Il Ca’ Foscari short film festival è tra Festival i più interessanti nel panorama internazionale per la sua caratteristica fondamentale, ovvero quella di strutturarsi all’interno di una prestigiosa realtà universitaria, l’università Ca’ Foscari di Venezia, appunto. Dal carattere internazionale, raccoglie progetti provenienti da tutto il mondo e vanta ogni anno diversi ospiti speciali. Quest’anno compie quattordici anni e abbiamo voluto discuterne assieme alla sua direttrice artistica e organizzatrice Maria Roberta Novielli, anche docente e scrittrice.
Ca’ Foscari short film festival
Un festival unico
Festival unico in Europa nel suo genere, giunto ormai alla sua quattordicesima edizione, si origina attraverso il direttivo studentesco della vostra università, l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Mi spiega come nasce e si struttura il progetto?
Gli studenti rivestono quasi tutti i ruoli però abbiamo anche un comitato scientifico, composto da docenti così come da professionisti di rilevanza anche internazionale. C’è poi un comitato di selezione, sempre composto da professionisti. Quindi la selezione dei film non viene effettuata dagli studenti che però collaborano in qualsiasi altro aspetto. È per questo motivo che l’ho creato: affinché gli studenti avessero modo di misurarsi con un evento cinematografico in ogni sua fase. Si occupano di tutto: chi realizza la sigla, chi conduce le video interviste, chi sottotitoli i film. Molti di loro in questi quattordici anni pur laureandosi hanno continuato a fare i volontari, altri ancora dopo aver lavorato al festival hanno intrapreso una strada lavorativa analoga. Quindi dal punto di vista della formazione, sottolineo formazione e non didattica, si tratta di un momento veramente importante per tutti i ragazzi che collaborano con noi.
Un’ospite speciale: Liliana Cavani
Negli anni il festival ha ospitato diversi ospiti importanti ascrivibili sia al panorama del cinema nazionale che quello internazionale come, per citarne alcuni, Peter Greenaway e Luca Bigazzi… Il nome che spicca quest’anno è invece quello di Liliana Cavani, che non ha certo bisogno di presentazioni. Perché avete pensato a lei?
Perché Liliana Cavani è una voce imprescindibile nel percorso di studi di chiunque si affacci alla scoperta del cinema, soprattutto perché il suo rilievo non si limita al panorama nazionale, ma alla storia del cinema mondiale. Poi anche perché crediamo che avere persone così importanti dal punto di vista artistico sia un modo per avvicinare i giovani registi in concorso che si affacciano ora al mondo del cinema, essendo che qui portano i loro film di diploma, a quello che speriamo diventeranno un domani, ovvero registi affermati. Allo stesso modo penso che questi grandi nomi vengano qui ad incontrare i loro stessi del passato; si crea quindi quello che io chiamo il passaggio della staffetta, tra chi sta per entrare nel cinema e chi è già qui da tanto. Tra di loro c’è un legame indissolubile.
Liliana Cavani al Festival di Venezia nel 1993
Visioni dal mondo
Oltre alla Cavani, anche gli altri ospiti hanno sicuramente rilievo. Tra loro spicca Joanna Quinn, animatrice inglese tre volte nominata per l’oscar. Me li può introdurre?
Certo. Una delle caratteristiche principali del nostro Festival è che si parla sì di cinema di finzione ma, anche di tutte le altre forme di cinema: quindi, l’animazione, il cinema del reale e tutte le possibili intersezioni tra il cinema e altre arti. Cinema e fotografia, il cinema e la pubblicità, cinema e musica. Abbiamo quindi un forte interesse per la pluralità di voci nel cinema.
Come ospiti sarà presente appunto Joanna Quinn, una delle massime esponenti nel mondo dell’animazione (intesa tout court proprio come prodotto cinematografico maturo). Tra l’altro quasi sicuramente la Quinn ci offrirà una presentazione sul palco di come lei crea le sue animazioni, per cui è quasi come una masterclass. Abbiamo poi Philippe Le Guay, grande regista e sceneggiatore francese che ha portato molti titoli in giro per Festival ma anche nelle nostre sale.
Dall’india invece, anche se purtroppo si collegherà a distanza, ci sarà Faraz Arif Ansari, giovane cineasta, una voce molto coraggiosa perché parla di omosessualità in un paese in cui normalmente l’essere omosessuali viene addirittura penalizzato. Altra importante ospite, sempre a distanza, sarà Ninagawa Mika, fotografa e regista giapponese molto pop, un pop alternativo però, quasi crudele. Una forma non edulcorata del pop che lei usa per fare, come dire, delle invettive verso la sua società. Sempre tra gli ospiti abbiamo anche Živa Kraus, anche lei fotografa sperimentale. Storica collaboratrice di Peggy Guggenheim, quindi anche qui di nuovo il cinema che incontra la fotografia.
Una giuria tutta al femminile
Anche tra le giurate spiccano nomi importanti.
Assolutamente. Antonietta de Lillo. Anche lei non ha bisogno di presentazioni, grandissima regista italiana, vincitrice, tra gli altri premi, anche di un nastro d’argento. Abbiamo poi il piacere di avere con noi Ghasideh Golmakani, regista iraniana che vive da molto tempo in Francia e che si batte, sempre attraverso il suo cinema, per i diritti delle donne iraniane. Infine Cynthia Felando, docente di cinema presso l’unità di Santa Barbara in California ma, anche programmatrice per Festival. Cura inoltre, in qualità di editrice capa, la più prestigiosa rivista al mondo dedicata al cortometraggio.
Le sezioni speciali e i concorsi collaterali
Tra le sezioni speciali che verranno esplorate nell’arco dei giorni di programmazione, ci sono molte iniziative interessanti, tra cui una dedicata ad un vostro storico collaboratore, Carlo Montanaro, importante critico e divulgatore. Mi può parlare brevemente di alcune di queste proposte?
Anche in questo senso l’offerta del festival è molto ricca.
Appunto abbiamo sempre avuto programmi sul cinema delle origini curati dal professor Carlo Montanaro. Quest’anno, tra l’altro, il programma lo dedichiamo a lui perché è il decennale dalla fondazione del suo museo, la Fabbrica del Vedere, splendida da visitare, che contiene tutti gli oggetti del pre-cinema e delle origini del cinema.
Un’altra sezione importante riguarda l’estremo Oriente, l’East Asia Now, curata da Stefano Locati, dedicato all’incontro delle nostre culture. Sezioni a cui si aggiunge il programma annuale di videoarte italiana curato da Elisabetta di Sopra e molti altri programmi come gli incontri con altri Festival e gli incontri con i giovani cineasti di Ca’ Foscari. Insomma come sempre un festival estremamente ricco da questo punto di vista. Si aggiungono infine i nostri due concorsi collaterali, più piccoli ma non per questo meno importanti: uno di music video, curato dall’associazione Cinit, realizzati da studenti di cinema di tutto il mondo e uno di corti realizzati da studenti delle scuole superiori, sempre provenienti da tutto il mondo. Quest’anno abbiamo addirittura un corto che proviene dallo Yemen che mostra quindi la varietà e la ricchezza del cinema che è davvero capillare in ogni paese.
Carlo Montanaro nella sua fabbrica del vapore
I film in concorso: guerre e confini tra i temi principali
Uno dei focus che emerge, guardando ai progetti selezionati, è sicuramente quello sulla guerra e di come questa abbia gravi ripercussioni sul tessuto sociale, specie giovanile. Guardando al panorama internazionale la scelta pare in qualche modo necessaria. Ma quella che stupisce è anche la varietà dei titoli proposti, varietà culturale e geografica. Su 30 film in concorso, i paesi sono addirittura 28. Come è avvenuto il processo di selezione e perché la vostra scelta è ricaduta su alcuni titoli piuttosto che su altri?
Per il nostro festival si candidano ogni anno circa tremila cortometraggi quindi è inevitabile che la selezione finale, da tremila a trenta, comporti dei livelli altissimi di produzione al punto che di quelli dello scorso anno ben tre corti in concorso da noi sono arrivati semifinalisti al prestigioso premio Student Academy Awards del 2023, tra cui, quello da noi premiato, ha poi vinto la stessa competizione. Quindi appunto come dicevo il livello è sempre molto alto. La varietà dei paesi, anche.
Questo comporta inevitabilmente una varietà di tematiche anche se, nonostante questa pluralità, ogni anno alla fine prevale effettivamente un tema rispetto ad altri. Quello di quest’anno, triste dirlo, è proprio la guerra. La guerra e le ripercussioni sui più giovani. È interessante vedere come alcuni di questi film, nonostante non abbiano una guerra in corso, ne parlino. Per esempio c’è un corto dal Bangladesh, dove che io sappia non ci sono guerre, eppure racconta una storia tristissima legata a un bambino e alla guerra. Quindi davvero sono come dire tematiche che affiorano perché i giovani cineasti provano ansie legate al periodo storico in cui vivono.
La selezione
Io faccio una prima scrematura di quelli eleggibili poi il nostro comitato di selezione internazionale sceglie quelli che preferisce, facendo poi una media. Con due unici limiti: uno è che non ci siano più di due corti per paese, in modo da dare più varietà possibile alla dimensione internazionale e l’altro limite è che non ci sia più di un corto per scuola perché è evidente che ci sono delle scuole che hanno mediamente un livello più alto rispetto ad altre. Oltre a questi non ci sono altri vincoli quindi ciascuno dei membri del comitato di selezione esprime le sue preferenze e poi molto democraticamente insomma si crea questa condizione per cui si arriva ad avere automaticamente tantissimi paesi.
Una still da Borders Never Die, film in gara
Un festival di giovani per giovani
Altra caratteristica fondamentale dei progetti in concorso, è la loro matrice. Sono infatti lavori realizzati all’interno di scuole di cinema provenienti da tutto il mondo. E questo è riscontrabile anche in altre vostre sezioni collaterali. Il fatto di essere voi stessi un’università vi conduce in questa scelta di dare particolare attenzione agli studenti e alle loro istanze?
Questa domanda è molto interessante, perché probabilmente inconsciamente tendiamo a dar voce agli studenti. Tra l’altro abbiamo un programma speciale che si chiama Young Filmmakers dove mostriamo i corti dei nostri studenti, perché anche da noi si producono corti che naturalmente non possiamo mettere in concorso perché non sarebbe corretto, però destiniamo sempre comunque una finestra alla realizzazione di questi progetti.
Credo che un’Università, al di là che si tratti della nostra, debba dare spazio soprattutto a chi appunto sta per uscire da un periodo di studi, che si tratti di cinema o altro, perché la formazione non deve limitarsi al momento della laurea ma anche a condurre ad un’autostrada che possa poi diventare la professione del futuro. Quindi tutti, indistintamente dal paese di provenienza, devono avere l’opportunità di trovare nel nostro festival una prima vetrina, perché poi la partecipazione in generale significa far conoscere e presentare il proprio film ad un pubblico il più ampio possibile, crescere anche professionalmente. Quindi è uno strumento utile per progredire in quello che stanno facendo.
Multimediale e transmediale: i linguaggi della quotidianità
Sul sito si legge che siete molto attenti alla multimedialità e alla comunicazione transmediale… Concetti forse un po’ distanti per chi non se ne occupa direttamente. Mi spiega meglio di cosa si tratta?
Come comunicazione transmediale intendiamo il nostro tentativo di presentare il cinema, come già dicevo, anche nella sua intersezione con altre arti e questo è fondamentale perché non si possono creare dei compartimenti stagni, ogni arte confluisce nell’altra e viceversa. Poi la comunicazione transmediale tutto sommato fa parte anche della nostra quotidianità proprio perché siamo abituati a fruirne ormai in ogni aspetto della nostra assistenza di una forma di medialità in movimento, a tutti i livelli, quindi anche quando si fa oggi, per esempio, economia, lo si fa attraverso la presentazione sempre di immagini in movimento. Questa è una caratteristica che è sempre esistita ma ultimamente ancor più accentuata.
Parliamo poi naturalmente di nuovi linguaggi dei media, dalla realtà virtuale alle realtà immersive in generale, l’intelligenza artificiale che viene spesso demonizzata… Tutte cose che non possono essere trascurate o messe a margine a priori. Allo stesso tempo però non devono neanche costituire un campo a sé stante, cioè un festival solo di realtà virtuale che avrebbe sì senso per gli addetti ai lavori ma escluderebbe il pubblico, perché allora non estenderlo a tutte le altre forme di cinema? Quindi l’idea è proprio quella di porci come una grande Agorà, per uno scambio di idee, di comunicazioni e di progetti attorno a tutte queste voci della multimedialità.
Il legame tra cinema e territorio
Leggevo che il Festival si tiene in maniera “diffusa”. Questo magari aiuta anche a un’espansione della rete comunicativa su tutto il territorio, entrando in relazione con quello che potremmo definire una sorta di indotto cinematografico.
Noi siamo qui, aperti a tutto. Non abbiamo biglietti paganti, non servono accrediti, non costa niente a nessuno quindi da noi entrano gli studenti, la gente che passeggia per strada, chi per curiosità… Critici, grandi ospiti, è davvero un Agorà, una piazza dove ci si ferma, si discute e si riflette si scherza e così via quindi tutto deve essere messo in campo di modo che poi ciascuno fruisca di quello che sente possa essere più stimolante.
Anche in questo caso si può parlare di multimedialità: io faccio sempre l’esempio di una delle sedi partner, che è il museo archeologico di Venezia che si trova in piazza San Marco, quindi può immaginare anche la bellezza di questo posto. In questa sede per esempio gli shorts vengono proiettati direttamente sulla parete e uno, mentre li guarda, sotto si trova queste meravigliose statue greco antiche… Cioè può immaginare la bellezza che si crea intorno a questo contesto. Quindi perché fruire di un film solo sullo schermo bianco quando si può godere di una visione che sfrutta la fusione tra le arti.
La locandina del festival che riprende i tradizionali campielli veneziani, disegnata da Manuele Fior
Per il futuro
La vostra è una realtà relativamente giovane ma che ha saputo strutturarsi nel corso degli anni. Come immagina il futuro del festival? Continuerà a dirigerlo?
Il progetto nasce come collettaneo, quindi fin da subito composto da diversi collaboratori. Quest’anno compio sessant’anni, quindi è evidente che non potrò condurlo sempre io (ride). Quindi spero che si formi qualche figura, naturalmente sempre all’interno della nostra università, perché pur sempre di università parliamo, il nostro festival non è un posto dove ci sono nomine o deleghe, quindi io spero che col tempo una figura, magari un mio studente, mi sostituisca e prenda in mano il progetto. Progetto che inoltre sta crescendo, sta diventando sempre più grande e più grande diventa, più diventa autonomo dal suo creatore.
Un evento che prende strade sempre più consolidate in varie direzioni. Cosa diventerà? Spero sempre più grande. Abbiamo già duecento studenti cafoscarini che partecipano collaborando all’organizzazione del festival, può quindi immaginare la mole. Quale evento ha così tante persone in uno staff? Nessuno credo. E questo è davvero un segno di incoraggiamento a dover continuare a tutti i costi, per gli studenti soprattutto ma per tutti noi, basta venire una volta e sentirne l’atmosfera. Siamo poi tutti a un livello estremamente informale e questo sicuramente aiuta nella creazione di questo clima. Ad esempio quando gli ospiti arrivano da noi, si rilassano.
Ci sono stati ben due importanti registi, frequentatori assidui di molti festival prestigiosi, che mi hanno detto che il nostro è il festival più bello in cui sono stati perché stanno bene, si rilassano, parlano con i giovani e in modo totalmente libero. Ed è tutto così naturale, così intimo. Speriamo bene per il futuro, che diventi ancora più grande.
Dentro e fuori l’Università
Un’ultima domanda: pensa che in qualche modo la dimensione universitaria del festival sia limitante?
Contrariamente a quello che molti potrebbero pensare, cioè che, trattandosi di un festival all’interno di un’università, ci sia dell’accademismo nell’organizzazione e gli studenti siano assoggettati alle nostre richieste, la nostra realtà è molto differente e di accademico da noi non c’è proprio nulla. Tant’è che cerchiamo di parlare poco e di far vedere il più possibile. Quindi, a meno che non ci sia l’ospite a cui vogliamo dedicare proprio l’intervista sul palco, nessun altro parla nel nostro Festival, non ci sono interventi boriosi, ecco. Quindi non c’è nulla di accademico e manca diciamo un dominio spartiacque.
Anche perché io ho lavorato per molti anni in molti festival: la mostra del cinema di Venezia, Locarno, il Festival di Tokyo e tanti altri quindi avevo già un po’ di esperienza quando ho cominciato e onestamente un Festival solo accademico so che non funzionerebbe.
L’ultima cosa, tutti questi studenti che lavorano con noi non sono, diciamo, ingessati, perché la prima cosa che diciamo loro è che possono anche sbagliare e allora questo semplice senso di responsabilità e allo stesso tempo irresponsabilità li fa diventare dei professionisti incredibili. Ciascuno di loro fa il suo lavoro con enorme serietà e non c’è più nemmeno bisogno di dirgli cosa fare, perché diventa la loro attività, diventa il loro evento. Ecco, questa è una cosa molto bella che ci tenevo a sottolineare.
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