La retrospettiva proposta da MUBI sulla filmografia di Martín Rejtman mette in risalto un regista poco conosciuto in Italia, rispetto al quale vogliamo proporre la recensione di un lavoro riassuntivo della sua poetica: Shakti.
Una storia d’amore, di depressione e di stravolgimenti inserita in un microcosmo apparentemente immobile.
Il film, prodotto da Un Puma e Forastero, ha come principali interpreti Ignacio Solomonese, Laura Visconti, e Miel Bargman.
Shakti: la trama
Federico, un ventenne di Buenos Aires, decide di lasciare la fidanzata il giorno in cui muore sua nonna. Crede che la notizia possa rattristare la ragazza, che, al contrario, non versa una lacrima e si trova un nuovo novio il giorno dopo. Il protagonista entra in depressione, situazione che non migliora né con le sedute dalla psicologa né con i consigli del fratello. Tutto sembra peggiorare, finché non incontra Shakti in discoteca.
Tornati a casa del ragazzo, i due mangiano i knish di patate (piatto tipico ebraico) cucinati dalla nonna di Federico prima di morire. Lo stesso piatto sarà poi riproposto ad una cena assieme ai parenti del protagonista, dopo che i due giovani si incontrano di nuovo e casualmente in giro.
La storia si conclude con i ragazzi che, a bordo dell’auto di lui, sfrecciano fuori dalla città.
Shakti: la fissità
Qual è la prima peculiarità che salta all’occhio guardando Shakti? L’incredibile fissità dei personaggi e della camera.
Partendo dagli interpreti, Ignacio Solomonese (Federico) fa un lavoro eccezionale nel mantenere sempre una monotonia totale nelle espressioni e nei movimenti, passando dal parlare di cibo ad autodefinirsi depresso con la stessa intonazione. Ciò porta il regista a muoversi su due livelli ben distinti: utilizzare questa non-espressitività per creare un senso di apatia generale (stato d’animo prediletto dal protagonista), e divertire utilizzando la cosiddetta deadpan comedy. Un esempio all’interno del film è la scelta del protagonista di sottoporsi ad un intervento per correggere la miopia, così da sembrare qualcun altro e sconfiggere la depressione. Federico si sente effettivamente qualcun altro, ma decide comunque di tenersi gli occhiali (nonostante non gli servano).
Un esempio di eliminazione dell’espressività nel cinema si ha con i film di Aki Kaurismäki. Una connessione ovvia si ha tra Federicoe Henri Boulanger, personaggio interpretato da Jean-Pierre Léaud in I Hired a Contract Killer del 1990. Uno dei divi della Nouvelle Vague interpreta un uomo depresso, che sogna di uccidersi. Affitta un assassino affinché ponga fine alle sue sofferenze ma, a pochi giorni dall’omicidio/suicidio, si innamora di una donna che riporta il sole nella sua vita. In entrambi casi, la felicità non è espressa da trasformazioni facciali, ma da azioni. In entrambi i casi, le coppie affini nell’apatia scappano da un mondo che sembra non comprenderli.
Il mondo interiore del protagonista è mostrato perfettamente da Rejtman anche nelle scelte registiche. La camera è fissa come i personaggi in scena e anche i colori non sono particolarmente saturati. La scelta che più accentua l’unicità dell’autore argentino sta nel tempo del montaggio, più precisamente nei momenti che normalmente verrebbero definiti morti alla fine di una sequenza. Spesso Rejtman sceglie di non tagliare alla scena successiva, nonostante tutte le azioni di quella precedente siano concluse e tutti i personaggi principali siano fuori campo o impassibili; ciò aumenta la creazione di un mondo totalmente personale, impassibile e pensato sotto ogni dettaglio.
Federico e i knish di patate.
Shakti: Un elogio alla brevità e alla lentezza
È raro tornare ad un cortometraggio dopo 4 film riconosciuti a livello internazionale. Tuttavia, Rejtman non ha paura di raccontare storie impattanti in un formato considerato da molti più semplice (erroneamente).
In un’intervista a La Berlinaleper la presentazione di Shakti alla 69a edizione del Festival, l’argentino risponde così ad una domanda relativa alla scelta del corto:
Può essere un antidoto salutare contro gli interminabili capitoli e stagioni del cinema contemporaneo.
La critica poco velata verte nei confronti della produzione in massa di serie televisive atte solo ad attrarre una certa fetta di pubblico, invece di raccontare qualcosa di realmente profondo e personale.
In un confronto con la rivista cinematografica australiana Senses of Cinema, l’autore sudamericano parla invece così della difficoltà di sfondare nel mondo dei cortometraggi oggigiorno:
Per come sono strutturate le piattaforme di streaming oggi è più facile fare un film, ma è molto più complesso rendere un corto una hit. Prima c’era molta più possibilità quando si facevano film indipendenti, ma ora è molto più difficile.
È dunque chiara la visione di Rejtman: il cinema delle grandi piattaforme sta schiacciando i piccoli artisti che, nonostante le facilitazioni tecniche rispetto ad epoche passate, hanno difficoltà ad emergere e mostrare la propria autorialità senza compromessi.
È forse a questo concetto che possiamo ricollegare la visione cinematografica dell’argentino: un mondo ideale, lento, senza esagerazioni, senza ornamenti velleitari. L’arte nella sua purezza.
Shakti
Anno: 2019
Durata: 19'
Distribuzione: Un Puma, Forastero
Genere: Commedia
Nazionalita: Argentina, Cile
Regia: Martín Rejtman
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