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‘Bad Hair’ l’orrore nei capelli

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Reduce dall’insuccesso commerciale (e non solo) targato Disney de La casa dei fantasmi, Justin Simien va annoverato nel sempre più cospicuo gruppo di quei giovani registi che, dopo aver esordito con film indipendenti improntati su idee connotative e personali, sono stati reclutati dalla Casa di Topolino per dirigere come meri esecutori nuovi blockbuster o episodi di rinnovati franchise cinematografici, in progetti spesso spersonalizzanti. Simien (autore della serie Dear White People e dell’omonimo film) non era nuovo all’horror (seppur virato in un film per famiglie), genere che ha esplorato con il precedente film, Bad Hair, presentato al Sundance Film Festival nel 2020 e arrivato in Italia direttamente sulla piattaforma di IWONDERFULL e su IWONDERFULL Prime Video Channel. Un film diametralmente opposto rispetto a La casa dei fantasmi, molto più sanguigno, interiore e “analogico”, lontano da quell’asetticità patinata e dalla vacuità di un’attrazione da parco di divertimenti trasposta stancamente.

Bad Hair: la trama

Nel 1989 una giovane donna ambiziosa lavora come assistente per un canale musicale che trasmette musica afroamericana. Anna fa di tutto per avere successo in un mondo ossessionato dall’immagine della televisione e per avere la possibilità di condurre il programma da lei ideato e decide di rivoluzionare il proprio look. Tuttavia, la sua carriera rischia di esser messa in pericolo quando scopre che i suoi capelli sono dotati di una vita tutta loro.

Un diavolo per capello

“La fase uno della mia plateale trasformazione è quasi completata”, dice la protagonista da bambina, nel flashback iniziale. Il sogno è quello di diventare speaker radiofonica e di entrare nel mondo della televisione ed è un percorso che la spinge a una trasformazione, a cambiare la propria immagine per aderire ai canoni sociali vigenti. Sin da piccola i capelli afro le appaiono come un qualcosa da modificare, da correggere, secondo una visione della bellezza che inconsciamente assorbe e che identifica nei capelli lisci. È una trasformazione che le causa un dolore non solo fisico, ma soprattutto intimo, culturale, identitario. Una forzatura che parte dai capelli per radicarsi nel profondo, alla ricerca di un’immagine standardizzata e fuorviante. L’immagine plasmata da una società improntata sulla gentrificazione e sul consumo, al pari dell’emittente per cui lavora Anna, che cerca sempre più di uniformarsi ai gusti del pubblico dominante. Da Culture a Cult, una cultura identitaria rinnegata.

Justin Simien attinge da racconti fiabeschi e dalle tradizioni di un popolo per un horror che segue il solco di Get Out, delineando le forme di un razzismo strisciante che in questo caso porta gli stessi afroamericani a compiacenti trasformazioni. Al centro di ogni snodo c’è l’immagine; l’immagine televisiva, l’immagine riflessa nei numerosi specchi, l’immagine indotta della donna afroamericana con capelli lisci e non con indomabili e selvaggi riccioli, l’immagine di Anna che muta. Così come mutano i suoi occhi, al tempo stesso causa e ricettori di quelle immagini.
Evitando didascalismi che sono sempre più frequenti in film di questo tipo, Bad Hair è un tuffo negli anni ’80 che assorbe le atmosfere degli horror di quegli anni e ne riprende l’anima artigianale.

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