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Back to 1942 – Festival internazionale del Film di Roma (Concorso)

La grande carestia che sconvolse la regione cinese dell’Henan settant’anni fa, intersecata in un conflitto mondiale e ‘locale’ (scontro tra Cina e Giappone), sacrificata a discapito di dieci milioni di sfollati e tre milioni di morti in nome di logiche di compromessi e delicati equilibri politico-istituzionali.

Pubblicato

il

 

Anno: 2012

Durata: 135′

Nazionalità: Cina

Regia: Feng Xiaogang 

 

1942: il primo film asiatico a sorpresa delude

Mentre guardavo svilupparsi ed espandersi in tutta la sua potenza di kolossal Back to 1942, cominciavo a notare similitudini, a riconoscere un’impronta visiva e narrativa che mi rimandava a qualcosa… “Eccolo!”, mi scuoto dall’intorpidimento-noia con il mio Eureka!, mentre continuo a prendere atto dello ‘stupro’ (ad uso e consumo massificato), a cui sto assistendo, di una vicenda storico-sociale a me (e credo a molti) completamente sconosciuta. “Aftershock, ma sì!” continuo a rimuginare, e intanto la similitudine mi si palesa completa e chiara, quando assisto al bombardamento aereo da parte dell’esercito giapponese sulla massa inerte di civili cinesi sfiancati dalla fame e dalla fatica da una fuga contro la siccità, in una inutile e lenta corsa alla sopravvivenza.

Feng Xiaogang, l’ho scoperto quasi due anni fa al Far East Festival di Udine. Aftershock (vincitore addirittura di quella edizione, il Far East  2011) mi aveva già messo sulla carta e nell’occhio un fare cinema ‘accattivante’ (nel senso deteriore del termine, ossia dell’andare a caccia di una sollecitazione continua da parte degli spettatori per ‘istinto di pancia’, più superficiale e immediatamente stimolabile in chi guarda), ideatore/diffusore di emozioni spicciole (nel terrore, nell’amore, nella idealità), artificiali. In quel caso l’oggetto dello sguardo era il catastrofico terremoto che nel 1976 (240 mila morti) aveva colpito Tangshan riletto-rivisitato alla luce del contemporaneo sisma del provincia del Sichuan nel 2008 (68mila morti), allettante specchio per le allodole (e per la possibilità di sbizzarrirsi in effetti speciali – in questo Feng Xiaogang è realmente capace – e per la possibilità di impianto di melodramma tra scomparse e ricongiungimenti).

Esattamente simile nell’impostazione e nello ‘sfruttamento’, questa ultima pellicola in Concorso a Roma. La vicenda molto seria e greve, delicatissima da trattare, che ne fa da sfondo-contenitore: la grande carestia che sconvolse la regione cinese dell’Henan settant’anni fa, intersecata in un conflitto mondiale e ‘locale’ (scontro tra Cina e Giappone), sacrificata a discapito di dieci milioni di sfollati e tre milioni di morti in nome di logiche di compromessi e delicati equilibri politico-istituzionali. La scoperta al mondo di tale abominevole sacrifico si ebbe ad opera di Theodore White (un Adrien Brody ‘da copione’), giornalista americano che visse sul campo gli orrori di quella ‘indiretta deportazione’, impotente nel gridare alla diplomazia internazionale e alla stessa autorità militare cinese, lo scempio in atto, fermato troppo tardi. Risucchiati dentro un canovaccio strutturale aggrovigliato nel dare per scontati al pubblico alcuni passaggi storici, ci imbattiamo sin dall’inizio in veri e propri topoi narrativi, senza alcuna autenticità umana, così come devono essere, tagliati con l’accetta: a cominciare dal ricco ed egoista possidente-possessore, che si vedrà privato di tutto dalla vita, per proseguire con i camaleontici burocrati cinesi, in bilico – ma non troppo – tra dovere di stato e coscienza, fino all’epica figura del generalissimo Chiang Kai Shek, emblema (ridicolo) di doppiezza preconfezionata. E dentro, il melodramma cola a iosa, tra morti annunciate, sacrifici d’amore, redenzioni, riscatti simbolici. Anche con alcune credibilità decisamente approssimative (nel far sopravvivere un neonato, senza possibilità di ricevere latte, sballottolato da un vecchio ‘per mari e monti’ come un vero e proprio pacchettino – già sappiamo che lì dentro non c’è nulla che abbia ‘realtà’). Quanto all’impianto visivo, tutto in MAIUSCOLO: gigante e potente il fatto, gigante e potente anche lo strumento per empatizzarlo al meglio (al massimo dell’avanguardia tecnica, meglio degli Americani, aggiungo). E l’artificiosità cresce sempre più… Sembra di assistere ad un film d’azione, eppure della gente è morta di fame per davvero, settant’anni fa…

p.s.: Brutta cosa vedere Tim Robbins mescolato a tutta questa artificiosità.

Maria Cera

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