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‘The Store’: la distruzione dello stato sociale tra denuncia e sperimentazione

Una denuncia potente e a tratti visionaria

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Disponibile su IWONDERFULL (e su IWONDERFULL Prime Video Channel) The Store è l’opera terza della giovane regista svedese Ami-Ro Sköld. Un dramma anomalo, tra cinema del reale e animazione, che mette in scena le disumane condizioni di lavoro nella Svezia del nuovo millennio.

‘The Store’: la trama

Nel supermercato Smart, la store manager Eleni (Eliza Sica), madre single, per non perdere il posto è costretta a rinunciare alla maternità e tornare al lavoro. Ma i turni sono massacranti e a farne le spese sono soprattutto i suoi sottoposti. Lavoratori a chiamata costretti a confrontarsi con una realtà disumana che li vorrebbe infaticabili e sempre disponibili. Nel frattempo, fuori, ai senzatetto viene negata persino la possibilità di recuperare i cibi scaduti, messi sottochiave in un container.

Problemi in Paradiso

Sono luoghi comuni duri a morire quelli legati a un nord Europa proverbialmente attento al welfare, ai diritti dei lavoratori e, in generale, alla qualità della vita dei suoi cittadini. Eppure, guardando la Svezia raccontata da The Store, sembrano lontanissimi i tempi in cui i paesi scandinavi apparivano come un modello invidiabile di gestione sociale. Perché tutto nel film di Sköld pare ricordarci che le logiche del profitto hanno attecchito anche in questa realtà, distruggendo i diritti dei lavoratori e qualsiasi politica sociale di assistenza.

È proprio qui, in questo mondo oramai contraddistinto dal neoliberismo più feroce, che si innesta lo sguardo peculiare della regista. Una scelta a un tempo estetica e politica che porta allo scoperto i meccanismi della nuova società con un approccio sentito e militante. Mescolando live action e animazione, documentario e stop motion, The Store dà vita infatti a una realtà stilizzata – e solo leggermente distopica – che rispecchia a suo modo le logiche cristalline, immediate e “banali” del capitale. Trasformando, anche letteralmente, i suoi personaggi in burattini nelle mani del sistema.

Un mondo di pupazzi

È in questo balletto grottesco e terribile (le parti animate si concentrano soprattutto sulle interazioni che avvengono all’interno del supermercato, tra personale e clientela) che sta il senso del film di Sköld. Una realtà dove le logiche del profitto e del consumo (gli avventori che si azzuffano per una confezione di pollo in offerta) trasformano gli individui in corpi informi e abbozzati, quasi zombi (impossibile non pensare all’omonimo film di Romero) privi di identità e qualsiasi umanità.

In questo modo prende piede un dramma corale in cui le vite dei singoli personaggi si alternano e mischiano tra loro, soffocate da un’assenza di tempo e denaro che pare ormai cronica. Una realtà paradossale, che non contempla gli affetti e il tempo libero, trattando i suoi dipendenti come se non fossero più persone (surreale il momento in cui il capo della catena di negozi parla della necessità di velocizzare ulteriormente il lavoro affinché i clienti abbiano più tempo da passare con le loro famiglie). E a cui si affianca un sistema assistenziale (i pretesti cui gli assistenti sociali si aggrappano per non dare il sussidio al padre single Aamin) ottuso e incapace.

Verso una disumanizzazione globale

Con l’indignazione e l’umanità di un Loach (o un Brizé) scandinavo, ma con un’estetica e un approccio fortemente personali, Ami-Ro Sköld tratteggia così l’affresco desolante e carico di tensione di un mondo dove gli unici a restare realmente liberi – o, almeno, non passivamente rassegnati a questa progressiva disumanizzazione – sono gli homeless che vivono poco distanti dal supermercato. È a loro e alle brevi sequenze che li riguardano che la regista affida le vestigia di un mondo altro, oramai relegato ai limiti del quadro. Un mondo lontano anni luce da quelle logiche spietate e fagocitanti che hanno finito per accomunare la Svezia al resto del mondo.

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