In una di queste strade, nel quartiere Sanità, precisamente in Via Santa Maria Antesaecula al civico 107, sorge una palazzina divenuta mecca di interesse per i visitatori. Peccato che l’entusiasmo si scontra con la delusione, in quanto ad oggi è impossibile varcare la soglia della casa che ha visto nascere, il 15 febbraio del 1898, Antonio Clemente, noto all’anagrafe, dal 1921, come Antonio De Curtis, universalmente celebrato come Totò.
Le origini nobiliari, e non, del Principe De Curtis
Il 15 febbraio 1898 nasce, da Anna Clemente (1881-1947), Totò. Inizialmente non riconosciuto dal padre, Giuseppe De Curtis (1873-1944), in quanto frutto di una relazione clandestina, acquisì il cognome della madre. Solo successivamente, il padre concesse il proprio cognome al figlio. Tuttavia, nel 1933, Totò venne adottato dal marchese Francesco Maria Gagliardi, il quale gli conferì i propri titoli nobiliari in cambio di un vitalizio. Ciò nonostante, solo nel 1946 Totò avrà la possibilità di fregiarsi dei titoli araldici acquisiti, in seguito a una lunga battaglia legale condotta aspramente, riuscendo ad essere riconosciuto come oggi si riporta sulla sua lapide: Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio.
Questa è soltanto un’esaustiva sintesi delle meticolose indagini condotte da Totò sulla propria genealogia attraverso i secoli. L’artista è infatti ammirevole per la tenacia con cui ha cercato di riportare alla luce informazioni riguardanti le radici della sua stirpe, risalendo a tempi antichi compresi tra il XVI e il XVII secolo, sino a confermare la sua discendenza dalla famiglia imperiale bizantina dei Focas, attraverso un antenato di nome Angelo Griffo, che nel XVI secolo mutò il cognome in De Curtis.
L’infanzia e i primi passi nel mondo del teatro
Fin dalla tenera età, Totò manifestò una singolare propensione per la teatralità, relegando in secondo piano gli studi accademici a causa di un background tutt’altro che nobile e a notevoli disagi economici. Un episodio unico nella sua vita riguarda la deformazione facciale, elemento distintivo che lo rese riconoscibile sui palcoscenici e successivamente nel mondo del cinema, con un impatto iconografico significativo.
Infatti, durante il periodo di istruzione, Totò fu oggetto di un episodio straordinario: colpito da un precettore irritato dalla sua vivacità e dalla mancanza di attenzione agli studi, subì una deviazione del setto nasale, con conseguente atrofia della parte sinistra del viso. Questa particolare asimmetria definì in modo unico il suo volto, diventando un tratto distintivo che lo rese celebre, colorando le espressioni comiche delle sue performance sul palcoscenico e sul grande schermo.
Avviata la sua carriera nei teatri della periferia, Totò esordì sul palcoscenico presentando spettacoli macchiettisti e imitazioni banali, inizialmente accolte con freddezza dal pubblico. Tale insuccesso lo portò a intraprendere una strada alternativa, arruolandosi nel Regio Esercito all’età di 16 anni. Nei ranghi di “Uomini e Caporali,” Totò, fin da giovane, trovò difficile accettare l’ordine gerarchico imposto dalla divisa e, mediante un ingegnoso escamotage, fu riformato.
Nel 1922, al termine della Grande Guerra, Totò, contravvenendo alla volontà dei suoi genitori, decise di trasferirsi a Roma per perseguire il sogno teatrale a lungo rimasto inespresso. Nella capitale entrò in contatto con Umberto Capece, capo di una troupe di artisti svogliati, il quale lo ingaggiò come “straordinario”. Nonostante il successo ottenuto interpretando l’antagonista di Pulcinella, Totò si trovò in difficoltà economiche e la sua richiesta di un aumento fu respinta dal burbero Capece, che lo sostituì immediatamente.
L’ambito successo
Dopo l’esperienza nella compagnia di Capece, Totò affrontò la delusione dedicandosi a esibizioni sporadiche, esibendosi come solista in spettacoli saltuari. In questo periodo, dimostrò la sua maestria nelle imitazioni e presentò repertori acclamati. Il coraggio di presentare le sue doti al prestigioso Teatro Jovinelli, luogo sacro che aveva ospitato attori di rilievo come Gustavo De Marco, lo portò a esibirsi con il repertorio di quest’ultimo, ottenendo l’approvazione e il plauso del pubblico.
Diverse produzioni, tra cui Il bel Ciccillo, Vipera e Il Paraguay, contribuirono a consolidare il nome di Totò sui manifesti pubblicitari affissi fuori dai teatri. Tuttavia, il vero successo giunse a Napoli con gli spettacoli della rivista Messalina, dove Totò brillò accanto a Titina De Filippo, sorella di Eduardo, colui con cui il grande affetto reciproco segnerà parte della vita dell’artista partenopeo.
La profonda amicizia con Eduardo De Filippo
Totò e Eduardo De Filippo, nel panorama artistico italiano, hanno condiviso le luci dei palcoscenici, ma anche le ombre dei sacrifici. Questi due straordinari artisti hanno tessuto una profonda amicizia, un legame che ha resistito al passare dei decenni e si è trasformato in un autentico sentimento di fratellanza. Totò, il principe della risata, e Eduardo De Filippo, il maestro del teatro napoletano, hanno condiviso molto più di battute e siparietti. La loro amicizia è stata la linfa vitale di una collaborazione sincera, complice di opere di straordinaria importanza.
Numerose immagini immortalano i due artisti in momenti di vita: Totò con il suo sorriso contagioso e Eduardo con lo sguardo profondo. Queste testimonianze tangibili di affetto ci ricordano quanto fossero legati, non solo professionalmente ma anche umanamente. Le parole scritte su carta hanno fissato per sempre il legame tra i due. Le lettere scambiate, i biglietti di auguri, le dediche sui libri: ogni traccia di questa amicizia è preziosa come un tesoro custodito gelosamente.
Lettere e ricordi
Una prova di inestimabile importanza è proprio il modo in cui Totò accettò l’invito di Eduardo a partecipare alle riprese del film Napoli Milionaria, dichiarando: “Accetto! Eduardo, con te lavoro gratis”, Eduardo rispose con immensa gratitudine. Una breve ma intensa lettera, tramandata fino a noi grazie a Liliana De Curtis, testimonia l’affetto e la stima reciproca tra questi due grandi maestri. In quel gesto si cela la grandezza di due anime artistiche che, al di là delle differenze politiche e delle maschere teatrali, hanno saputo donarsi l’uno all’altro con generosità e umanità.
Lettera di Eduardo a Totò
Caro Antonio,
la sincerità dell’impulso che ti ha spinto ad accettare di essermi vicino nel mio film ‘Napoli Milionaria’ ha reso spontaneo e significativo il gesto stesso. A parte qualunque interesse, questa collaborazione che io ti ho chiesto, ci riporterà, sia pure per pochi giorni, ai tempi felici e squallidi della nostra giovinezza.
Ogni qual volta penso a te, amico, te l’ho detto a voce, e voglio ripetertelo per iscritto, ho l’impressione di non essere più solo nella vita. Questa benefica certezza mi viene senza dubbio dalle infinite dimostrazioni pratiche di affetto che tu, in qualsiasi occasione, mi dai.
In ricordo di tanto, ti prego di offrire alla tua Gentile Signora questo segno di pura simpatia, che vuol essere, e lo è, il senso vivo dell’ammirazione che ho per te.
Tuo,
Eduardo De Filippo.
Totò e Eduardo De Filippo
Questa lettera non racchiude solo attimi in cui Totò accettò di partecipare all’opera di Eduardo, ma veri e propri momenti di vita vissuta, di fulgida realtà che si separano dal mondo delle finzioni ed emergono nell’affetto più sincero. A conferma di ciò, un racconto toccante ci porta indietro nel tempo, precisamente quando Eduardo, all’età di 20 anni, fu colto da un malore durante una trasferta a Palermo. In quella stessa città, Totò si trovava per una tournée. Venuto a conoscenza delle condizioni dell’amico, si racconta che Totò visitasse Eduardo ad ogni ripresa, per accertarsi della sua salute e strappargli qualche sorriso. Difatti è noto che in quella precisa situazione si travestisse da infermiere e si armasse di qualche buona barzelletta
Durante il periodo del regime fascista, Totò emerse come un’artista vittima delle restrizioni della censura, con la satira allontanata dai palcoscenici e dalla cinepresa. Mostrò notevole resistenza, basata sulla ricca esperienza di vita maturata nei panni del popolo tra degrado e difficoltà, condannando le gerarchie e gli abusi contro i più deboli, una prospettiva inconciliabile con le esigenze del regime profondamente autoritario.
In questo contesto, Totò ammise che gli fu permessa una limitata dose di satira, specialmente nelle riviste, ma al contempo subì numerose censure che impedivano di esprimere apertamente un dissenso politico. Difatti, nel suo debutto sul grande schermo nel 1937, nel film Fermo con le mani, diretto da Gero Zambuto, lo troviamo nei panni di uno Charlot italiano alle prese con la disoccupazione, la fame e una divertente storia, caratterizzata da gag che non facevano riferimento al periodo storico in corso, al fine di esimere eventuali contestazioni.
È in ambito teatrale che l’artista sviluppò un riferimento più esplicito all’attualità, mettendosi in controtendenza con la mannaia della censura. Il rischio maggiore lo affrontò durante uno spettacolo con Anna Magnani, incentrato sull’occupazione tedesca, inizialmente intitolato Ma che si sono messi in testa, successivamente modificato in Che si è messo in testa. Lo spettacolo presentava riferimenti sin troppo evidenti e impertinenti nei confronti della potenza occupante, al punto da irritare gli ufficiali del Reich che ordinarono la cattura di Totò e dei fratelli De Filippo. Tuttavia, l’arresto non avvenne mai, grazie all’intervento di coraggiosi e silenziosi oppositori che riuscirono a nascondere gli attori fino alla fine della guerra.
Totò, il ripudio alla guerra e una critica feroce al potere
La guerra, uno dei temi più dibattuti nel panorama cinematografico postbellico, fu per Totò l’occasione di manifestare il suo astio verso i totalitarismi e il ricorso alle armi. A prova di ciò, al termine del conflitto, insieme a Anna Magnani, Totò si esibì immediatamente in uno spettacolo in cui interpretò una spietata caricatura di Hitler e Mussolini.
Anche sul grande schermo, la derisione nei confronti della vita militare e le condanne allo stile di vita pedante, orientato alla soppressione dei più deboli, emergono attraverso l’eccessività scenica del Totò comico e drammaturgo. Nel film Yvonne la Nuit del 1949, diretto da Giuseppe Amato, trent’anni dopo la conclusione della Grande Guerra, in un’Italia ancora permeata dallo spirito patriottico, Totò si schiera contro la guerra. Condanna le motivazioni belliche, ponendo la morte come concausa del dovere di impugnare le armi, sottolineando le sofferenze di chi resta solo,. vittima dell’assenza di coloro che sacrificano la propria vita in nome dell’ideale del potere.
Siamo Uomini o Caporali
Ancora più incisivo e ampiamente sviluppato è il concetto con cui Totò si confronta con i poteri dominanti in Siamo Uomini o Caporali (1955), film diretto da Camillo Mastrocinque. Quest’opera affronta, con una comicità pungente, le nette differenze tra coloro che Totò stesso definisce “Uomini,” coloro che lavorano duramente, e i “Caporali,” coloro che li sottopongono a fatica. È in questa pellicola che, dai tempi della guerra, i Caporali accompagnano Totò Esposito attraverso una serie di eventi che lo rendono una vittima inconsapevole delle decisioni di coloro che indossano una divisa, ricoprono un ruolo, mostrano prestigio e dominano sugli uomini.
Questa critica, astuta e senza compromessi, caratteristica peculiare di Totò, si svolge in un clima di gioia e semplicità espressiva, consolidato dall’autenticità del Principe della Risata, che colpisce il sistema gerarchico, ridicolizzando se stesso in virtù di una ribellione che solo il linguaggio cinematografico può interpretare.
I Due Colonnelli
Totò, con la sua critica palese e talvolta spietata, ha sempre osteggiato la concezione: “Italiani brava gente“. Piuttosto ha costantemente adottato un realismo in sintonia con i contesti da lui vissuti, con una profonda conoscenza delle districate venature del contesto sociale. Nel film I Due Colonnelli (1963), diretto da Steno, l’uomo si confronta con l’uniforme, in un eccesso di patriottismo antiliberale e monocratico. Didascalico di uno strato sociale, ampiamente discusso, dell’epoca, ma complice di una commedia che nella leggerezza ha offerto una formalità anticonvenzionale dell’impronta politica.
Il Colonnello Di Maggio (Totò), a capo di un battaglione di pochi uomini in Grecia, si trova di fronte al nemico inglese, rappresentato dal Colonnello Henderson (Walter Pidgeon). Il primo, fascista, dispotico e apparentemente ignorante, è responsabile di torture (che, nonostante la vena comica, suscitano riflessioni), inflitte alla popolazione civile. È odiato e poco stimato, raffigurando con gli eccessi tipici lo sdoganamento del fascismo ideale. Il secondo, democratico, educato e leale, rispetta le convenzioni di Ginevra e si mostra vicino al popolo, incarnando l’americanità che in quegli anni rappresentava una bonarietà innata, accompagnata da un forte trascendimento generazionale. I due, animati da ideali opposti, si trovano reciprocamente prigionieri, in un legame che supera l’uniforme e abbraccia la morale dell’uomo, oltrepassando l’ordine militare in contrasto con giudizio e libero arbitrio.
Questo film, concluso con un lieto fine, è senza dubbio una satira accesa nei confronti di un intero regime, personificato dal Colonnello Di Maggio come una macchietta del fascista medio e dei suoi modi d’agire. La ridicolaggine delle azioni e l’esasperazione dei discorsi, svestono il fascista dell’autorità, dipingendo un quadro di ignoranza basata su concetti basilari e stereotipici, alimentata dalla limitatezza dei mezzi a disposizione.
Totò, nelle sue vesti più note
Nel linguaggio comune, Totò è noto per essere la compagnia dei pranzi domenicali in famiglia, la figura chiave della commedia leggera e vivace. Unica nella sua disarmonia, con espressioni ammiccanti, movenze buffe e spostamenti improvvisi. Queste caratteristiche sono presenti in molti dei suoi film, regalando una comicità spontanea che dona risate sincere e una serenità duratura per tutta la durata delle pellicole.
Per citarne alcune:
Guardie e ladri (1949)
Il primo film di Totò acclamato sia dal pubblico che dalla critica e diretto da Mario Monicelli e Steno, si configura come un’opera pienamente appartenente alla corrente del neorealismo. Affiancato sul set da Aldo Fabrizi, Totò interpreta il ruolo di un truffatore, mentre l’altro assume quello di brigadiere. La comicità che emerge si nutre di stratagemmi necessari per “tirare a campare”, avvolta da una nota di malinconia e trasudante di umanità, elemento già presente in altre opere, seppur soppressa con inefficacia da toni sarcastici. Il film ricevette il riconoscimento a Cannes come miglior sceneggiatura, e Totò si aggiudicò il prestigioso Nastro d’Argento.