Viva ’20 Days in Mariupol’, ma se questo è cinema c’è un equivoco
Candidato agli Oscar 2024 tra i migliori documentari, il prezioso reportage del Pulitzer Mstyslav Chernov è d'impareggiabile valore storico, ma ne andrebbe forse ripensata la natura cinematografica frettolosamente incollatagli in diversi festival
Non è uno sparatutto l’incipit in soggettiva di 20 Days in Mariupol di Mstyslav Chernov, ma gli somiglia sinistramente. Dalla finestra di un palazzone, con la canna dell’arma da fuoco che s’allunga nella parte bassa del campo cinematografico, ci affacciamo a scorgere un carrarmato con la lettera Z marciare in guerra. Sull’asfalto irrorato dal nevischio, slalomeggia tra i bus lasciati di traverso come barricate inermi.
Effetto cinema, dunque, ma è tutto vero. Dopo l’avvio del conflitto russo-ucraino il 24 febbraio 2022, Chernov e la propria troupe di redattori e fotografi ucraini per Associated Press (AP) sono presto rimasti gli unici giornalisti con contatti internazionali a Mariupol. Alcune delle immagini confluite in 20 Days in Mariupol sono le stesse per cui Chernov ha vinto il premio Pulitzer con Evgeniy Maloletka, Vasilisa Stepanenko e Lori Hinnan. Se i meriti giornalistici sono meritati, qui, forse, serve però un’operazione pulizia, per fare chiarezza su ciò che il film sia o non sia. Specie dopo il tour di festival cinematografici (tra cui Sundance, CPH:DOX, Hot Docs), il premio ai BAFTA e la candidatura agli Oscar 2024.
Il trailer di 20 Days in Mariupol
Senza esclusione di corpi
Per un instant documentary, un documentario di guerra fulmineamente concepito per restare sui luoghi degli eventi che incombono, 20 Days in Mariupol riesce, in effetti, come micidiale combo d’immagini nel cuore dell’azione. Il repertorio ha tutto della verità della guerra.
È nel cuore fisico dei palazzi devastati, degli attacchi in presa diretta nello sgomitare di rifugi e ospedali, o nello sbandare di presso alle truppe, in fughe a gambe levate tra grappoli di pallottole sibilanti.
20 Days in Mariupol, esplosione in presa diretta
È nel cuore spento dei corpi senza vita: per strada, negli obitori, nel dettaglio così fotografico della scarpina insanguinata del bambino, rimasta a punteggiare di rosso le strade disertate alla peggio. “Già è duro“, commenta un dottore in merito al cadavere di un neonato stipato nei sotterranei dell’ospedale. Ma l’insistenza è anche sui corpi in vita, come nella scena di una rianimazione di una bambina appena partorita, impressionante forse più per crudezza che per verità, nonostante il lieto fine.
È infine nel cuore del popolo, inteso come stato d’animo, nelle tante esclamazioni – più che dichiarazioni – raccolte dai civili in fuga: “Voglio vivere in Ucraina, in pace e in tranquillità“; “hanno distrutto e saccheggiato tutto“, “cosa ho fatto per meritare questo?“.
Professione reporter
Una signora chiede: “dove devo andare?”, e il regista-reporter si dichiara indeciso se continuare a filmarla oppure se fermarsi a tranquillizzarla. Naturalmente filmerà. La manderà, poi, a casa, ma l’attacco alla città mette tutti in fuga poco dopo.
Queste esitazioni “deontologiche” sono esibite più di una volta in 20 Days in Mariupol. Il cineasta, che cineasta non è, bensì giornalista, si appella ad obblighi editoriali, alle necessità della Storia, all’opportunità di essere a un palmo dal dramma a costo di rasentare il sensazionalismo.
L’evacuazione di una donna incinta dall’ospedale di Mariupol in una sequenza del film affine allo scatto di Evgeniy Maloletka
Quando uno dei cittadini in fuga lo aggettiva malamente, chiedendogli di non essere ripreso, Chernov replica:
È anche il nostro paese e dobbiamo raccontare la sua storia.
Così stanno le cose. 20 Days in Mariupol è il corrispettivo in azione della foto che ha vinto il World Press Photo 2023: lo scatto di Evgeniy Maloletka, giornalista e fotografo ucraino di 36 anni, che immortalava una donna incinta evacuata dall’ospedale pediatrico di Mariupol. Che pure non aveva mancato di ricevere critiche per l’invadenza dell’immagine in un momento di disperazione.
Uno zoom su qualche dubbio etico
È una guerra storica, non documentarla è impossibile, continua a prevenire il regista. Ma il dubbio non è tanto sull’aspirazione, quanto sull’ispirazione. Basta l’esigenza di verità per fare cinema documentario? E come girare, per non fare di quell’esigenza una brutalità gratuita?
Mi sono svegliata con le bombe e mi sono accorta che era iniziata la guerra,
dice una bambina piangendo. La macchina da presa zooma leggermente sulle lacrime, arrestandosi quasi per un improvviso rigurgito di decoro. Serviva quello zoom? Non può non sovvenire qualche dubbio di carattere etico alla visione del film. Per quanto i filmati si cristallizzino in archivio irrinunciabile, non sarà del tutto agevole per lo spettatore scrollarsi di dosso la sensazione sgradita della caccia allo scoop. Che, comunque, riesce: e si sarebbe ingrati a negarlo.
L’armistizio della critica
La documentazione risulta quindi efficace, ma cosa si può dire sul formato cinematografico? Se non, addirittura, sull’essere costretti a chiamarlo “cinema”? Singolare che un film candidato agli Oscar, in ultima istanza, appaia in tutto e per tutto null’altro che un reportage di guerra, un’operazione speciale di giornalismo infiltrato al cinema, e con esso alleato per legittima convenienza documentaria.
Poco o nulla si può argomentare sul dispositivo del racconto: un montaggio para-televisivo di immagini in prima linea con camera in spalla, filmati d’archivio pulitissimi, eleganti piroette di droni, discorsi di Putin o stralci d’interventi di opinionisti. Meglio ignorare, anzi, certe ardite incursioni del linguaggio cinematografico, come i cavernosi effetti sonori, oppure il primo piano riempitivo, e ripetuto, di una mano che versa la polvere della terra destinata a insanguinarsi. Che resti, per favore, solo giornalismo.
Un plauso, dunque, agli intenti; un grazie, ancora, al coraggio degli autori; ma la critica, diciamolo, può anche incrociare le braccia. Chi voglia guardare le immagini di 20 Days in Mariupol, farà bene, oggi e domani, ad aver scelto di voler sapere – a costo del déjà-vu, scontando la ridondanza del già visto in tv durante i giorni più intensi dell’attenzione mediatica. L’operazione memoria è già scattata, ed è giusto che sia così. Ma l’operazione cinema, con buona pace degli Oscar 2024 – quella, non è mai partita.
20 Days in Mariupol
Anno: 2023
Durata: 94'
Distribuzione: Youtube, Prime Video
Genere: Documentario
Nazionalita: Ucraina
Regia: Mstyslav Chernov
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