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Alì ha gli occhi azzurri al Tuscia Film Festival di Berlino

Il regista Claudio Giovannesi era presente a Berlino durante la manifestazione e ha risposto alle domande di Andrea D’Addio che ha presentato la serata.

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In occasione del Tuscia Film Festival di Berlino molti dei nostri connazionali residenti nella capitale tedesca hanno avuto il piacere di gustare una pellicola che ha avuto i suoi riconoscimenti ma che ci sentiamo, nel nostro piccolo, di promuovere a distanza di circa un anno dall’uscita nelle sale italiane.

Il regista Claudio Giovannesi era presente a Berlino durante la manifestazione e ha risposto alle domande di Andrea D’Addio che ha presentato la serata.

Vi riproponiamo quindi la recensione a cura di Maria Cera che vide il film durante la premiere al Festival Internazionale del Film di Roma.


Alì ha gli occhi azzurri 

Anno: 2012

Distribuzione: Bim

Durata: 99′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Italia

Regia: Claudio Giovannesi

Giovannesi firma un convincente trattato d’identità

Il primo film della Selezione Ufficiale (e del rispettivo concorso) che vedo è italiano. In totale affidamento e speranza (afferrando volatili suggerimenti-induzioni al rischio, dato il mio rapporto spesso ostico con il cinema nostrano), scopro Claudio Giovannesi, ed è una felice scoperta. Alì ha gli occhi azzurri è un riuscito racconto di formazione, ben attaccato alla terra. Continuum ideale di Fratelli d’Italia, film documentario girato ad Ostia tra il 2007 e il 2009, che si concentrava su tre adolescenti stranieri che frequentavano la stessa scuola, il regista ha deciso di approfondire in un lungometraggio il racconto di Nader, giovane egiziano di seconda generazione, nelle dinamiche e personalità di un ragazzo talentuosamente libero ed incosciente sia davanti alla macchina da presa che nella vita. La  terra è un pezzo di Italia (precisamente di periferia romana), assorbente e condensante una serie di concetti, spesso noti solo astrattamente, che in questa pellicola assumono densità, sostanza, verità. Multiculturalismo, adolescenza, integrazione. Tutto è racchiuso in Alì-Nader, 16enne di acerba innocenza e ribellione, che vive sulla propria pelle una mutazione in atto: nato in Italia, una famiglia araba di origine, integrata sì ma chiusa naturalmente in una diffidenza che è presa di coscienza di divergenze assolute sociali e religiose. “Rispettiamo gli Italiani ma sono diversi da noi”, questo il dictat imposto al giovane che tenta a tutti i costi di rivendicare di fronte alla famiglia un genius loci impossibile da riconoscere, rifiutando il confronto con le proprie radici e con se stesso (rifiuto simbolicamente rappresentato dalle lenti a contatto azzurre che Alì indossa per nascondere a se stesso  i suoi occhi neri).

Alì divide tutto il vuoto di periferia con Stefano, inseparabile amico romano col quale avvia azioni inerziali sull’onda dell’impulso di bisogni fine a se stessi, ancora senza direzione, monchi di uno sguardo lontano e maturo. I soldi, procurati con una veloce rapina, l’evasione dalla scuola professionale trattata-considerata un non luogo, irrappresentabile per qualsiasi proprio bisogno-possesso, il desiderio e l’amore, l’unica cosa pulita e bella che Alì pare riconoscere, per conquistare e difendere la quale imbastisce una vera e propria ‘guerra’ con la famiglia, contraria a che il giovane abbia una ragazza, per giunta italiana. La cieca voglia di imporsi, senza osservare le sfumature di tutto il mondo che lo attraversa, condurrà Alì ad una serie di piccole-grandi cadute, sperimentando la strada, il freddo, il bisogno, la minaccia e la violenza, il senso di responsabilità, riconoscendo a se stesso, finalmente, un’appartenenza anche di sangue alla quale è impossibile sfuggire.

Giovannesi caratterizza situazioni e personaggi in un universo tangibile, nel vissuto quotidiano di un pezzo di umanità riconoscibile e autentica in tutte le sottili vene esplorate: respiriamo aria di vita, nella dignità-diffidenza-preservazione della famiglia araba, nella costipazione e miseria degli immigrati, nella sostanza di un vivere italiano periferico a braccetto con il semplice e la continua conquista, nel quale emergono tesori di verità. Eppure c’è un ma… Nonostante anche un impianto visivo per nulla stereotipato, fissato da una pastosa e d’atmosfera (di margine e distanza) fotografia di Daniele Ciprì, da una macchina da presa mobile, attenta a catturare tutto il sensibile e il contraddittorio, avverto una sottilissima cappa che sigilla-impedisce alla pellicola di essere completamente ‘nuova’. La struttura italiana (preservata nella generale aderenza ad una narrativa che procede per accadimenti-scaglionati dentro uno stampo, un ritmo sempre uguale nella ridondanza di passaggio,  quasi mai messo in discussione) è sempre là, a strizzare l’occhio…

Maria Cera

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