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Taxidrivers Magazine

La Camera delle Bestemmie, un pomeriggio di Ottobre, colonna sonora: Prayer for rain dei Cure.

Incursioni nella cultura metropolitana. Rubrica a cura di MASTER BLASTER

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La Camera delle Bestemmie, un pomeriggio di Ottobre, colonna sonora: Prayer for rain dei Cure.

Non mi sembra vero, finalmente l’estate con il suo tran-tran, gli orari impossibili e la morsa di afa che attanaglia tutto è ormai alle spalle. Per me che ho un ideale di benessere alquanto pantofolaio, fatto di caminetti, pioggerelline autunnali, tappeti di coloratissime foglie morte e buone letture serali, l’estate è una vera e propria tortura.

Non tanto per le notti sudaticce, spesso rese insonni dalla canicola, quanto per la frenesia ipercinetica  che usualmente prende tutti quelli che ho intorno, scombussolando di riflesso anche la mia amata routine.

Intendiamoci, sono ben conscio che senza alcun cambiamento, anche minimo, non solo non si cresce, ma  ci si  atrofizza e in fondo qualche piccola novità messa a piccole dosi qua e la non mi dispiace nemmeno, però dopo aver visto per un po’ i nuovi orizzonti, indubbiamente amo tornare alle mie abitudini.

Quindi dopo essermi goduta, perché a dirla tutta me la sono goduta, la trasferta estiva che dopo tanti anni mi ha riportato a seguire un festival di cinema, torno più che volentieri ad occuparmi della mia rubrica, riprendendo il mio programma e il filo degli eventi laddove lo avevo lasciato.

Questo però mi pone un problema di ordine logistico, visto che le tematiche di arte underground di cui avevo intenzione di parlare prima della pausa agostana, si è ingrandita a dismisura in termini di tempi e contenuti, andando a coprire un arco che parte dal Crac e finisce con il Romics.

Questo mi porta necessariamente alla conclusione che per problemi di spazio, dovrò per prima cosa dividere in due parti l’articolo, limitandomi inoltre, dopo aver sinteticamente descritto gli eventi in generale ,  a parlare diffusamente  solo delle personalità che ho incontrato e che più mi hanno colpito, definendo le stesse come esemplari  di un panorama vastissimo e in fermento fatto di forme espressive vecchie e nuove, totalmente fuori dai canali e dalla logica del grande mercato. Il tutto senza nulla voler togliere ai tantissimi dei quali non potrò parlare, ma che meritano assolutamente rispetto e attenzione sia per l’impegno che infondono nel loro lavoro, sia per i risultati che da questo impegno scaturiscono.

In poche parole, se siete stufi dei soliti nomi dei cataloghi alla Sgarbi o degli artisti fedeli al Bondi-pensiero , alla prossima di queste manifestazioni  è necessario che muoviate il culo per andarli a vedere. Perché vi assicuro che la scena è ricca e merita.

Capitolo primo: Il “Crack! – fumetti dirompenti” è una rassegna di arte underground che si svolge al Forte Prenestino dal 2005, nel mese di giugno – quest’anno si è tenuto dal 21 al 24.
La colonna sonora di sottofondo è sempre coposta da: punk-hc, rockabilly, new wave e techno hard core in ordine sparso a seconda della cella cui ci si avvicinava.

Per qualche strana ragione avevo sempre mancato l’evento e in generale erano almeno due anni che non mettevo piede al Forte, quindi è naturale che appena entrato provai subito un misto di nostalgia datomi dal forte odore di cannabis e birra che impregna il luogo e di curiosità per questa manifestazione, nata come festival del fumetto indipendente e allargatosi nel corso degli anni fino a toccare moltissime altre  arti figurative che a volte con il mondo del fumetto hanno in comune solo le radici.

Il motivo principale per cui ero lì era per vedere i lavori di una mia cara amica, brava e  giovanissima disegnatrice che esponeva per Scarceranda, la pubblicazione annuale di Radio Onda Rossa che si occupa di carceri e detenuti. Chi mi conosce nel privato sa che ho sempre seguito con attenzione la questione in favore degli ultimi tra gli ultimi, forse perché tra le categorie liminali i detenuti sono quelli che normalmente non suscitano le simpatie delle grandi masse.

Il grosso della mostra viene esposto nei sotterrani del forte, una tra le migliori location che da diciassettenne frequentavo parecchio quando c’erano le serate Tower 23. Ti da l’impressione di trovarti in una fiera dell’assurdo per di più allestita nelle segrete del Dracula di Jess Franco.

Si mischiano gli stili, si mischiano le tematiche che vanno dal fantastico al sociale passando per l’erotico, si mischiano generi musicali che ogni stand spara a cannone, manco fossero i sound di uno stranissimo rave statico dove gli intervenuti invece di ballare guardano, Si mischiano ovviamente le forme artistiche.

Il tutto ovviamente in maniera anarchica e senza soluzione di continuità. Puoi passare dal piccolo cimitero del libero mercato, allestito nei giardini del fossato, alle chine psichedeliche che alcuni autori ti schizzano sul momento. Passi dal disegnatore che improvvisa live mostri e ritratti, al soggettista per tatuaggi ( non so nemmeno se questa definizione esista) per finire davanti al bancone di stampe tecnicamente perfette e impeccabilmente incorniciate. Una specie di Sauna Finlandese per gli occhi.

Per osservare tutto non basterebbe una settimana, impossibile quindi in un pomeriggio dedicare più di dieci minuti a stand, finchè ovviamente non trovi qualcosa che acchiappa la tua attenzione per le orecchie e ti rende impossibile distogliere lo sguardo.

In quella cacofonia di suoni e immagini, in maniera quasi impercettibile si fa strada accompagnata da un vecchio motivetto rock’n roll (forse jhonny cash, ma non ne sono sicuro) un’immagine che al primo passaggio noto solo di sfuggita, ma che rimane impressa nella cornea a livello subliminale.

Al secondo passaggio, mentre sono di ritorno e mi dirigo all’uscita, qualcosa mi inchioda e mi ferma.

La musica in sottofondo nello stand era cambiata, però sosteneva maledettamente bene quello che vedevo.

Un lume da tavolo, fatto con pezzi di recupero che aveva forma e fattezze dell’inquietante testa del cyborg da combattimento Mark-13 del film hardware.

Uno dei miei film fondamentali, una risposta povera ma dignitosa a Blade Runner . Credo che una delle ragioni che all’epoca che mi ha fatto tanto amare quel film sia stato il fatto che per qualche misterioso motivo vi hanno recitato i miei musicisti preferiti: da Lemmy dei Motor Head al cantante dei Field of the Nephilim.

Lo stupore mi incanta, ma alzando la testa e guardandomi intorno e capisco che da quello stand non me ne sarei andato via tanto presto.

Ovunque mi giri è una sorpresa, in una sorta di danza macabra si alternano su tre pareti lampade fatte con pezzi di macchina – una in particolare fatta con cerchioni e gomme che da sola copre un quinto della parete –  sculture ispirate ai grandi classici della Universal di Frankenstein e dell’uomo lupo incontrano suppellettili che sembrano arti robotici.

Modellini costumizzati e rielaborati dei personaggi evasi dal telefilm “i Monster” sono poggiati su tavolini provenienti da un apocalittico futuro post-atomico.

La discrepanza tra i due stili è troppo forte per non capire che si tratta di lavori creati da due personalità distinte, eppure l’armonia con la quale sono combinati non può non far supporre una profonda identità di vedute tra i due autori. I quali infatti se ne stanno svaccati in un angolo sorridendo sotto i baffi per aver stregato un ignaro visitatore, suppongo per l’ennesima volta.

A questo punto negare la fascinazione sarebbe un gesto ipocrita e maldestro, tanto vale andarli a conoscere.

Il primo, Murder Farts con i suoi atteggiamenti da “miles gloriosus” mi cattura subito  con una simpatia animale che si trasforma in vera ammirazione quando mi dice che l’altro soprannome con cui è conosciuto è “lord Omungus”.

Eh no cazzo!

Master Blaster che intervista Lord Omungus! Ma dico, secondo voi una cosa del genere me la potevo far scappare?

Manco ci devo pensare, la richiesta per un’intervista mi esce dalla bocca prima ancora che io me ne accorga.

Così prendo i contatti dei due soci, che puntualmente perderò. Il fatto che io abbia potuto realizzare l’intervista si deve infatti solo alla prontezza di Wolfenstein, l’altro socio, acuto quanto silenzioso con il physique du role  che calza a pieno con il personaggio taciturno e geniale che ama giocare con… le motoseghe.

Non c’è che dire, i due insieme formano una coppia così ben assortita da risultare complementare anche a livello estetico.

Ci diamo un appuntamento che di rimando in rimando si concretizzerà solo dopo l’estate.

E’ infatti settembre inoltrato quando scorgo di nuovo i dintorni  del forte dopo una nottata psichedelica come non ne facevo da almeno cinque a casa di amici; colonna sonora : il fischio del monoscopio che mi martella  dentro la testa.

Devo dire che li per li mi era sembrata una bella idea quella di legare la serata a casa di amici con l’intervista. Avrei fatto tutta una tirata e mi sarei risparmiato il fastidioso avanti e indietro tra Roma e la Palude Pontina.

Il non aver messo in conto gli anni che passano invece, mi urlavano che l’idea si stava rivelando pessima. Il momento giusto per una grande citazione di Hunter Tompson “l’idea di raccontare le cose in modo giornalisticamente convenzionale era impossibile, quello che ci voleva era puro giornalismo paraculo”.

Così mentre cerco di darmi un’aria un minimo credibile, con scarsi risultati, raccolgo le idee per quella che minacciava di essere la prima intervista realizzata dall’oltretomba della ragione, in cui mi sarei giocato ogni residua parvenza di professionalità (qualora ne avessi mai avuta una).

All’arrivo capisco di essermi preoccupato invano. Musica a cannone, sedie da giardino e una bottiglia di vino praticamente già finita, mi danno subito l’idea di essere in territorio amico e raccolte le linee guida, l’intervista diventa subito un delirio.

Intanto scopro che, mentre Wolfenstein è praticamente un mio vicino di casa Pontino che ho incrociato più volte a concertini rockabilly, Murder Farts invece è una mia vecchia conoscenza fin dai tempi della mia adolescenza i cui ricordi si perdono tra i fumi dell’alcool, anzi tra i fumi in genere. Infatti veniamo entrambi dalla vecchia scuola dei musicanti punk romani di fine anni 80 primi 90 e lui militava nei validissimi “Superciuk”.  E tutti e tre saliamo sul treno dei ricordi, scendendo di tanto in tanto a qualche stazione, giusto il tempo strettamente necessario per fare questa benedetta intervista.

41 anni Murder Farts, al secolo Marco, studi artistici interrotti – per fortuna – ci tiene a puntualizzare. In effetti il termine artista gli causa l’orticaria e per quanto e come molta gente abusa del termine nei salottini radical chic, non posso dargli torto. Preferisce definirsi un costumizzatore di materia, termine che non avevo mai sentito ma che mi piace molto di più.

La sua formazione in realtà è totalmente anarchica; nasce come modellista da bambino con la passione per i carri armati nazisti “solo dal punto di vista estetico” puntualizza  mettendo in mostra il suo orgoglio antifascista. Si accorge che gli piace modificare quei modellini e ci riesce anche dannatamente bene, ispirandosi all’universo post-atomico di Mad  Max, quindi decide di passare alle auto vere per le quali lui, figlio di un motociclista, sembra provare un richiamo del sangue, alquanto strano, visto che mi dice di non avere la patente.

La sua passione sono gli hot road e ovviamente il mentore spirituale è Big Daddy, mentre la sua formazione pratica avviene in quello stranissimo collettivo che sono i “mutoid”. Chi di voi li conosce sa benissimo di cosa parlo, chi di voi invece, banda di illetterati e semianalfabeti non li conosce, si faccia subito una ricerca su google per colmare almeno in minima parte l’abisso di ignoranza nel quale beatamente razzola!!

Da bravo artigiano a tutto tondo realizza tutto ciò che gli viene in mente, anche copertine di dischi, ma sempre usando materiali tradizionali e soprattutto poveri. Collanti, assemblanti, materiali di recupero di cui riplasma le forme.

Dimenticavo, non usa assolutamente il pc e con una punta di orgoglio mi dice che non sa nemmeno aprirsi la posta elettronica.

La creatività è un fatto soggettivo e ognuno mischia le sue abilità come vuole. Il concerto è una forma di istallazione e l’istallazione per lui ha un’attitudine live che deve essere vissuta come un concerto.

Tutto questo lo ha portato a convivere in libera associazione con Davide, in arte Wolfenstein, 35 anni, da 15 creativo, anche lui per caso.

Folgorato sulla via di Damasco in un cantiere dalle forme contorte di una vecchia sega circolare, comincia a modificarla fino a tirarne fuori un orologio.

Un po’  come Michelangelo lui vede le sue creazioni già all’interno degli oggetti su cui si appresta a lavorare. Il suo compito è tirarne fuori la natura oscura, quella celata che vive sotto l’uso quotidiano per cui gli oggetti sono stati concepiti. Rispetto al suo socio ha un approccio alla materia meno animalesco, ma non per questo meno affascinante: le sue opere hanno una precisione meccanica che ben si intona con i metalli di cui sono fatte.

Come tutti i taciturni si capisce che è un grande osservatore, viaggia molto, specie in America, paese dal quale viene sua moglie, ovvero la talent scout che lo ha “scoperto” incoraggiandolo sulla via della follia creativa. È lei infatti che gli cura il blog e gli realizza i flyer, oltre a fare un ottimo pollo farcito – aggiunge Murder Farts.

Iniziò a convogliare e ad organizzare la sua vena artistica proprio in america, osservando i fermenti del circuito di quella che è definita “Low art” o anche ex arte underground che per quanto imborghesita e commercializzata mantiene ancora vivo il suo lato sotterraneo.

Il rischio di sembrare un accademico però viene spazzato via dalla perentoria dichiarazione che “solo con la pratica” si acquisiscono le conoscenze necessarie a realizzare ciò che si vuole.

In più anche per lui la musica è una componente creativa essenziale, probabilmente il cemento alla base del sodalizio con Marco, con cui organizza mostre come se fossero concerti, con gruppi che suonano e un curatissimo Dj set.

Hanno fatto da colonna sonora ai loro eventi anche i Bone Machine, gruppo che io adoro e nel momento in cui vi scrivo, probabilmente i nostri due eroi saranno a fare da supporto con i loro lavori alla rassegna di cinema horror “interiora” che si sta svolgendo in questi giorni sempre al Forte.

Mentre parlo con loro, altre bottiglie si svuotano e le discussioni si incanalano sempre più in voli pindarici che difficilmente potrò usare per scrivere il pezzo.

Come se non bastasse alle nostre spalle c’è chi aspetta. Due ragazzi dell’etichetta indipendente “Dioniso-Punk” sono in attesa di parlare con la strana coppia per inserirli in un corto.

Non sarebbero fatti miei, in più ho già tutto quello che mi serve per l’articolo ma è difficile schiodarsi da li, quando il discorso verte sulla realizzazione di alcune sequenze che vedono Murder Farts nei panni di un gangster  vecchia scuola e lui in tutta risposta ai dettagli prettamente tecnici del regista, risponde che vuole recitare solo se il suo personaggio potrà usare una pistola a tamburo.

Me ne vado prima di diventare invadente, sperando di non esserlo già. Non so se Lord Omungus avrà la sua 44 magnum, certo mettere in mano ad un personaggio simile una Beretta semiautomatica sarebbe uno spreco, l’unica cosa che so di sicuro è che quando questo corto sarà proiettato potrà contare su un Master Blaster entusiasta, tra i fans in prima fila.

Master Blaster 

 

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