“Mamma, io me ne vado. Entro nella notte della città. Vado in giro ad uccidere, vado in giro ad uccidere tutti. Non ci rivedremo più”.
Così recita la struggente canzone cantata dal protagonista di Su, su, vergine due volte (1969), uno dei film più crudeli, intensi e deliranti di Koji Wakamatsu.
Ora che il suo genio si è spento vien quasi voglia di prenderle come parole profetiche. Come se i suoi film potessero continuare a diffondere la sua ossessione, invadere gli schermi, propagarsi nella menti come pensieri non conformi, come immagini che ignorano le leggi dell’ottica.
I film di Koji Wakamatsu costruiscono un universo autonomo e innovativo fondato su un paradigma che prova a leggere i conflitti politici attraverso l’isomorfismo con la sfera delle relazioni sessuali che, data la natura oppressiva della società, si concretizzano in una modalità violenta che è al contempo prodotto e metafora delle condizioni politiche. I conflitti a cui è interessato Wakamatsu sono quelli di classe e quelli prodotti dall’imperialismo e militarismo, sia esso giapponese o statunitense o anche israeliano. L’irruzione perentoria della politica nelle sue pellicole è evidente a partire dal 1968 quando in Giappone scoppiano i moti studenteschi contro le basi statunitensi utilizzate per bombardare il Vietnam, evento che costituisce un salto quantico anche per molti altri intellettuali giapponesi. Quelli sono gli stessi anni in cui matura la Nouvelle vague giapponese a cui Wakamatsu ha dato un proprio originalissimo contributo.
Dopo un’adolescenza inquieta che lo ha visto anche finire in carcere per la sua partecipazione ad una banda malavitosa, il suo accesso al mondo del cinema era avvenuto attraverso un genere “minore”, il Pinku eiga, una declinazione giapponese dei nostri film soft-core. La specificità giapponese consiste proprio nella classificazione di questi film che, a differenza dei corrispettivi occidentali, non sono necessariamente erotici, in quanto sono definiti tali esclusivamente per la presenza di scene di nudo e di sesso non esplicito che, di per sé, non sono sufficienti per rientrare nell’occidentale genere erotico. E, infatti, i primi film di Wakamatsu pur facendo ampio ricorso a questo tipo di scene sono lontanissimi dal generare una serena erotizzazione dello spettatore. E non solo perché per lo più espongono situazioni deviate ma anche per la loro netta politicizzazione che polarizza su di sé l’attenzione dello spettatore annullando ogni possibile spinta erotica.
Nella sua lunga e prolifica carriera Wakamatsu ha realizzato oltre 100 film e altri ancora ne ha prodotti con la sua casa di produzione, fondata nel 1965 per liberarsi dai soffocanti vincoli del mercato. Tra i film da lui prodotti anche il famigerato Ecco l’impero dei sensi (1976) diretto da Naghisa Oshima e che tanto scalpore ha generato in ogni paese. Anche dopo essersi liberato dai vincoli contrattuali con le case di produzione che gli chiedevano di realizzare Pinku eiga, Wakamatsu non ha rinunciato ad utilizzare il sesso come epifenomeno che riassumeva e narrava le conflittualità politiche. Nel 2008 realizza United Red Army, sull’impazzimento ed autodistruzione di una formazione rivoluzionaria comunista giapponese e che rappresenta anche una chiusura di una riflessione che Wakamatsu aveva cominciato nel 1971 realizzando con Masao Adachi, cineasta e militante dell’Armata Rossa Giapponese,The Red Army/PFLP: Declaration of World War, una sorta di cinegiornale, sulla lotta di indipendenza palestinese condotta dal Fronte per la Liberazione della Palestina di ispirazione marxista. Talmente forte era la sua necessità di raccontare questa storia che, inevitabilmente, parlava del declino complessivo della sinistra rivoluzionaria giapponese, da dichiarare che dopo averlo finalmente realizzato sarebbe anche potuto smettere di fare film.
Fortunatamente ha avuto ancora altri anni davanti a sè che gli hanno permesso di realizzare altri film, tra cui nel 2009 lo sconvolgente Caterpillar, drammatica denuncia del militarismo trascendente ed imperiale giapponese. All’ultimo Festival di Venezia ha portato il suo ultimo film, Millenium Rapture, e pochi giorni prima di morire è stato premiato al Busan Festival che suonava quasi come un tardivo riconoscimento da parte della critica orientale. Anche in quell’occasione non aveva mancato di denunciare lo strapotere delle invasive leggi di mercato ai danni della cinematografia indipendente. Ora restano solo i suoi film a parlare per lui e continuare le sue battaglie. Ma non è poco.