Milleunanotte – Festival Internazionale del Film di Roma – Prospettive Italia
Marco Santarelli si introduce nel penitenziario Dozza di Bologna e ci racconta, tra silenzi e parole sospese, i gesti, gli sguardi, i volti, le speranze e le paure dei detenuti, persone di ogni età e di ogni provenienza geografica
Marco Santarelli si introduce nel penitenziario Dozza di Bologna e ci racconta, tra silenzi e parole sospese, i gesti, gli sguardi, i volti, le speranze e le paure dei detenuti, persone di ogni età e di ogni provenienza geografica. Donne e uomini scontano pene di cui noi non sappiamo l’entità, ma non è questo ciò che importa al regista; importa, invece, fare del particolare il pezzo di un puzzle infinito che andrà a confluire in un racconto denso e articolato, che si dipana e che, spesso, non trova compimento: è questa la logica da Mille e una Notte che Santarelli costruisce, facendo di essa il senso stesso della vita.
Quel che emerge, però, è anche una babele di emozioni e linguaggi, uno degli elementi più forti del film; dai detenuti ai mediatori culturali, passando per la polizia penitenziaria e i burocrati, si mescolano lingue diversissime e dialetti, l’arabo e le sue sfumature, l’italiano e i suoi regionalismi, la lingua del nord e quella del sud del mondo.
Sembra quasi che Santarelli abbia preso il penitenziario Dozza a emblema dell’umanità sfaccettata del nostro mondo privo di confini geografici, ma ricco di barriere culturali. Tuttavia, in carcere il mondo diventa davvero uno solo e l’unica barriera è quella col fuori, col mondo esterno che scorre tralasciando gli aspetti più piccoli e forse più importanti dell’esistenza.
Guardando il film, emerge quasi una memoria pasoliniana: se, un tempo, erano i ragazzi di borgata a rappresentare quegli uomini scevri da ogni sovrastruttura sociale, ora sono gli uomini chiusi in carcere, migranti o tossicodipendenti, a rappresentare l’unica parte di mondo pura, quella non contaminata dalle mode o dagli status symbol, quella dei dolori e delle speranze viscerali, quella del lavoro manuale e delle parole cantate, modalità quasi ancestrale di racconto.
Così, Santarelli entra sin nelle pieghe del volto degli uomini e delle donne del penitenziario, ce ne mostra le evidenze e i recessi, donandoci una serie di primi piani scolpiti – e anche qui riemerge un tocco di Pasolini. Ma Santarelli lavora anche per sineddoche, mostrando spesso la parte per il tutto: una mano, un occhio, la sigaretta tra le dita, le scarpe, i muri, le pentole sul fuoco, le sbarre in controluce, le spalle, un orecchio, la penna che scrive, le parole. Il tutto, in una costruzione quasi maniacale sia della fotografia che della composizione dell’inquadratura. Se il film è un documentario, è pur vero che il senso di realtà ci viene restituito da un costante controllo formale dell’opera: dall’amore per l’immagine consegue l’amore per il mondo e per la gente e le storie che lo popolano.
Tra fuori fuoco e immagini che a volte sfociano nell’astratto e ci mostrano il mondo nel suo verso e nel suo contrario (una su tutte: la sequenza dello smembramento di una lavatrice), Santarelli ci regala anche una metafora, forse la più potente del film, quella dell’apicoltura. Le api brulicanti chiuse nelle loro celle, in operoso silenzio, sono il degno finale di un film che si mantiene sempre coerente, che mai eccede e che non sfocia né in esagerati intellettualismi, né in un sentimentalismo troppo navigato.