Anno: 2012
Durata: 84′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Messico
Regia: Enrique Rivero
Enrique Rivero presenta in Concorso la sua opera seconda Mai Morire dopo aver attirato l’attenzione nel 2008 firmando Parque Via, un prodigioso esordio alla regia che si è aggiudicato il Pardo d’Oro a Locarno. Mai Morire ha echi lontani, nella scrittura, nell’ambientazione, nell’atmosfera: l’origine della storia affonda le radici nell’incontro del regista con una anziana donna che un tempo viveva a Xochimilco, la natura ritratta è così rigogliosamente selvaggia da mostrare il suo battito pulsante, l’intricato rapporto tra credenze, fede e premonizioni è il respiro di un racconto sospeso. Chayo (Margarita Saldana) ritorna a Xochimilco per accudire la madre morente. Vorrebbe salvare il quasi centenario genitore dall’inevitabile, mentre la donna si prepara con serenità ad accettare l’ineluttabilità del destino che si compie. Morire non è la fine del cammino ma solo un momento nel fluire della vita che, come un fiume, scorre inarrestabile. Il mistero dell’esistenza e la sua ciclicità trovano una corrispondenza nella palpabile – e al tempo stesso sfuggevole – natura messicana fatta di corsi d’acqua dietro la cui apparente immobilità si cela il moto perpetuo degli elementi. Il paesaggio rurale ritratto come una raffigurazione del Messico precolombiano sembra aver cristallizzato il tempo le cui lancette invece si muovono, ma “in maniera differente”.
La protagonista Chayo, a cui la Saldana conferisce la carica comunicativa dello sguardo e del gesto, apre e chiude il cerchio della narrazione con l’arrivo e poi la partenza dopo aver adempiuto ai suoi doveri e, tristemente, salutato i suoi affetti e la quotidianità di un mondo che non le appartiene. La costruzione del racconto si abbandona alla destrutturazione del sogno per abbracciare una riflessione sibillina sull’esistenza seguendo le tracce del simbolo, del culto dei defunti, della potenza spesso insostenibile delle premonizioni.
Panta rei, diceva Eraclito. Mai Morire è una finestra sui passi dell’uomo e, senza pretendere di chiudere in un epilogo l’annosa ricerca filosofica sui grandi misteri dell’esistenza dell’essere umano, rimane un ritratto antropologico (oscuro come il tema osservato) sull’attaccamento alla vita, la lotta per tutelare i legami, la ribellione per la liberazione e, infine, l’accettazione della permanenza di noi in quella che erroneamente chiamiamo fine.
Francesca Vantaggiato