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Celestial wives of the Meadow Mari – Festival Internazionale del Film di Roma (Concorso)

Vedere l’invisibile, sentirlo, parlarci, renderlo entità immanente, quotidiana, indispensabile per filtrare il peso e mistero del vivere, la sua magia e bellezza.

Pubblicato

il

 

Anno: 2012

Produzione: The 29th February Film company

Durata: 106’

Genere: Drammatico/Poetico

Nazionalità: Russia

Regia: Alexey Fedorchenko

 

La grande novella della donna e della natura

Vedere l’invisibile, sentirlo, parlarci, renderlo entità immanente, quotidiana, indispensabile per filtrare il peso e mistero del vivere, la sua magia e bellezza. Alexey Fedorchenko con Celestial wives of the Meadow Mari continua il suo viaggio in altri luoghi-mondi (avviato con il premio della Critica Internazionale Venezia 2010 Silent Souls),  aggrappandosi alla cultura naturalista del regno dei Khan di Kazan, caduto 500 anni fa, la cosiddetta etnia dei Mari. Dispersa-rifugiatasi sui monti Urali per sottrarsi alla cristianizzazione, nella Russia contemporanea è dislocata nei tre gruppi principali de i Mari delle pianure, i Mari della montagna e i Mari orientali (Urali). Quest’ultima, in ispecie, preserva intatta la luminosità, i colori accesi, la ricchezza del ‘contagio’ con la natura animisticamente inglobata dalle rispettive popolazioni in tutte le fasi della vita. Questa pellicola arricchisce il Concorso della Selezione Ufficiale di un humus a noi lontanissimo, dentro spazi geografici sconfinati ed attraenti nella dominazione di una natura di cui l’essere umano avverte la ‘somma e altera presenza’, unica e reale divinità alla quale ci si può realmente sottomettere e con la quale relazionare. Nella forma di un moderno racconto filmico strutturato in corti-issimi che si passano il testimone di volta in volta, Fedorchenko celebra la donna, le stagioni della vita e la natura, legate in un tutt’uno con l’esistenza. Perni dolci, attraenti, coraggiosi, forti, generosi che sostengono e nutrono il ciclo vitale e dell’essere umano. Ogni piccola storia è uno scrigno prezioso nel quale entrare: colori vivi e accesi circondano lo scorrere dei giorni delle popolazioni dei Mari, (che li indossano, ne rivestono le case)… Amuleti bellissimi, cibo ed oggetti preparati, disposti, offerti e condivisi con i morti/natura nella varietà e ricchezza tutta russa di formati e abbinamenti, portando dentro gesti semplici e quotidiani, nei riti che li accompagnano, la magia del sacro in pari tempo più tangibile e misterioso.

Ogni novella ha al centro una donna e un proprio genus: dramma, commedia, giallo, amore, erotismo, il tutto rivestito di un’aura sensuale, poetica e immaginifica che pregna e vivifica ogni cosa. La semplicità del modo di vivere è la chiave di volta nell’accedere a ciascuno scrigno: e in esso, ogni donna viene esaltata, indagata nei suoi bisogni e nelle proprie sofferenze, partendo da aspetti umanissimi e quotidiani: un malore improvviso di cui si va a chiedere scusa e perdono alla betulla, un difetto fisico di cui si prega agli alberi la sparizione, offrendo in sacrificio cibo e candele. Fare l’amore col vento, per sedare la paura di un giovane uomo. Offrire il proprio marito in sacrifico erotico ad un demone dei boschi, che rende la vagina della moglie nido di un uccello fino a quando il suo desiderio non verrà esaudito. Resuscitare un morto per vendicare un rifiuto d’amore… La macchina da presa assorbe nella lentezza, sinuosità, delicatezza dell’approccio, l’anima di un mondo e un tempo sospesi tra due dimensioni. Alcuni schizzi spiccano per capacità e simbolismo visivo: emblematica e attraentissima, carica di un erotismo denso e palpabile (evidenziato anche visivamente-fotograficamente da stacchi di atmosfere e mondi-aldiqua-aldilà), la danza nuda di giovani donne che allestiscono una festa per i morti, ai quali offrono cibo e un nettare di ‘consistenza spermica’, gettato dai commensali invocati e giunti alle danzatrici, che lo spalmano su tutte se stesse. Il mondo, la magia, la bellezza e l’eternità pare affidata alla sola donna. L’uomo ne esce monco, costipato nel proprio egoismo e nelle proprie debolezze, incapace di stare al passo più alto e pieno dell’essere femminile e della natura. La lunghezza eccessiva del flusso narrativo ad un certo punto pesa realmente, unica pecca di un puzzle che si chiude nel caleidoscopico avvicendarsi di volti delle protagoniste (e non), incorniciate nei costumi tradizionali di un’etnia sempre più rada, e nella lingua (il Mari, nella quale è stata girata la pellicola), e nei suoi ‘continuatori-testimoni’.

Maria Cera

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