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Éric Rohmer – Il poeta dell’animo umano
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3 mesi agoon
Jean Marie Maurice Schérer, conosciuto con lo pseudonimo di Éric Rohmer, è stato uno dei più importanti critici e autori cinematografici francesi. Nato nel 1920, si unisce nel 1951 ai Cahiers du cinéma, rivoluzionaria rivista di critica cinematografica (del quale fu caporedattore dal 1957 al 1963). All’interno della redazione lavorarono la maggior parte degli autori della Nouvelle Vague, contribuendo, appunto, alla nascita del movimento. Nonostante le sue attività di scrittore e critico, Rohmer deciderà di dedicarsi in prima persona all’arte cinematografica, inizialmente con piccoli corti e mediometraggi.
Dopo un inizio ampiamente influenzato dai film della Nouvelle Vague, l’autore svilupperà, molto presto, il suo personalissimo stile. Allontanandosi da una visione apertamente sperimentale, girerà opere semplici e basate sul dialogo. Queste tratteranno l’umano a tutto tondo, e, in particolare, i temi dell’amicizia e dell’amore.
Il suo cinema si divide in tre grandi cicli (intervallati da opere autonome). Il primo, tra gli anni ’60 e ’70, è quello dei Sei racconti morali. Il secondo, Commedie e proverbi, degli anni ’80, sarà quello che gli garantirà il successo internazionale. L’ultimo, negli anni ’90, è invece quello dei Racconti delle quattro stagioni.
Le prime opere di Rohmer
Le prime opere di Éric Rohmer sono di carattere decisamente indipendente, spesso girate nel contesto dei Cahiers du cinéma. Negli anni ’50, l’autore gira i suoi primi cortometraggi in 16 mm, alcuni di essi perduti. Tra quelli che sono rimasti conservati nel tempo, il primo risale al 1954: Berenice, tratto da un racconto di Edgar Allan Poe.
La trama è semplice. Un uomo, che vive in un’idilliaca villa di campagna, sviluppa un’ossessione nei confronti dei denti di sua cugina. Lo stile registico è essenziale, in contrasto con la mente malata del protagonista. Si farà più sperimentale, appunto, quando questi libererà i suoi istinti. Ciò che è maggiormente degno di nota è, appunto, il contesto produttivo. Il film è stato infatti girato nell’abitazione di Andrè Bazin (uno dei fondatori dei Cahiers du cinéma) con l’aiuto di Jacques Rivette. Il protagonista è interpretato da Rohmer stesso.
Altra caratteristica importante dell’opera è il suo utilizzo di un narratore interno, la cui voce va a completare la messa in scena, presente anche nel mediometraggio La sonate à Kreutzer, del 1956, basato sull’omonima opera di Tolstoj. Ancora una volta ciò che sorprende è la produzione interna ai Cahiers du cinèma, in questo caso a carico dello stesso Jean-Luc Godard, che fa anche l’ attore. Da ricordare, tra l’altro, la sequenza ambientata all’interno degli uffici della rivista stessa, nella quale sono presenti anche Chabrol, Truffaut e Bazin.
Dopo Veronique et son cancre, semplice corto comico del 1958, l’autore firma il suo primo lungometraggio, Il segno del leone, del 1959, che, tuttavia, si rivelerà un insuccesso. L’opera è molto differente, ma anche premonitrice di alcune tendenze del cinema di Rohmer. Racconta di un bohemien che, in attesa dell’eredità della ricca zia, scopre che questa sarà interamente affidata al cugino.
Sei racconti morali
È con i Sei racconti morali che Rohmer sviluppa lo stile che lo contraddistinguerà nelle opere successive. La serie, che mette in scena dilemmi etici di natura differente, ha come protagonisti sei uomini deboli, tentati da altrettante donne. Il tema principale è quindi quello dello scontro tra razionale e irrazionale. Gli ideali dei personaggi saranno messi a dura prova dal loro istinto. Rohmer, tuttavia, non cercherà di dare giudizi espliciti, limitandosi a porre interrogativi ai suoi spettatori.
I primi due racconti morali, La fornaia di Monceau (1962) e La carriera di Suzanne (1963), sono quelli più influenzati dal registro linguistico della Nouvelle Vague utilizzando, però, uno stile registico decisamente più semplice. I due film, rispettivamente un cortometraggio ed un lungometraggio, come avveniva spesso nella fase precedente, hanno una narrazione basata sul narratore interno. Le opere, tra l’altro, corrispondono alle prime due produzioni di Les Films du Losanges, società fondata dall’autore stesso nel 1962, insieme a Barbet Schroeder e Pierre Cottrell.
I racconti morali, come la maggior parte delle produzioni successive dell’autore, si configurano come analisi di brevi ma significativi momenti della vita dei loro protagonisti. Un esempio è il terzo capitolo, La mia notte con Maud, del 1969 (analizzato brevemente nel paragrafo successivo).
Le ultime tre opere della serie, che corrispondono al passaggio al colore, sono La collezionista (1967), Il ginocchio di Claire (1970) e L’amore il pomeriggio (1972). La fotografia è a carico di Néstros Almendros, che lavorerà anche a molte delle opere successive di Rohmer e di altri registi, tra cui Truffaut, Malick, Pakula e Scorsese. La messa in scena diventa più semplice e le tematiche si fanno più audaci. La narrazione in alcuni casi abbandona la linearità a favore di una divisione in capitoli. L’amore e il pomeriggio, in particolare, si distingue per l’utilizzo di sequenze oniriche, raramente utilizzate nel suo cinema e per il suo brillante racconto della depressione, concretizzato nel personaggio di Chloè.
I Sei racconti morali sono disponibili su Mubi.
La mia notte con Maud (Éric Rohmer, 1969)
Girato a seguito del quarto capitolo per via di problemi produttivi, La mia notte con Maud, del 1969, è uno dei capolavori di Éric Rohmer.
Il protagonista, Jean Louis, cristiano cattolico convinto, torna in Francia dopo una decina d’anni passati in America. Qui si innamora a prima vista della giovane Françoise, che vede in chiesa e prova a seguire a funzione terminata, perdendola però di vista. Una sera incontra Vidal, un vecchio amico, nonché professore di filosofia, che decide di invitarlo a passare la serata a casa di una conoscente, Maud. La troppa confidenza della donna convince Vidal ad andarsene, lasciando i due da soli. Il protagonista si ritoverà quindi a farsi tentare da Maud, che gli proporrà di dormire insieme.
L’opera è caratterizzata da una messa in scena semplice, all’interno della quale vi è una focalizzazione, in particolare, sul dialogo. La tematica principale è quella dello scontro tra virtù religiosa e istinto. La prima è rappresentata dalla cristianità di Jean Louis, il secondo dalla sua attrazione verso Maud.
È una delle opere più esplicitamente filosofiche del regista. I protagonisti discutono spesso di Pascal, in particolare riguardo le conseguenze della sua celebre scommessa, secondo la quale, in breve, conviene scommettere sull’esistenza di Dio nonostante le probabilità sembrino minime, in quanto tale credenza potrebbe dare un senso alla propria vita. Tale concezione rispecchia il modo di intendere la vita sentimentale di Jean Louis, il quale, in attesa del matrimonio ideale, reprime i suoi sentimenti, limitando il suo modo di agire.
La mia notte con Maud rispecchia un’epoca del cinema di Rohmer molto teorica. I suoi personaggi rappresentano incarnazioni di valori in conflitto tra loro. Ciò che stupisce è la naturalezza con cui l’autore riesce a far convivere la necessità di raccontare scontri morali e, contemporaneamente, mettere in scena personaggi con una personalità sviluppata a tutto tondo in situazioni di vita semplici e quotidiane.
“Quel giorno, lunedì 21 dicembre, mi è venuta l’idea, improvvisa, precisa, definitiva, che Françoise sarebbe stata mia moglie”.
Un periodo di transizione
Dopo i Sei racconti morali, Rohmer decide di ritornare alle sceneggiature tratte da romanzi, abbandonando, temporaneamente, lo stile delle opere che lo hanno reso celebre. Qualche anno dopo L’amore e il pomeriggio, nel 1976, l’autore gira La marchesa von O, tratto da un romanzo di Heinrich Von Kleist. L’opera, instantaneamente riconoscibile per la fotografia di Néstros Almendros, composta solamente da illuminazione naturale e a candela, ha come evento centrale lo stupro di una marchesa italiana. Rohmer sceglie di focalizzare l’intero film sulle conseguenze dell’evento senza mai metterlo in scena, se non attraverso una potente inquadratura (ambientata, probabilmente, dopo l’atto), che richiama l’Incubo di Füssli e che sottolinea l’impossibilità di mettere in scena una tale violenza.
Ciò che contraddistingue l’opera è la sua natura decisamente teatrale ed impostata, messa in evidenza, in particolare, dalla composizione quasi pittorica delle inquadrature. Lo stesso si può dire di Il fuorilegge, del 1978, tratto dal poema incompiuto Le conte du Graal ou le Roman de Perceval di Chrétien de Troyes. Il film rappresenta una vera e propria perla nascosta nella filmografia dell’autore. In particolare, la messa in scena è completamente diversa dai film precedenti e successivi. I colori sono accesi, le immagini sono spesso piatte, le scenografie sono minimaliste e quasi metafisiche. Il risultato è più vicino ai canoni teatrali piuttosto che cinematografici. L’artificio è messo in evidenza, la volontà dei personaggi può brillare all’interno di un ambiente controllato e ricostruito, opposto, appunto, all’approccio che l’autore adotterà con la serie Commedie e proverbi.
Commedie e proverbi
Dopo il periodo transitorio degli anni ‘70, Rohmer decide di ritornare sui suoi passi, riprendendo ed evolvendo lo stile dei Sei racconti morali. Gli anni ‘80, con la serie Commedie e proverbi, saranno quindi il decennio che decreterà il successo, anche internazionale, dell’autore. La premessa è semplice, le sceneggiature dei sei film si basano ognuna su un proverbio. Questo verrà messo in scena, spesso con ironia, dai protagonisti delle opere.
Il nuovo ciclo di Rohmer si configura in una serie di opere sempre più tecnicamente semplici, brevi ritratti di episodi di vita raccontati con estrema naturalezza. La fotografia diviene più chiara e nitida. La regia è composta, per lo più, da inquadrature a camera fissa, che lasciano liberi i personaggi di esprimersi senza artifici narrativi. Se i movimenti di macchina diminuiscono, quelli interni all’inquadratura acquisiscono un’importanza sempre maggiore. Più che mai, il cinema di Rohmer, trova la sua centralità nei protagonisti e nei loro interpreti.
Nel 1981 gira La moglie dell’aviatore, nel 1982, Il bel matrimonio. Entrambi riescono già a delineare i cambiamenti nella messa in scena dell’autore. Lo stesso anno esce Pauline sulla spiaggia, uno degli indiscussi capolavori del regista. Racconta l’approccio alla vita sentimentale da parte di una giovane ragazza e di sua cugina, sui trent’anni. L’esplorazione dell’amore e della sessualità avviene tramite una messa in scena minimalista, che spesso richiama le opere di Matisse, ma allo stesso tempo simbolica.
L’opera incarna perfettamente tre delle caratteristiche del cinema degli anni ‘80 (e in alcuni casi anche precedente) dell’autore. I personaggi vivono una quotidianità libera dagli impegni, spesso vacanziera, si trovano in un periodo di profonda transizione e, soprattutto, il focus della messa in scena è da ricercarsi nella componente dialogica. Tutto è reso con estrema naturalezza.
Nel 1986, dopo il successo di Le notti della luna piena (1984), gira quello che è probabilmente il suo film più riuscito, Il raggio verde, che gli garantisce la vittoria della Palma D’Oro. L’ultima opera della serie è L’amico della mia amica, del 1987, che, attraverso i suoi scenari moderni e ideali, e il suo racconto di due storie d’amore basate sugli equivoci, riassume perfettamente tutte le tematiche del cinema di Rohmer.
Il raggio verde (Éric Rohmer, 1986)
Vincitore della Palma D’Oro al festival di Cannes del 1986, Il raggio verde può essere considerato il capolavoro di Éric Rohmer. L’opera non presenta una trama vera e propria. Mette in scena la ricerca di un posto (e una persona) con cui passare l’estate della solitaria protagonista, Delphine, dopo la fine di una lunga relazione.
Ciò che contraddistingue Il raggio verde è la sua volontà di portare all’estremo la naturalezza della messa in scena. Il film, infatti, è stato prodotto senza una sceneggiatura ben delineata, con solo alcuni punti principali già decisi e affidandosi all’improvvisazione. Tutto ciò è possibile in quanto Rohmer decide di far coincidere le emozioni della sua protagonista, Delphine, con quelle dell’attrice che la interpreta, Marie Rivière, che, nel mettere in scena i suoi stessi sentimenti di inadeguatezza e solitudine, diventa quasi co-autrice.
La sensazione di un racconto sincero è data anche dal lavoro dell’autore con gli altri attori, spesso non professionisti. Come avveniva, in alcuni casi, già nei Sei racconti morali, Rohmer, durante il processo di scrittura, registra le sue reali conversazioni con gli attori, per poi trascriverle, talvolta inalterate, nella sceneggiatura. Altre volte, invece, i dialoghi sono del tutto improvvisati. Un esempio è quello in cui Delphine parla della sua scelta di essere vegetariana, nella quale l’attrice protagonista espone i suoi reali pensieri. Tutto ciò permette di scavare nei soggetti in maniera profonda, analizzando l’umano oltre i limiti delle tecniche narrative.
L’opera, che in alcuni casi assume un’aria quasi mistica, presenta una struttura di fondo radicalmente legata alla realtà. Il ritmo è scandito dal naturale alternarsi delle giornate, che, come in Il ginocchio di Claire, costituiscono veri e propri segmenti narrativi. Questi si distaccano dalle tecniche di scrittura classica, proponendo una storia formata da eventi spesso irrazionali (che dipendono dalle reali decisioni di Marie Rivière) ed in alcuni casi inconcludenti. Lo spettatore è quindi testimone di una serie di tentativi fallimentari da parte di Delphine di ricercare, in una serie di scenari profondamente differenti, un ambiente in cui possa sentirsi compresa.
Il raggio verde è un viaggio senza meta, una disperata ricerca, spesso irrazionale, di un qualcosa che ancora non si conosce. La forza dell’opera sta nella sua natura inconcludente, perfetta per raccontare la profonda solitudine della sua protagonista e della sua interprete.
Ah! Venga il tempo
In cui i cuori si innamorano!
Racconti delle quattro stagioni
Nel 1987 (oltre a L’amico della mia amica) Rohmer gira Reinette e Mirabelle, che racconta quattro episodi di vita seguendo uno tecnica di scrittura simile a quello di Il raggio verde. La differenza sostanziale è da ricercarsi, tuttavia, nel genere di riferimento, in questo caso più prossimo alla commedia.
L’ultimo grande ciclo dell’autore, I racconti delle quattro stagioni, inizia nel 1998, con Racconto di primavera ed è composta da quattro film. Rientrano nella serie, quindi, Racconto d’inverno (1992), Racconto d’estate (1996) e Racconto d’autunno (1998). Le opere continuano lungo il percorso segnato dal ciclo Commedie e proverbi. La differenza sostanziale è da ricercarsi in un interesse ancora maggiore nel racconto, senza filtri, di scene di vita semplici. Le opere assumono una maggiore coralità, il focus sui personaggi e sulle loro conversazioni aumenta. Tutto ciò porta ad una regia ancora più minimalista, come nel caso di Racconto d’autunno, formato quasi esclusivamente da inquadrature frontali e ravvicinate, che permettono di scavare nell’intimo dei personaggi.
L’opera più riuscita della serie è Racconto d’estate (o Un ragazzo, tre ragazze) che, ancora una volta, è ambientato durante il tempo sospeso delle vacanze. Il film ha come centro un personaggio quasi passivo, un giovane ragazzo che si interfaccia, in modo sempre differente, a tre ragazze. Le differenti relazioni mettono in luce la debolezza del protagonista, che non riuscendo a prendere decisioni, vive tre amori parziali, mai definitivi.
L’ultimo grande ciclo di Rohmer è la prova del suo personalissimo modo di intendere la narrazione cinematografica. Il suo cinema non vuole creare una realtà nuova ma, al contrario, cercare di cogliere nel profondo quella di tutti i giorni. Questa tendenza è confermata anche dalle altre due sue opere degli anni ’90, esterne alla serie: L’albero, il sindaco, la mediateca, del 1992, e Incontri a Parigi, del 1995.
Le ultime opere di Rohmer
Gli anni 2000 vedono l’uscita delle ultime tre opere di Rohmer, che rappresentano un ritorno alle origini. Tutte, infatti, sono film in costume e, ad eccezione della seconda, sono tratte da soggetti non originali. Il primo è La nobildonna e il duca, del 2001, tratto dalle memorie della contessa scozzese Grace Elliot. L’opera si configura come una serie di avvenimenti, ognuno distante mesi o anni dal precedente, ambientati durante la rivoluzione francese. Come nel precedente La marchesa Von O, ciò che stupisce è la fotografia che, insieme ad una composizione estremamente dettagliata, restituisce una serie di inquadrature pittoriche.
Triple agent (disponibile su RaiPlay), del 2004, rappresenta invece un’anomalia nella produzione dell’autore. É infatti un thriller ambientato negli anni ’30, che ha come protagonista un generale russo dell’Armata Bianca in esilio. Il film gli garantirà il Leone D’Oro alla carriera alla 58° mostra del Cinema di Venezia.
L’ultima opera di Rohmer è invece Gli amori di Astrea e Celadon, del 2007, tratto dal romanzo L’Astrea di Honoré D’Urfé. Il progetto, che doveva essere inizialmente diretto da Frank Zucca, è quasi definibile un omaggio al fotografo francese, deceduto prima della sua realizzazione. Sancisce anche il ritorno di Marie Rivière, che l’autore ha voluto chiamare, anche solo per un ruolo minore. L’opera, ambientata nella Gallia del quinto secolo, racconta la storia d’amore proibita di due giovani appartenenti a famiglie rivali. Come le altre sue opere in costume, il suo punto di forza è la fotografia che, ancora una volta risulta quasi pittorica e, in questo caso, decisamente idilliaca. Una delle differenze sostanziali con le opere precedenti è la presenza del fantastico, concretizzato da elementi appartenenti al mito. Questi sono utilizzati, principalmente, come catalizzatori del percorso emotivo dei protagonisti e, in alcuni casi, come simbolo della loro psiche.
È con questo ultimo film, così diverso ma, contemporaneamente, frutto di un percorso lungo più di cinquant’anni, che Èric Rohmer conclude la sua carriera da regista. L’autore, infatti, morirà l’11 gennaio 2010, all’età di 89 anni.
L’eredità di Éric Rohmer
Il cinema di Éric Rohmer, che a prima vista può sembrare lento ed eccessivamente semplice, rappresenta invece un costante tentativo di scavare nell’animo umano. Attraverso il suo rifiuto di un linguaggio cinematografico classico, l’autore si allontana dagli artifici delle tecniche narrative e registiche. Cerca quindi di cogliere quella purezza che, proprio come il raggio verde, percepibile nel breve istante che sancisce la fine del tramonto, è possibile scoprire nei rari e intensi momenti di sincerità che l’individuo può scorgere nel’ambiente che lo circonda.
I dialoghi si dilatano, reclamano lo spazio che hanno nelle reali conversazioni che scandiscono la nostra vita. I personaggi, ben inquadrati, in modo da lasciar trasparire il loro profondo stato d’animo, si sovrappongono con gli attori che li interpretano. Le coincidenze, perfettamente architettate, sono spesso portatrici di piccoli e grandi cambiamenti e, talvolta, veri e propri periodi di transizione. La sensazione è quella di un’eterna vacanza, di una continua sospensione. Questa permette al personaggio rohmeriano di mettere da parte le piccole preoccupazioni della vita quotidiana per riflettere su sé stessi, sul rapporto con gli altri e sulla vita in generale.
Ecco quindi che la lentezza e la semplicità della narrazione diventano portatrici di un’atmosfera unica, la cui naturalezza è raramente replicata nella settima arte. I grandi cicli di Éric Rohmer, ma anche le opere che a prima vista possono essere considerate secondarie, vanno quindi a formare un ecosistema chiuso. Al suo interno, nel corso di 50 anni, l’autore ha portato avanti la sua personale ricerca sull’animo umano.
Film come La mia notte con Maud, L’amore il pomeriggio, Pauline alla spiaggia, Il raggio verde e Racconto d’estate, sono difficilmente consigliabili per via del loro procedere atipico e, in alcuni casi, inconcludente. Tuttavia, coloro che decideranno di provare a immergersi in una delle opere del maestro francese, saranno sicuramente testimoni di un’esperienza unica, la cui atmosfera, se riuscirà a catturarli, difficilmente li lascerà insoddisfatti e, sicuramente, genererà in loro la volontà di approfondire anche le altre.