, pure nel fondo tragico della sua vicenda, ha saputo prendere partito con impudente manicheismo per quei ribelli in motocicletta che cavalcavano le strade dell’America, il film di Guercio giunge al pessimismo della tesi radicale (in quegli anni velleitaria, certo, ma oggi inquietante) per cui, in fondo, poliziotti e figli dei fiori sono un’identica etnia sociale: la visione è forse criticamente non raffinata, non adeguatamente approfondita, ma ad ogni modo è originale e amaramente drammatica.

Bene al di là dei riferimenti al film di Hopper, che apparentemente restringono l’area più autenticamente ideologica del film di Guercio, e che tuttavia e ancora una volta non sono che riferimenti rovesciati e provocatori (si pensi alla sequenza in cui John si esercita con la pistola sparando proprio ad un manifesto di Easy rider) tra affettuosità ed irrisione, il film mantiene un’originale ambiguità, che, lungi da costituirne il limite, ne realizza il suo più celato valore. Se, formalmente, i riferimenti al precedente cinematografico denunciano gli effetti di un linguaggio non pienamente autonomo che talvolta si risolve nella resistenza tra polverizzazione narrativa ed enfasi di stile, tuttavia Guercio ha possesso dei mezzi espressivi e mano ferma nella direzione delle scene (non lesinando con certi suoi primissimi piani sugli oggetti e sulle persone di introdurre un percorso iconografico sulla società dei consumi e sull’ossessione di un’America produttivistica che fa monumento di sé stessa), riuscendo in un tono essenziale e malinconico assai maturo negli intendimenti ideologici del proprio discorso.

Beniamino Biondi 

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