Nel buio di una notte piovosa una macchina percorre una strada immersa nel nulla della pianura texana. Al suo interno un uomo e una donna si scambiano poche parole e lunghi silenzi. La ragazza è sposata con un uomo che non ama mentre il suo accompagnatore, dipendente del locale gestito dal marito della donna, le confessa di essere sempre stato attratto da lei.
Inizia così, dopo un incipit di lande sterminate con isolate fattorie e pozzi di petrolio all’orizzonte e una voce fuoricampo che ci avverte che “in Texas tutti sono soli”, Blood Simple – Sangue facile, il primo lungometraggio che Joel ed Ethan Coen girarono dopo alcune esperienze maturate nel mondo dell’industria cinematografica, fra cui la collaborazione di Joel come assistente al film La casa di Sam Raimi.
Ora, il film dei Fratelli Coen, vincitore del Gran premio della Giuria al Sundance Film Festival, è disponibile sulla piattaforma Mubi.
Per il loro esordio dietro la macchina da presa Joel ed Ethan Coen scelgono di rifarsi esplicitamente al noir classico, rivedendone alcuni aspetti
Per il loro esordio i due cineasti di Minneapolis si rifanno in maniera esplicita al noir classico degli anni Quaranta e Cinquanta. In particolare, prendendo spunto da “Il postino suona sempre due volte”, romanzo che lo scrittore statunitense James M. Cain scrisse nel 1934, portato sullo schermo per ben tre volte (da Luchino Visconti con Ossessione nel 1943, da Tay Garnett nel 1946 e da Bob Rafelson nel 1981). Con una differenza, però: nel film dei Coen non è la coppia fedifraga a voler uccidere il marito, come accade nel romanzo, bensì quest’ultimo, Julian Marty (Dan Hedaya) che, scoperto il tradimento, decide di assoldare Visser, un losco detective (Michael Emmet Walsh), per far fuori l’uomo e la donna (Ray e Abby, rispettivamente interpretati da John Getz e Frances McDormand).
Il detective, che accetta l’incarico per una consistente somma di denaro, si rivela essere, tuttavia, un doppiogiochista. Introdottosi nell’appartamento dove stanno dormendo Ray e Abby, ruba una rivoltella dalla borsa della ragazza poi, dopo aver truccato alcune foto per simularne i cadaveri, fa credere a Marty di aver ucciso la coppia. Una volta intascati i soldi, spara all’uomo con la pistola di Abby per far ricadere i sospetti su di lei.
Ray, recatosi da Marty per esigere la paga che gli spetta, scopre il cadavere dell’uomo e trova la rivoltella di Abby, convincendosi, così, della colpevolezza dell’amante. Di conseguenza decide di far sparire il corpo di Marty, eliminando le prove per proteggere la ragazza.
Si viene, quindi, a innescare una serie di equivoci che noi spettatori, al contrario dei protagonisti, siamo in grado di comprendere in quanto costantemente informati dell’evolversi degli avvenimenti (chiaro riferimento alla cinematografia hitchcockiana). Fatti che porteranno, inevitabilmente, a un finale drammatico.
Un’opera prima che già propone le tematiche care ai due cineasti
Mescolando noir e horror, i Coen realizzano un film che mostra già in embrione le tematiche che saranno sviluppate nelle opere successive. In particolare, la rappresentazione della solitudine e dell’egoismo dell’uomo, un’umanità “condannata a una condizione di perenne infelicità”, come scrive Renato Venturelli nel suo “Cinema noir americano 1960-2020” pubblicato da Einaudi.
In Blood Simple – Sangue facile, i Coen pur avvalendosi di alcuni degli stilemi classici del noir, li sovvertono, confezionando un’opera spesso immersa nel buio in cui, tuttavia, il pericolo arriva dalla presenza di troppa luce e non dall’oscurità. Come, al contrario, accade nella maggior parte dei noir classici, spesso cupi, claustrofobici, dove il buio può essere considerato la rappresentazione del lato oscuro dell’animo, in cui si celano i mostri del nostro inconscio e, di conseguenza, il pericolo. Un esempio su tutti: Ray che ordina, inutilmente, ad Abby di spegnere la luce per non diventare facili bersagli di Visser appostato con un fucile.
Anche la figura del detective, in Blood Simple – Sangue facile, si discosta, in negativo, dalla figura classica dell’investigatore privato, quella cara agli scrittori hardboiled quali, ad esempio, Dashiell Hammett o Raymond Chandler. Visser, con la sua sfrontatezza, avidità e meschinità si allontana nettamente dalla figura dell’antieroe disilluso dalla vita, cinico e pessimista, ferito nell’animo ma con un suo codice morale al quale non intende venire meno.
Così, alla fine, ci rendiamo conto che i personaggi creati dai Coen sono tutti morti, sia quelli che morti lo sono per davvero, sia quelli che, apparentemente, rimangono in vita. Fantasmi che si muovono in una realtà di profonda solitudine, resa metaforicamente da quelle lunghe strade diritte, che si perdono nel nulla di una terra in cui, come detto, tutti sono sostanzialmente soli.
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