P.J. Hogan è senz’altro un regista da tenere sott’occhio, soprattutto quando scava nel suo vissuto per raccontare una storia. Molti assoceranno il suo nome a “Il matrimonio del mio migliore amico”, titolo che lo consacrò all’olimpo hollywoodiano nel 1997 contando su un cast ‘stellare’ che annoverava Julia Roberts, Cameron Diaz, Rupert Everett. Eppure, è la produzione australiana del 1994, Le nozze di Muriel, ad avergli permesso l’accesso al pubblico statunitense. Con questo film – a cui sembra particolarmente legato – il regista di Brisbane, Queensland, aveva attirato l’attenzione parlando di conflitti famigliari e del duro rapporto con sé stessi dilaniato dal contrasto tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere, attingendo ai ricordi di infanzia.
Mental è un’autobiografia sfrenata che urla con grinta e grande spirito contro i tabù che circondano il concetto di pazzia contrapposto ai canoni della normalità, noncurante di urtare la sensibilità dei benpensanti più reazionari. La connotazione autobiografica è l’unica delimitazione di genere in cui è possibile inserire Mental, vista la capacità del film di giocare con i registri e di scivolare dalla comicità al dramma all’interno di una scena o anche solo di una singola battuta.
Le cinque sorelle Moochmore cercano di nascondere la loro impopolarità dietro l’etichetta dell’infermità mentale, si arrovellano tutto il giorno alla ricerca di una definizione medica adatta al proprio disturbo psichiatrico. La madre Shirley (Rebecca Gibney) è sull’orlo di una crisi di nervi, canta come fosse in un musical, “Tutti insieme appassionatamente” – per l’esattezza – sognando una famiglia felice. Un giorno Barry (Anthony Lapaglia), padre e marito assente in lizza per l’elezioni locali, decide di rinchiudere la moglie in manicomio dicendo a tutti che Shirley è in vacanza. Non avendo idea di come si gestiscano cinque ragazze, pensa bene di recuperare per strada un’autostoppista hippy con un cane e di farne la nuova baby-sitter. Shaz (Toni Collette) ha dei metodi poco ortodossi ma efficaci che scuotono i Moochmore e li obbligano a fare i conti con le proprie paure e debolezze, rivedendo il rapporto tra normalità, conformità e pazzia.
Come ha raccontato in conferenza stampa, P.J. Hogan ha vissuto l’esperienza di una famiglia disfunzionale sulla propria pelle, impiegando venticinque anni per riuscire ad affrontare l’argomento e a trasformarlo in un messaggio da condividere. “Ho due bambini autistici e un fratello bipolare, mi piace dire che il mio è un rapporto diretto dalla trincea. Volevo che Mental fosse una commedia perché bisogna poter sorridere davanti alla malattia mentale. Volevo realizzare un film politicamente scorretto, era mia intenzione scatenare una provocazione e fare in modo che si parlasse dell’argomento”. All’età di 12 anni, Hogan vede la madre in preda a un esaurimento nervoso e il padre, un politico locale che concorreva alle elezioni, decidere di ricoverarla in manicomio raccomandandosi con i figli di dire a tutti che era in vacanza. Non sapendo come comportarsi con loro, si presenta a casa con un’autostoppista svitata, la donna che ha insegnato al regista che “è meglio essere una pecora nera che una semplice pecora”. “Ho sempre voluto raccontare la storia di Shaz perché lei è stata il mio primo modello. Col tempo ho capito che era una donna folle ma libera, mentre mia madre che non lo era viveva in un manicomio!”
La casa dei Moochmore non è solo un set cinematografico ma è il luogo dell’infanzia di Hogan che in Mental si trova nel patinato e immaginario paesino di Dolphin Heads, fatto di colori sgargianti che ammaliano e disturbano al tempo stesso perché nell’eccesso rivelano l’illusorietà della realtà che rappresentano. I Moochmore non riescono ad accedere a una società che impone stereotipi di bellezza e conformità alle regole comportamentali e che, procedendo per categorie, ha bisogno di definire outsider chi sfugge ai canoni. Mental non vuole essere un trattato di psicologia o un’analisi sociologica della popolazione australiana – anche se ci regala squisite battute sul football e bizzarre disquisizioni antropologiche sull’origine della razza australiana – ma un un tentativo sopra le righe affidato a personaggi o sgradevoli o squilibrati o imperfetti per far discutere sulla difficoltà di accettare il diverso e sulla semplicità di bollare come anormale ciò che sfugge alla comprensione.