A vincere il premio per la migliore regia al Sundance 2024 (sezione World Cinema Dramatic) è un altro film sull’immigrazione, un altro film sulla situazione in Iran, un altro film di rifugiati: che non assomiglia a nessun altro film. In The Land of Brothers di Raha Amirfazli e Alireza Ghasemi, già in tandem ma qui al debutto nel lungo, abbordano una situazione pressoché inedita per i confini del campo cinematografico, vale a dire quella degli esuli afgani in Iran.
Non è storia catturata ai bordi del Paese. Da anni migliaia di famiglie si sono spostate dall’Afghanistan all’Iran, nel cuore profondo della “terra dei fratelli”; ancor di più dopo l’invasione americana del 2011. Sono una presenza numericamente cospicua e capillarmente inserita nella società iraniana, ma spesso ignorata dal Sistema, che ne stana i documenti mancanti, li controlla, inclina a trascurarne i diritti. Qualche volta, il detto fratelli coltelli non mente.
Raha Amirfazli e Alireza Ghasemi intrecciano una narrazione scaltra: stesso gruppo di rifugiati, tre storie, un’odissea in vent’anni. Lo slittamento dei punti di vista e il passare degli anni rifiniscono la tessitura drammatica, rilanciano lo sguardo spettatoriale, immergono in una comprensione approfondita ed empatica dello status dei personaggi – e di rimando, di migliaia di altri afgani. Cambiano umori e palette, ma la sofferenza è sempre percepibile, lo scenario sociale fortemente credibile. Nessuna sfilacciatura melodrammatica, né la toppa dello spiegone; prevalgono, anzi, ellissi e salti di narrazione. Li colmerà lo spettatore, muovendosi tra le storie sia nelle maglie del quotidiano, sia nell’ordito del più profondo dramma silenzioso.
Qualche spiegazione l’abbiamo chiesta noi, intervistando entrambe i registi: l’autrice Raha Amirfazli, da Parigi; l’autore Alireza Ghasemi, da New York. In Iran l’aria che tira non è sempre buona per il cinema libero. Per fortuna, c’è sempre qualche voce creativa che sa rifugiarsi nella libertà di espressione.
In the Land of Brothers: una clip
La trama di In the Land of Brothers
Mohammad (Mohammad Hosseini), studente liceale di 15 anni, si trova in un pasticciaccio a Bojnourd: la polizia gli ha imposto arbitrariamente di dare una mano nello sgombero di un archivio in uno scantinato allagato. A mamma e papà non dice nulla, nemmeno a Leila (Hamideh Jafari) e al fratello maggiore di lei, Qasem (Bashir Nikzad), con i quali lavora nella comune afgana. Mohammad e la ragazza si amano in segreto, ma Leila è destinata a un matrimonio combinato. Non solo: qualcun altro ha messo gli occhi addosso a Mohammad. Ed ha la divisa.
Dieci anni più tardi, Leila si trova a Bandar Anzali, lungo il Mar Caspio. Lei e il marito fanno da custodi alla residenza secondaria di una coppia benestante. Sta per arrivare il Capodanno persiano, i signori hanno ospiti. Ma ci sono due braccia da lavoro in meno: Leila trova il marito morto in stanza. A parlarne, non se ne parla: e se poi le chiedessero i documenti? Il lutto deve consumarsi tra i fuochi d’artificio: senza deflagrare
Infine, nel 2021, a Teheran, è Qasem, fratello di Leila, a diventare protagonista. Convocato al ministero degli Esteri, riceve una notizia su suo figlio, partito per la Turchia sei mesi prima. Troverà la forza e il modo per comunicarla alla moglie Hanieh (Marjan Khaleghi)?
L’intervista: Raha Amirfazli e Alireza Ghasemi parlano di In the Land of Brothers
GLI INVISIBILI
Cosa vi ha spinti a girare un film sui rifugiati afgani in Iran, un tema piuttosto insolito per il cinema iraniano?
Crescere nella nostra generazione in Iran significa avere amicizie strette nella comunità afgana dell’Iran. Entrambi abbiamo vissuto l’esperienza di aver perso un amico afgano a causa della deportazione o, nei casi più fortunati, i nostri amici sono emigrati in Europa. Molte delle storie che abbiamo ascoltato dalla comunità afgana non sono state ancora raccontate nel mondo del cinema, eppure sono il riflesso della vera umanità in un ambiente che ti considera inferiore. Se negli ultimi anni sono state trascurate, è perché la maggior parte delle persone le ritiene meno degne di nota nel mare di problemi dell’Iran.
A parte questo, abbiamo trovato piuttosto strano che gli afgani, nonostante vivano in Iran da generazioni e condividano la nostra cultura e la nostra lingua, non siano ritratti nel cinema iraniano. Nei pochi casi che si possono trovare, sono inclusi in fugaci storie secondarie o ritratti in modo infelice nelle commedie. La sensazione di un vuoto di rappresentanza e di una rappresentazione errata nel cinema ci ha spinto a onorare la loro comunità dando voce alle loro storie.
C’ERAVAMO RIFUGIATI
Quali sono stati i vantaggi e le sfide di raccontare la vostra storia in tre episodi e generazioni diverse?
Il vantaggio principale di poter raccontare una storia su 20 anni è quello di dipingere un quadro più ampio di una situazione, di far capire che i singoli personaggi vanno amati, ma diventa ancora più importante preoccuparsi dei tanti che non vediamo sullo schermo. Questa linea temporale kafkiana, che inizia con l’invasione statunitense dell’Afghanistan fino al ritiro delle truppe americane, offre allo spettatore l’opportunità di liberarsi dal regista e gli porge su piatto d’argento la possibilità di riempire da solo gli spazi vuoti dei 10 anni. Naturalmente questo ha comportato molte sfide e difficoltà logistiche che abbiamo dovuto risolvere, poiché volevamo girare in diverse città durante diverse stagioni.
Portateci letteralmente dietro le quinte: cambiare set e location, cosa significa concretamente? Come condiziona il processo filmico?
Questo significava che dovevamo rivolgerci alle persone più impegnate e appassionate che conoscevamo. Potevamo fidarci solo di chi avesse la pazienza di seguire il progetto dall’inizio alla fine. Abbiamo dovuto adattarci rapidamente a come la cultura della produzione cinematografica fosse diversa in altre città e abbiamo dovuto avere la forza mentale di continuare a pensare alle altre due storie mentre prendevamo le decisioni per l’altra. A parte le sfide, questo ci ha aiutato drasticamente ad avere una presenza non troppo invadente durante le riprese, dato che siamo stati messi alla prova anche dai permessi e dalle procedure governative.
Una delle sfide più importanti per l’intero team creativo è stata la necessità di rimanere fedeli all’architettura complessiva del film, alle tendenze della moda e all’estetica generale della linea temporale. Durante le numerose e lunghe sessioni di scouting, abbiamo scelto con cura le location relative ai decenni raccontati, per poi procedere alla ricerca dei costumi e alla progettazione del trucco seguendo le tendenze dell’epoca.
PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE
Ci potete parlare un po’ del processo di casting? Mi sembra di capire che il vostro direttore del casting sia un rifugiato afgano. L’impressione è che abbiate fatto casting e “ricerca” allo stesso tempo, cioè che siate alla ricerca non solo di attori, ma anche di storie.
Il processo di casting per In the Land of Brothers è stata una delle esperienze più preziose della nostra carriera. Abbiamo incontrato numerose persone della comunità hazara in Iran (gruppo etnico di religione prevalentemente islamica sciita, n.d.R.). Ma non volevamo fare un provino o far loro leggere delle battute sin da subito. Volevamo trovare i nostri personaggi, eravamo sicuri che fossero là fuori da qualche parte.
Quando le famiglie si presentavano ai casting, ci sedevamo e ascoltavamo le loro storie di vita. Dopo poco tempo, ci siamo resi conto che le storie che volevamo raccontare nel film erano esperienze comuni a molti. Sebbene questo sia stato molto straziante, ci ha dato la certezza che stavamo ritraendo personaggi ed esperienze autentiche. Dopo qualche mese, abbiamo trovato i nostri personaggi: un cast di grande talento con esperienze di vita simili a quelle dei loro personaggi, che erano appassionati e determinati a raccontare queste storie come lo eravamo noi.
In the Land of Brothers, Mohammad in primo piano alle prese con lo studio (courtesy Alpha Violet)
C’è un filo conduttore che lega i protagonisti delle tre storie: ognuno di loro, anche in grande difficoltà, non ne parla con nessuno, almeno all’inizio. Ci sono scene costruite in modo impressionante per rappresentare la loro solitudine, come quando Leila cambia le lenzuola al piano di sopra, per il pernottamento degli ospiti, mentre al piano di sotto la famiglia per cui lavora sta festeggiando, o Qasem che torna a casa da solo dopo aver ricevuto la brutta notizia. Da parte dei personaggi, si tratta di un modo di gestire il dolore o di un’autentica esperienza di solitudine?
I nostri protagonisti si rifugiano nella menzogna o nel nascondere la verità per sopravvivere. Spesso preferiscono nascondere la verità alle loro famiglie e ai loro cari per proteggerli da un’oscura verità, una verità sulla quale né loro né le loro famiglie possono farci nulla. Questi punti della trama sono stati costruiti per esprimere l’ingiustizia sistematica e l’amara constatazione che il Sistema è stato progettato e le leggi predisposte per remare contro i rifugiati in Iran.
Si tratta forse di una curiosità irrilevante, ma vorrei chiedere se c’è una ragione particolare nella costruzione del personaggio per cui Leila viene presentata con i capelli tinti all’inizio della seconda parte.
La nostra storia si svolge in tre luoghi geografici diversi, con un intervallo di dieci anni tra le vicende di ogni protagonista. È stato fondamentale per noi rimanere fedeli all’estetica di ogni decennio, e le tendenze della moda sono una parte importante della cultura pop. In Iran, negli anni 2010 è diventata famosa una tendenza per cui le donne si tingevano i capelli di biondo. Questa tendenza è diventata molto popolare. A causa della natura conservatrice della maggior parte della società iraniana, di solito le donne non si tingevano i capelli quando erano ancora single; sposarsi e passare dalla casa di famiglia a quella del coniuge significava avere la libertà di farlo. Nel nostro film, Leila appare con i suoi capelli naturali quando è single e con i capelli biondi dopo il matrimonio.
In the Land of Brothers, Leila nella prima parte del film (courtesy Alpha Violet)
L’AMICA (?) DI FAMIGLIA
La signora per cui Leila lavora fa a lei e al marito un regalo di Capodanno e, in generale, sembra intrattenere un rapporto cordiale con Leila e la sua famiglia. Mi chiedo, tuttavia, In generale, che rapporto voleste mostrare tra i rifugiati afgani e la comunità civile iraniana (prescindendo, quindi, dalle autorità). C’è un’integrazione piena e genuina o solo di facciata?
Il nostro obiettivo nel ritrarre la gente comune dell’Iran e il suo rapporto con la comunità afgana è stato quello di restituirne un’immagine attenta e soprattutto corrispondente alla realtà dei fatti: sono persone compassionevoli e amichevoli, a patto che non si trovino in difficoltà legali. Naturalmente, per statistica, è inevitabile trovare “buoni” e “cattivi”, vale a dire che ci sono iraniani che si impegnano veramente per rendere l’Iran una casa adeguata per i loro coetanei afgani, ma anche persone che li vedono come nemici.
Tuttavia, durante le molte interazioni che abbiamo avuto, nonché ascoltando molte storie, ci sentiamo di dire che l’esperienza comune sia quella di cui parlavi. Nel caso del nostro film, la famiglia sta anche lasciando l’Iran per costruirsi una nuova vita in Canada. Questo genera ancora più compassione, poiché si vedono nella stessa situazione di Leila, ma ciò li rende anche diffidenti nei confronti di ogni possibile problema che possa ostacolare la loro immigrazione, e quindi non offrono un vero aiuto.
BAND OF BROTHERS – FRATELLI AL FRONTE
Gli scenari sociali che mostrate in In the Land of Brothers variano di storia in storia. Dopo i tanti riferimenti alla carta di soggiorno nelle prime due parti del film, nella terza il figlio di Qasem viene evocato come soldato dell’esercito iraniano e c’è persino una cerimonia di cittadinanza. Dalla formula recitata nel cerimoniale, l’impressione, comunque, è che gli afgani siano diventati servi del Paese piuttosto che dei fratelli, ossia che l’integrazione vera ci sia solo quando gli afgani possano rendere un servizio ben preciso, come nel caso dell’arruolamento. Qual è la vostra prospettiva in merito?
Dopo l’iniziale immigrazione in Iran a seguito dell’invasione statunitense, gli afgani sono stati accolti calorosamente dal governo e dalla popolazione. Tuttavia, dopo un po’, l’aspettativa che tornassero in Afghanistan ha spinto il governo a emanare leggi molto discriminatorie per respingerli. Queste leggi sono state, appunto, l’inizio di una diffusa discriminazione nei loro confronti. Queste persone vivono in Iran da generazioni, ma sono private dei propri fondamentali diritti umani. Fino alla rarissima occasione in cui viene concessa loro la cittadinanza, non possono scegliere legalmente un lavoro diverso da quello manuale, non possono possedere proprietà e aprire conti bancari, il loro ingresso è vietato in alcune delle principali città iraniane e non possono nemmeno acquistare legalmente schede SIM a proprio nome. Non si può certo guardare a questa situazione e pensare che le persone che devono sopravvivere a queste leggi brutali siano uguali, fratelli, della società iraniana.
In the Land of Brothers, Qasem in un momento di sofferenza silenziosa (courtesy Alpha Violet)
Guardando In the Land of Brothers, si può notare che siete “specialisti in ellissi”, cioè utilizzate spesso in modo strategico i vuoti narrativi, non solo tra una storia e l’altra, bensì anche all’interno di ogni storia. Penso al rapporto tra il poliziotto e Mohammad nel primo racconto, che viene lasciato intuire. Penso anche a quando, nella terza storia, l’ufficiale dice a Quasem di dovergli riferire qualcosa d’importante, che però viene celato allo spettatore. Come motivereste queste scelte strategiche? E pensate che il cinema sia più efficace quando alluda piuttosto che mostrare?
Crediamo fermamente che nel cinema gran parte degli sviluppi importanti della storia avvengano al di fuori dell’inquadratura, come nella nostra vita quotidiana. Per noi il cinema è un mezzo che deve coinvolgere il pubblico a livello intellettuale. Ci aspettiamo che il nostro pubblico porti in sala la sua mente analitica e promettiamo di portarlo in un viaggio di cui sarà parte attiva e di cui godrà nella misura del suo impegno. È vero che il cinema è più efficace quando allude e non mostra tutto, ma a patto che i registi progettino con cura quando e quale parte della storia aspettarsi dal pubblico.
I COLORI DELL’ANIMA
Come direttore della fotografia di In the Land of Brothers vi siete avvalsi della collaborazione col talentuoso ed esperto Farshad Mohammadi. Sono curioso di sapere se avete riflettuto insieme sull’uso di una palette di colori diversa in base agli stati d’animo dei personaggi e se avete pensato di cambiare qualcosa in ogni parte del film, come se si trattasse di tre film diversi.
Per determinare le palette di colori di ogni storia sono stati presi in considerazione molti elementi diversi. L’estetica di ogni decennio storico, le scenografie e i costumi specifici per ogni cultura, l’importanza delle diverse stagioni e la geografia sono stati alcuni dei fattori determinanti. Tenendo a mente questi aspetti non negoziabili, abbiamo discusso con Farshad sull’umore di ogni storia e sull’impatto emotivo che stavamo cercando. Nella storia di Mohammad, era fondamentale che lo spettatore percepisse la sua solitudine. Per Leila, l’efficacia del contrasto tra il lutto e l’ambiente allegro di una festa è dovuta principalmente alla scelta dei colori. Per Qasem, l’attento mix di amore, protezione e perdita in un ambiente spietato è imitato anche nella palette.
LA TENTAZIONE DEL SILENZIO
Un’altra domanda sullo stile del film, collegandomi ancora agli stati d’animo e sul dolore dei personaggi. La musica di In the Land of Brothers è stata composta da Frédéric Alvarez. Come avete gestito la “tentazione del silenzio”? Avete discusso anche di come gestire i silenzi e non solo la musica.
Insieme a Frederick, abbiamo creato un paesaggio emotivo che enfatizza le emozioni primarie di ogni personaggio. Abbiamo esplorato l’emozione dominante in ogni sequenza del film. In molti casi, abbiamo scoperto che il silenzio aumentava significativamente il senso di solitudine. In questo modo, potevamo rappresentare stati emotivi più profondi senza bisogno di musica o addirittura di dialoghi. Questo metodo ci ha permesso di offrire un’esperienza più coinvolgente e profonda, avvicinando il pubblico alla vita interiore dei personaggi. Inoltre, l’uso del silenzio ha reso la musica di Frederick ancora più d’impatto. La musica appare sottilmente, poi svanisce, ma la sua breve presenza è preziosa e significativa, aggiungendo profondità al paesaggio emotivo che volevamo rappresentare.
DALL’IRAN CON FURORE CREATIVO
Ho intervistato diverse volte registi iraniani, come Ahmad Bahrami, Ali Asgari, Farnoosh Samadi, e nessuno dei loro film è stato tenero nei confronti della situazione in Iran. So che nessuno di voi due si trova al momento in Iran. È un’utopia oggi fare cinema libero restando in Iran?
Il più delle volte i governi che tendono al controllo commettono le azioni più violente quando temono l’instabilità. Questo ha messo fine all’accordo non ufficiale tra il cinema indipendente iraniano e la censura governativa. Ora il cinema indipendente si è spostato nella clandestinità. Fare film in Iran nel senso tradizionale del termine è diventato impossibile, ma questa non è la fine del cinema libero. La nuova generazione di artisti è diventata molto più coraggiosa e trova modi innovativi per raccontare le proprie storie.
Dopo il premio ricevuto al Sundance, che diffusione sperate per il vostro film e che accoglienza vi aspettate sia in Afghanistan che in Iran?
La vittoria al Sundance è un enorme voto di fiducia per il nostro film. Speriamo che questo porti a un’ampia diffusione. Per quanto riguarda l’Afghanistan, purtroppo è caduto sotto la brutalità dei Talebani. Anche se non ci aspettiamo un’uscita nelle sale, speriamo di condividere il film con il popolo afgano attraverso le piattaforme online. Siamo inoltre fiduciosi che In the Land of Brothers possa avere una buona risonanza presso il più attento pubblico iraniano e suscitare discussioni sulle condizioni degli immigrati in Iran.