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KINOGLAZ: Todo Modo e il declino mefitico del potere

Primo episodio della nuova Rubrica di Claudio Valerio Vettraino: KINOGLAZ… QUANDO L’ILLUSIONE DIVENTA REALTA’

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Sarebbe fin troppo facile parlare di un film come Todo Modo in questi giorni in cui gli scandali che coinvolgono importanti regioni italiane come il Lazio, Piemonte ed Emilia Romagna scuotono ed indignano il paese.

Troppo facile vedere nei tristi e pruriginosi personaggi che ruotano attorno alle corti del potere (uso un termine volutamente medioevale e pre-illuministico perché di questo si tratta), nell’edonismo festaiolo di acre sapore imperiale a danno delle casse già pingui dei comuni e delle regioni, in attesa di vere riforme e di uscire da questa benedetta crisi, analogie con altre crisi e con la decadenza di altri sistemi di potere.

Eppure, un film terribilmente complesso come Todo Modo, scomparso per decenni e finalmente riapparso negli ultimi anni grazie al prezioso lavoro di restauro portato avanti dalla cineteca nazionale, ci permette di capire dove è iniziata la parabola discendente del nostro paese. Ci consegna la testimonianza filmica di una classe politica delirante, direbbe oggi Beppe Grillo, completamente in balìa di una visione distorta della realtà.

Un mondo a se stante che continua a spacciare l’istinto infantile alla sopravvivenza (anche quando la situazione muta e occorrerebbe fare un passo indietro) con l’impegno assunto davanti agli elettori, innescando una spirale  da cui è impossibile sfuggire.

Un documento unico per analizzare il magma demoniaco di un potere, quello DC, eterizzato, reso metafisico dalla situazione geopolitica della guerra fredda, amputato dalla tragica morte di uno dei suoi protagonisti (Moro) e sopravvissuto con alterne vicende per tutti gli anni ’80 (con i vari compromessi con i socialisti) fino ai giorni nostri.

Un esercizio del potere certamente datato, ancora provinciale, ammantato di logiche ed espressioni, di un decalogo valoriale del compresso col grande capitale industriale e finanziario, banche, comitati d’affari, ecc.. (che oggi governano indisturbati e senza mediazione “politica” il paese), non più attuale, ma in grado ancora oggi di evocare analogie stuzzicanti con un presente sempre ahimè troppo omogeneo e schiavo di un passato che in Italia non passa mai.

Certamente è cambiato il modo di rubare, di fare affari. E’ venuta meno tutta un’aura metafisica che garantiva e sosteneva il malaffare. Oggi ci si trova di fronte ad un rubare “puro”, assoluto, che va oltre le logiche di partito e di corrente, in un “magna magna” generale che non risparmia nessuno. E’ venuto meno il principio d’autorità ideale e politica che in qualche misura legittimava il ricorrere a prestiti non dichiarati, risorse economiche extra per il partito o a tangenti che l’imprenditore versava per far passare la legge o il decreto edilizio o l’incentivo statale (eravamo in una fase di capitalismo di stato generalizzato, oggi impossibile nel mercato europeo unificato).

Un pus che  “manipulite” contribuì solo in parte a far scoppiare, smantellando il mito ideologico della truffa e dell’arricchimento personale a vantaggio indiretto del partito e delle società (lecite o meno) che gli ruotavano intorno.

 

Ma al di là di questo, l’analisi spietata, lucida di un sistema politico grottesco, immobile ed immutabile, terrorizzato dalla prospettiva angosciosa di perdere il potere e con esso tutti i suoi privilegi, è sempre più valida ed attuale. Un’attualità che bussa prepotentemente alle nostre porte ed invade i telegiornali che sorbiamo tutti i giorni.

E’ corretto asserire che Todo Modo rappresenta una sorta di incubo gotico-romantico, in cui tutte le forze mistiche della natura violata si ribellano e cercano vendetta, scatenando l’inferno sulla terra, evocando simbolicamente (attraverso classiche icone come la cripta, teschi, ossa ammucchiate, teche di vetro con dentro santi imbalsamati, ecc.) una rutilante, carnosa discesa agli inferi, una notte perenne in cui gli spettri chiedono udienza al tribunale della storia, in cui volti familiari trasfigurano divenendo irriconoscibili, innominabili, perdendo ogni contatto con la realtà, toccando con mano l’inevitabile putrefazione di quella che oggi chiameremmo la casta e con essa del potere che incarnava e che la rendeva intoccabile, avulsa rispetto alle oggettive trasformazioni del tempo (l’avanzata del PCI nel ‘76) e dai concreti bisogni dei cittadini che – in buona fede – la perpetuavano.

Ma la sua forza attrattiva sta principalmente nel proporre al contempo l’impegno pressante ad una radicale autocritica in grado di coinvolgere in prima persona lo spettatore.

La formula potrebbe essere questa: io regista ti mostro lo sfacelo in cui siamo caduti ma tu cosa hai fatto per evitarlo? Quali scelte hai operato? Ti senti degno della classe politica che ti rappresenta? Avresti potuto scegliere diversamente? Ti senti in pace con la tua coscienza? Cosa farai d’ora in poi?

Ed il magnetismo che emana da ogni fotogramma risiede proprio nella sua eterea ma brutalmente espressiva carica morale. Un istinto alla moralità che non scade mai nel moralismo né nel pedagogismo.

Petri era troppo intelligente per illudersi di “educare le masse” con questo film. Un film anche troppo difficile per i suoi tempi; in quanto occorrono svariate conoscenze filosofiche (ad esempio la teologia negativa di Dionigi Aeropagita) e storiche per comprendere innanzitutto il libro di Sciascia e di conseguenza il film. Figuriamoci oggi, nel totale abbrutimento culturale in cui viviamo.

Il suo obiettivo era quello di denunciare l’anarchica irrefrenabile del potere, nel permettersi di annichilirsi per rinascere a nuova vita e contemporaneamente sottolineare la perniciosa complicità del singolo, apparentemente estraneo alle sue logiche autodistruttive, che rappresenta anzi l’antidoto al suo perpetuarsi disumano ed alienante.

Esempio lampante di questa doppiezza che caratterizza gli onesti cittadini e gran parte degli organi dello stato (incapaci per mezzi e uomini a contrastare il dilagare della corruzione e dell’abuso d’ufficio) è la figura del magistrato (interpretato da un ovattato Renato Salvatori) che, incaricato delle indagini sulle strane morti avvenute nell’eremo Zafer durante gli esercizi spirituali, finisce per essere travolto dal corso degli eventi, trovando tragicamente la morte nella resa dei conti finale.

Un redde rationem compiuto da forze oscure, senza volto né nome, rimaste dietro le quinte a coordinare le operazioni di “pulizia” della vecchia ed inabile classe dirigente; un potere invisibile armato di videocamere nascoste, che registra e ricatta, tenendo con ciò in mano le redini effettive del potere.

Un potere mediatico ancora “artigianale” ma già onnipresente (tutte le sale e i corridoi dell’eremo sono sorvegliati, cosi come le camere degli ospiti) che nella metà degli anni settanta compiva i primi passi verso quella videocrazia, ponendo le premesse di quel famoso “metodo Boffo” , in cui si può uccidere un uomo senza ucciderlo, divenuto negli ultimi anni tristemente famoso come arma principale di lotta politica.

 

La politica, e questa è l’essenza principale del cinico machiavellismo di Sciascia-Petri, è da sempre sintesi inscindibile di ricatto e corruzione. Solo così può essere paradossalmente presente senza essere efficace, soprattutto in un paese come l’Italia da secoli scissa e retta da un fragile e precario equilibrio delle forze in campo.

Un film insomma di rara potenza visiva ed estetica, che intreccia barocchismi verbali, gestuali, chiaroscuri stilistici tipici dell’inquisizione spagnola (non a caso i riferimenti a Sant’Ignazio di Loyola sono costanti duranti tutto il film rappresentandone l’ossatura narrativa) e della retorica “millenarista” della controriforma con l’espressività etica dell’immagine, costruita quasi geometricamente senza dubbi né sbavature, dell’avanguardia espressionista.

Impossibile entrare nella maestria di Petri nel dirigere attori praticamente eccelsi per interpretazione, tono, gestualità, caratterizzazione di umore mefitico, da “fine del mondo”. Ospiti ancora per poco di una terra – civettando il Decameron di Boccaccio – dilaniata dalla peste (da un male economico-politico e di conseguenza etico-morale, autenticamente antropologico), in grado di rendere patetiche marionette le loro maschere. Primi fra tutti un insuperabile Volonté nel ruolo del Presidente e un inedito ed intensissimo Mastroianni nel ruolo del mefistofelico Don Gaetano. Vederli duettare è un vero e proprio spettacolo; un film dentro il film.

Aggiungiamoci una sceneggiatura accattivante, spigolosa, già lessicamente attuale, con attente “corruzioni” prese dal gergo popolare, non così usuale all’epoca nel cinema d’autore. Un cinema che cercava viceversa di accreditarsi un linguaggio, un’estetica filmica “elevata”, incorrotta dal parlare comune. Scenografie da apocalisse, con il bunker di cemento armato disperso in una pineta metafisica, che potrebbe essere ovunque; potrebbe anche rappresentare un luogo della mente, la voglia vana di fuggire dal pericolo incombente che tutti sentono sempre più vicino ed angosciante. Una fotografia perfetta grazie alla quale la corposità e la pastosità dei colori (soprattutto quelli primari, nero, rosso, blu, verde ma anche il grigio e il bianco) e il contrasto luminoso del chiaroscuro emergono con particolare impatto emotivo, dando alla luce e al buio, al bianco e al nero la loro precisa connotazione etica.

Insomma una perla rara e coraggiosissima del nostro cinema per troppi decenni dimenticata.

Claudio Vettraino

 

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