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Trieste Film Festival, la visione della sua direttrice, Nicoletta Romeo

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Il Trieste Film Festival è una manifestazione dallo sguardo profondamente specifico. Un appuntamento imperdibile per scoprire le trascurate cinematografie dell’Europa centrale e orientale. Un Festival radicato in una città speciale, crocevia di culture, mondi, visioni contaminate da popoli e lingue diverse. Incontro è la parola chiave del Trieste Film Festival: al cinema, alle presentazioni dei film, alle masterclass, ai reading, alle camminate per guardare, con occhi diversi, uno spazio multietnico e aperto.

Per conoscere meglio il Trieste Film Festival, abbiamo intervistato la sua energica direttrice, Nicoletta Romeo.

In un panorama italiano di manifestazioni cinematografiche con poca identità, il Trieste Film Festival si distingue per una specificità molto forte. Ci aiuti a comprendere meglio la sua particolarità?

La nostra identità è geopolitica e culturale. Sin dal primo anno in cui il Trieste Film Festival è nato, il 1989, data fortemente simbolica, si è deciso di dedicare un focus all’Europa centro-orientale. All’inizio era solo un gruppo di piccoli Paesi attorno alla nostra regione: la Slovenia, la Croazia, la Stiria, la Carinzia, il Canton Ticino. Progressivamente, i Paesi si sono ampliati: Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, ex Yugoslavia, fino ad allargarci a questa gigantesca macroarea che è oggi l’Europa orientale, dai Paesi baltici fino al Mediterraneo. Sono nazioni molto diverse le une dalle altre, lo si vede anche dai loro film, ma accomunate da lontane tradizioni cinematografiche. Molti di questi registi sono andati nelle stesse scuole, come la FAMU di Praga, dove ha studiato anche Emir Kusturica, per esempio. Scuole che raggruppavano cineasti dai Paesi limitrofi. C’è un universo e un immaginario comune a tanti autori di queste aree, pur provenendo da latitudini diverse. L’idea era quella di focalizzare l’attenzione sui Paesi al di là della cortina di ferro, che condividevano l’essere stati sotto il regime socialista. Un caso unico è quello della ex Yugoslavia, una nazione non allineata che presentava delle caratteristiche particolari, le cui vicende abbiamo seguito sin dall’inizio. Il Trieste Film Festival, negli anni ‘90, ha avuto un ruolo di primo piano nel raccontare quello che stava succedendo in Paesi a noi vicinissimi. E il cinema ha saputo narrare, forse meglio di altre arti, quello che accadeva, conflitti compresi. La nostra missione, perché proprio così la intendo, è quella di seguitare a dedicare la nostra attenzione a questi Paesi, che continuano ad affascinarci, producendo ogni anno film bellissimi.

Emir Kusturica

Qual è, se c’è, la specificità dello sguardo di questo cinema dell’Europa centro-orientale?

Progressivamente, questi Paesi sono entrati a far parte dell’Unione Europea, avendo accesso a fondi e programmi appositi, come Eurimages, o a coproduzioni internazionali, aprendoli non solo ai finanziamenti, ma anche ad altri sguardi, a collaborazioni professionali con altre nazioni (in genere Francia e Germania). In questo modo, però, il loro sguardo è stato anche un po’ contaminato. Non solo, c’è pure il desiderio, spesso, di compiacere un pubblico più ampio, più globalizzato. Il rischio è quello, in qualche modo, di inquinare le proprie radici. I film che noi presentiamo al Trieste Film Festival, soprattutto quelli del sud-est europeo, di Paesi balcanici come Serbia, Montenegro, Kosovo, Romania, Bulgaria, raccontano meglio di altri la propria società, non perché siano ombelicali, ma perché c’è una precisa volontà di ricerca delle proprie origini, del proprio passato.

Anche quest’anno, molti sono i film che guardano agli anni ’90, che sono un po’ gli anni zero per questi Paesi, passati dal regime comunista al libero mercato, affacciandosi a un mondo più largo. Alcuni autori vedono negli anni ‘90 i grandi cambiamenti, ma anche le dissoluzioni, i teatri di guerra, come nel caso dell’ex Yugoslavia. Spesso, queste divisioni, questi conflitti, sono stati raccontati attraverso menzogne o strumentalizzazioni politiche. Ecco, quindi, che i cineasti, soprattutto quelli più giovani, tra i 30 e i 40 anni, usano lo strumento cinematografico come indagine sul proprio passato, di quando loro stessi erano più piccoli e non potevano essere protagonisti della storia del proprio Paese. Parlando della Serbia, che mi sta molto a cuore e che produce un cinema particolarmente vitale, gli autori più originali sono quelli della diaspora: registi che, in realtà, non abitano più in Serbia, ma che, per i loro film, continuano a tornarci e narrare storie ambientate lì, raccontando se stessi, perché poi, alla fine, il cinema ha anche un suo lato terapeutico molto potente.

Quanto è stato complicato organizzare questa 35a edizione del Festival?

C’è una squadra affiatata che lavora insieme da molto tempo. Per la selezione del programma sono accompagnata da collaboratori che girano Festival in ogni parte del mondo. Certo, ogni anno è una sfida, perché c’è sempre (sana) competizione con gli altri Festival. E poi il perenne problema dei distributori italiani, che non sai mai se ti daranno i film che stai cercando. Infine, l’inevitabile caccia ai finanziamenti, nonostante operiamo in una regione tra le più fortunate d’Italia, che ci permette di avere accesso a fondi che ci danno un certo respiro nel programmare il Festival. Una manifestazione che cresce di anno in anno, con le difficoltà dei Festival più grandi, riuscire ad avere visibilità, fare una promozione adeguata.

Tutti notano come l’Italia sia un Paese per vecchi, per quanto riguarda il cinema in sala. Il Trieste Film Festival è sorprendente per la quantità di giovani che affollano le proiezioni e la bassa età media dei registi in concorso. È solo un caso fortunato o c’è molto lavoro dietro?

C’è tantissimo lavoro dietro. Il Trieste Film Festival non dimentica i grandi maestri. Quest’anno, per esempio, ci sarà Marco Bellocchio a ritirare il premio del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani per Rapito, considerato il miglior film italiano del 2023. Apriremo il concorso con Green Border di Agnieszka Holland e l’anno scorso abbiamo premiato Krzysztof Zanussi. Questo per dire che qui i grandi maestri hanno sempre spazio e non bisogna mai dimenticarli, perché hanno fatto la storia del cinema e continuano a ispirare i giovani registi. Però, è anche vero che il Trieste Film Festival ha un forte sguardo sul contemporaneo. Cerchiamo sempre di intercettare le nuove generazioni, perché trovo particolarmente interessante come i giovani raccontano la società, i loro mondi, con sguardi e linguaggi originali.

Per quanto riguarda il pubblico, si è cercato di fare un grande lavoro promozionale per attirare i giovani, con delle politiche che vanno loro incontro anche sul prezzo dell’accredito, di soli 10 euro per seguire l’intero Festival. Poi c’è tutto un vasto programma di eventi collaterali che riteniamo servano ad attirare i giovani che non ci conoscono. L’idea è quella di dire: tu vieni a Trieste e, in questi nove giorni di Festival, oltre ai film, puoi conoscere i Paesi dell’Europa centro-orientale attraverso presentazioni di libri, masterclass, incontri con i registi, tour guidati (le passeggiate cinematografiche), mostre. È proprio un universo che ti viene offerto, una full immersion in questo mondo culturale che fa ancora un po’ fatica a essere conosciuto in Italia. Per me, se cominci a interessarti alla letteratura, al teatro, all’arte, alle altre discipline artistiche, capisci forse anche meglio i film che vai a vedere, perché ci sono dei legami molto profondi tra questi eventi culturali collaterali e il programma del Festival.

Poi noi, tutto l’anno, andiamo nelle scuole, dalle elementari alle superiori, organizzando matinée per i ragazzi. Anche in questa edizione del Festival, ci saranno due proiezioni che abbiamo pensato per gli studenti delle scuole superiori, con i registi in sala; sarà interessante guardare film che non sono abituati a vedere, con l’opportunità di un dibattito a seguire. Inoltre, c’è un programma apposito, che da anni stiamo sviluppando e speriamo d’implementare in futuro, che si chiama Trieste Film Festival Academy, per il quale ogni anno ospitiamo un centinaio di studenti universitari italiani e stranieri, per seguire un programma fitto di proiezioni e incontri, alla fine dei quali produrranno una serie di lavori, dalle classiche recensioni ai podcast. C’è una collaborazione con alcune università, che ci stanno cercando per una serie di percorsi formativi di alfabetizzazione all’audiovisivo, tutto l’anno, cito, tra queste, l’Università di Padova e Ca’ Foscari di Venezia. La pandemia e la grande offerta delle piattaforme hanno fatto molto male alla sala cinematografica e, quindi, bisogna riportare i giovani al cinema, facendo un gran lavoro di educazione, non lamentandosi solamente.

Green Border

Tu collabori con il Festival da quasi trent’anni e ora ne sei la direttrice artistica. Com’è cambiata nel tempo questa manifestazione?

All’inizio era un Festival duro e puro, nel senso che si occupava solo di cinema: uno veniva qui, andava in sala, guardava i film, incontrava gli autori. Era anche meno conosciuto. Quando ho cominciato, non c’era internet, era un mondo più a compartimenti stagni. Negli anni, si sono sviluppati tanti progetti collaterali: il forum di coproduzione internazionale, When East Meet West, che è arrivato alla quattordicesima edizione, è il nostro mercato del cinema, tra i più grandi in Europa, con tante collaborazioni: il marché di Cannes, quello di Berlino, Sarajevo, Roma. Siamo gli unici in Italia ad aver creato un network di Festival europei che si chiama MIOB – Moving Images Open Borders: siamo sette Festival e organizziamo tutta una serie di attività parallele. L’attenzione nei confronti dei giovani, attraverso il lavoro di formazione, rientra tra queste. Quindi, mi viene da pensare che il Festival, che partirà venerdì 19 gennaio, sia solo una delle tante facce di un evento culturale che va ben oltre le nove giornate di proiezioni. È un Festival che si è espanso su tutto l’anno, una specie di evento prolungato che ci fa lavorare su tanti progetti collegati al Festival e che dal Festival sono nati, ma che, oramai, vanno ben oltre le date tradizionali e la città di Trieste.

Come nasce il tuo interesse per la specifica area cinematografica dell’Europa centro-orientale?

Da una questione puramente geografica: perché abito qui a Trieste. Una città molto lontana da Roma e dai grandi centri culturali e politici che hanno un peso specifico nelle decisioni in Italia. Siamo più vicini a Lubiana, Zagabria o Bratislava. Trieste ha una posizione chiave nel centro Europa. Non è solo una città italiana, è una città europea. È un posto dove respiro l’Europa molto più che a Roma. Per tradizione, abbiamo tanti rapporti culturali ed economici con i Paesi limitrofi, che hanno portato Trieste ad avere diverse comunità: ebraiche, greche, minoranze etniche dalla Croazia, dalla Slovenia. È una città multiculturale, con tante sfaccettature. Per cui è stato naturale che questo Festival nascesse qui e qui sia rimasto. Non avrebbe senso spostare gli uffici a Roma o a Milano, perché è un Festival che dialoga moltissimo, da sempre, con questa città. Se abiti qui, con questi Paesi ti senti a casa. Per dire, io, da piccola, più che con Totò, sono cresciuta con i cartoni animati che vedevo su Koper TV di Capodistria, cittadina in Slovenia a pochi passi da noi (tra l’altro, è andata a colori ben prima della Rai). Qui abbiamo dei riferimenti culturali, anche cinematografici, più ampi, che ci hanno fatto spaziare moltissimo. Nonostante ci fossero i muri, i confini, le frontiere, questo tipo di cinema, questi riferimenti culturali, ci portavano altrove, conducendoci a stabilire delle connessioni forti con i Paesi di cui oggi ci occupiamo al Trieste Film Festival. Quindi, la mia è stata una scelta naturale, alla fine.

Dal tuo pluridecennale osservatorio su queste cinematografie, qual è lo stato dell’arte, attualmente, in quella parte d’Europa?

Uno stato dell’arte interessante. Mi viene in mente un Paese come l’Ucraina. È chiaro che, in questo momento, è martoriato dalla guerra, ma, nonostante quella, è un Paese che, strenuamente, con coraggio, porta avanti i propri progetti anche in campo cinematografico. Gli uomini sono al fronte e, in questa fase della sua storia, in Ucraina, sono per la maggior parte le donne a fare cinema. Quest’anno abbiamo, dall’Ucraina, in concorso, un lungometraggio, Stepne di Maryna Vroda, e un documentario bellissimo, Un’immagine da ricordare, di una cineasta molto giovane, tra l’altro, Olga Chernykh. Sono Paesi che hanno proprio un’urgenza di raccontare. Sono più veloci, non hanno tempo da perdere, cercano di fare film pure con pochissimi mezzi. Lo vedi anche dalle opere di un’altra sezione, Fuori dagli sche(r)mi, la nostra vetrina su un cinema diverso, su prospettive di cinema che se ne fregano delle durate, dei generi, su come sono girati. Sono film più liberi, realizzati con poche risorse, a volte solo con i mezzi a disposizione di una scuola di cinema, ma sono sorprendenti, perché riescono a fare cinema, a scrivere storie bellissime, ben interpretate, con un uso straordinario del mezzo cinematografico. Ecco, a tutti i giovani italiani che si lamentano di non trovare i soldi e non sapere come riuscire a fare un film, direi: venite qui a vedere.

Mariëtte Rissenbeek

La sezione Wild Roses è uno dei fiori agli occhiello del Trieste Film Festival. Perché quest’anno la scelta della Germania? Cosa avete trovato scavando in quella cinematografia?

L’idea di Wild Roses è quella di dedicare, ogni anno, un focus a un Paese europeo diverso. Dopo Polonia, Georgia e Ucraina, abbiamo scelto la Germania. Innanzitutto perché è uno dei Paesi storicamente ospitati dal nostro Festival. A Trieste c’è un pubblico germanofono molto forte, è una lingua che veniva parlata parecchio fino a un secolo fa. Trieste era il porto dell’Impero austro-ungarico. Qui la cultura tedesca e quella austriaca sono rimaste radicate, a ogni livello. Quindi, abbiamo pensato, dopo focus dedicati a un cinema più orientale, di tornare nella parte centrale d’Europa. Del resto, la Germania ha una grandissima tradizione cinematografica, soprattutto nello sguardo delle donne cineaste. Quest’anno abbiamo avviato la collaborazione con Mariëtte Rissenbeek, Executive Director della Berlinale, che ha curato la sezione Wild Roses e ha fatto un lavoro davvero interessante. Ha scelto tredici registe molto diverse, sia per scelta di generi sia per età anagrafica. Sarà un focus molto rappresentativo di quello che è oggi la Germania. Ci sono, per esempio, registe di seconda generazione, originarie della Turchia, del Kurdistan, della Moldavia. Perché la Germania è anche questo: un Paese aperto e accogliente, che ha fatto suo un cinema prodotto da autori che venivano da altri Paesi. Saranno film che racconteranno una Germania contro molti stereotipi che abbiamo anche noi italiani. Un Paese dinamico, con registe richieste dal cinema americano. Ce n’è più di una, in questo focus, che in questo momento è impegnata sul set di serie statunitensi. Ma ci sono anche autrici dallo sguardo fortemente intellettuale, come Angela Schanelec, con il suo Musik, e la grande signora del cinema tedesco, Margarethe von Trotta, che ha dedicato il suo ultimo film all’intellettuale austriaca Ingeborg Bachmann. Accanto a loro, film più mainstream, come Systemsprenger di Nora Fingscheidt, per esempio.

Angela Schanelec

Wild Roses è una sezione tutta dedicata al cinema femminile. Esiste una specificità di questo sguardo dietro la macchina da presa? C’è ancora bisogno di una sezione dedicata per far emergere i loro talenti?

Al Trieste Film Festival ci occupiamo di cinema al femminile da sempre. Sin dai primi anni, abbiamo dedicato omaggi a registe donne. Ci tengo a precisare che il fatto d’interessarci a un cinema prodotto e diretto da donne (perché, attenzione, in questi Paesi ci sono anche grandi produttrici, non solamente registe) non è nuovo, né una moda che risponde alle richieste del gran can can mediatico del Me Too. Quest’anno, nel concorso documentari, su dieci opere, sette sono dirette da giovani autrici: non è stata una decisione a tavolino, quote rosa, no, è semplicemente perché, tra i migliori film dell’anno, la maggior parte sono realizzati da donne. È un dato di fatto concreto da cui dobbiamo partire, che qui si tocca con mano. Poi mi viene da pensare che, nel caso, per esempio, dei documentari, o del cinema indipendente, le donne non devono sgomitare perché ci sono meno soldi, meno potere in ballo. Si sa che, con i documentari, non si diventa milionari, allora c’è più spazio per le donne, che forse sono più meticolose e riescono, con il documentario, a raccontare meglio le realtà dei propri Paesi. Se c’è uno sguardo, dietro la macchina da presa, che accompagna tutte le donne è, probabilmente, nella maggiore pazienza, perché ce la mettiamo tutta, per noi la via è più difficile, c’è poco da fare, però questo non vuol dire che non ci proviamo, anzi, ci vuole più grinta, più costanza, più passione. Ecco, mi viene da pensare che, nei racconti più difficili, soprattutto quelli sulla guerra, sui conflitti, su un certo tipo di disagio, le donne hanno uno sguardo più intimo, più personale, ma, attraverso le piccole storie quotidiane, familiari, arrivano a rappresentare un’universalità che gli uomini, magari attraverso storie più epiche, non riescono a raggiungere. Credo che, nello sguardo femminile, ci sia una dimensione meno epica e più intima. A posteriori, quando già sai se un film è stato diretto da una donna o da un uomo, è più facile cogliere degli elementi distintivi, però un’altra caratteristica credo di poterla sottolineare: le donne sono più cerebrali, più studiate a tavolino, nelle sceneggiature, in certi movimenti di macchina. Forse per il desiderio di non sbagliare, di dimostrare di essere alla pari con i colleghi maschi. C’è una riflessione maggiore, sono meno di pancia.

Margarethe von Trotta

Che cosa credi desterà maggiore interesse nel pubblico in questa edizione del Trieste Film Festival?

In generale, gli incontri con gli autori. Secondo me, se c’è un motivo per cui i Festival reggono, è proprio questo. La gente ha smesso di andare al cinema perché forse non offre più quel momento irripetibile che ancora dà il teatro o un concerto di musica. Ecco che i Festival sono, un po’ come il teatro, un’occasione unica. C’è una festa del cinema, dietro l’idea del Festival. Quest’anno, se devo sottolineare un filone, in realtà non preventivato, ma di cui ci siamo accorti dopo, è che c’è un tema ricorrente forte: quello della scuola. Nel senso che moltissimi film sono ambientati a scuola. Forse perché, meglio di altri luoghi, rappresenta un microcosmo che è un po’ il parafulmine di tanti disagi della società. La scuola ne diventa il simbolo, la metafora di una comunità profondamente malata, in cui gli insegnanti sono visti come dei piccoli eroi, anzi degli antieroi della quotidianità. Si vede come la società si accanisce contro la scuola che, invece, dovrebbe essere il luogo per eccellenza dell’educazione, della formazione dell’essere umano e del cittadino. E, invece, la scuola fa una gran fatica, perché nella nostra società serpeggiano xenofobia, razzismi, derive di ultradestra. Ecco, quindi, che la scuola serve da pretesto per raccontare la società in maniera molto critica, lucida, a volte anche paradossale.

Quali perle, magari nascoste, ti sentiresti di consigliare di non perdere e perché?

Se c’è un autore che, per me, riassume le inquietudini di questi anni e che mi sento veramente di raccomandare, come la punta di diamante del nostro Festival, è sicuramente Cristi Puiu, con il suo ultimo film, MMXX. È un’opera difficile, che non piacerà a tutti, ma proprio per questo la cito. È stato rifiutato da tanti Festival, ma è un film di una profondità sorprendente. Puiu è uno dei pochi autori, oggi, contro le mode, le tendenze. È completamente controcorrente, si pone quelle domande fondamentali che, invece, molti artisti hanno dimenticato, preferendo formule più facili. Si esce dal cinema senza risposte, ovviamente, anzi moltiplicando le domande, ma è una visione a cui invitiamo tutti a partecipare.

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