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Cinema queer, sguardo lesbico e desiderio femminile

Il contesto e una serie di titoli del cinema lesbico che hanno proposto nuovi modelli di rappresentazione del femminile al cinema

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cinema lesbico ritratto della giovane in fiamme

L’espressione New Queer Cinema fu coniata nel 1992 dalla critica e accademica B. Ruby Rich che, osservando il panorama cinematografico contemporaneo, riconobbe la forte presenza di film indipendenti con tematiche queer e protagonisti LGBTQ+. Nello specifico, nel solco del New Queer Cinema rientrano una serie di film dalle tematiche ricorrenti (sessualità, ruoli di genere, scontro con la società) e dai toni simili, ma sempre radicali nella loro rappresentazione. I personaggi cinematografici della queer new wave sono soggetti complessi e ambigui, che vivono e rivendicano la loro queerness con una forza caotica, rivoluzionaria e sovversiva che non può e non vuole rassicurare un pubblico ancora troppo legato a configurazioni convenzionali di famiglia e ruoli di genere.

Il contesto storico

Quando parliamo di New Queer Cinema è infatti fondamentale osservare anche il contesto storico in cui questo filone si colloca. Tra gli anni ’80 e ’90 il mondo – ma in particolare gli Stati Uniti – fu sconvolto dalla pandemia di AIDS, che decimò fisicamente la comunità LGBTQ+ e ne distrusse la considerazione agli occhi dell’opinione pubblica. Date le modalità di trasmissione dell’infezione e la scarsa conoscenza scientifica di quel virus mortale, le persone queer – e soprattutto gli uomini gay – diventarono presto il capro espiatorio della tragedia. Oltretutto, la presidenza di Ronald Reagan si rivelò completamente incapace di affrontare la crisi con misure adeguate e anzi contribuì in modo attivo a promuovere lo stigma sociale e gli stereotipi nei confronti della comunità queer.

In questo senso, il New Queer Cinema si può interpretare come una reazione al clima sociale e storico di quegli anni, in cui la comunità LGBTQ+ viene progressivamente decimata, marginalizzata e demonizzata. Registi e registe di questo nuovo filone sono molto spesso anche attivisti, che sfruttano il cinema come strumento per riconquistare lo spazio e ridare voce a una comunità distrutta, ma arrabbiata e più forte che mai.

La teoria e i precursori

La riflessione teorica intorno al cinema queer si sviluppa sulla scia delle lotte femministe e degli studi di genere, che mettono per la prima volta in discussione un mondo regolato dallo sguardo maschile, dal binarismo di genere e dall’eteronormatività. Lo stesso termine “queer” è stato impiegato in modo dispregiativo – nel suo significato di “strano” – nei confronti della comunità LGBTQ+ almeno fino alla fine degli anni ’80, quando la comunità ha lottato per riappropriarsene e dargli una nuova connotazione radicale. Negli anni il termine è entrato nell’uso anche in contesti accademici – si può parlare oggi di queer theory – ed è impiegato come termine ombrello per indicare persone LGBTQ+ e, in generale, che non aderiscono allo standard sociale eteronormativo e cisgenere.

pride

Una scena del film ‘Pride’ (2014)

La nascita del cinema queer non avviene all’improvviso; sperimentazioni con le rappresentazioni di genere tradizionali sono rintracciabili pressoché dall’origine del cinema stesso.

Ma un’espressione della queerness più matura e consapevole si configura a partire dal cinema arthouse europeo (come quello di R.W. Fassbinder) e d’avanguardia, che con le sue produzioni sperimentali e radicali restituisce storie e personaggi rivoluzionari rispetto alla tradizione cinematografica. Nel cinema di avanguardia è soprattutto l’opera di registe e autrici lesbiche – come Chantal Akerman ed Ulrike Ottinger – ad aprire la strada ai futuri cineasti del New Queer Cinema.

L’invisibilità del cinema lesbico

Se osserviamo la produzione cinematografica contemporanea, l’aumento di film a tematica o con protagonisti LGBTQ+ è evidente. A partire dal 2010, molti critici hanno riconosciuto una sorta di nuova tendenza del New Queer Cinema, che ha abbandonato i suoi toni radicali per rivolgersi al grande pubblico grazie a titoli mainstream. Gli esempi negli ultimi anni sono numerosi, da Brokeback Mountain (2005) al pluripremiato Everything Everywhere All at Once (2022).

Ma all’interno di questa parabola ascendente rimane comunque evidente uno squilibrio: le donne lesbiche registe sono talmente poche da far parlare di “invisibilità lesbica”. Proprio come nel cinema mainstream tradizionale, anche nel cinema queer sono sempre stati gli uomini a ricevere con più facilità finanziamenti e risorse per realizzare i loro progetti. Non c’è da stupirsi quindi se la grande maggioranza dei film del New Queer Cinema abbia come protagonisti uomini gay e ponga al centro uno sguardo e un desiderio strettamente maschili. Chiaramente non si tratta di una problematica che si limita al cinema queer, ma si estende a tutta l’industria cinematografica mainstream. Quel che è certo è che la produzione del cinema lesbico, nonostante il suo ruolo pionieristico per tutto il cinema queer, è quella che ha faticato di più per affermarsi, legittimare il suo sguardo e rivendicare il suo spazio.

Je, Tu, Il, Elle (1974) – Chantal Akerman

Un nome fondamentale nel cinema lesbico e queer è quello di Chantal Akerman. Nata nel 1950, la regista belga ha rivoluzionato la rappresentazione del femminile al cinema con il capolavoro Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975). L’anno prima della sua consacrazione, Akerman gira il suo primo lungometraggio da regista, Je, Tu, Il, Elle, di cui è anche sceneggiatrice e protagonista.

je tu il elle

Il film è la storia in tre atti di Julie, una giovane donna che vive in un isolamento auto-imposto nella sua stanza, dove passa il tempo a scrivere lettere e mangiare zollette di zucchero. Akerman trascina lo spettatore nell’intimità e nella solitudine della protagonista senza farsi notare, mantenendo sempre un distacco tanto convinto da rendere ulteriormente forte l’isolamento in cui la giovane si è rinchiusa. Ma anche quando Julie esce di casa e incontra prima un camionista e poi la sua ex-amante – e ha rapporti fisici con entrambi – la solitudine non l’abbandona mai. Il film si chiude in un cerchio perfetto, in cui la protagonista ritorna nel suo isolamento iniziale consapevole dell’inutilità del suo viaggio.

Lo sperimentalismo di Akerman

Con una regia distaccata e sperimentale, Akerman costruisce una narrazione radicale in cui il sesso, l’amore e la solitudine sono reinterpretati in modo originale.  Akerman descrive in parte la libertà della solitudine e la possibilità di vivere come si vuole tipica dei ventenni – età in cui la regista ha realizzato questo film. Ma la sua abilità sta nel riuscire a mostrare la complessità di queste infinite possibilità, che non si declinano sempre in modo positivo. La protagonista, infatti, non è un personaggio felice e dai suoi gesti traspare una certa disperazione che chiunque abbia avuto il cuore spezzato è in grado di capire e condividere. La sensazione del sentirsi persi e al di fuori di se stessi è catturata con uno sguardo intimo e penetrante che, nel suo distacco, colpisce in pieno lo spettatore e lo trascina nella storia come se fosse nella stanza con Julie.

Je, Tu, Il, Elle è rivoluzionario anche per un’altra ragione. Sul finale del film, quando Julie si ricongiunge con la sua ex-amante, avviene una delle prime scene di sesso lesbico di tutto il cinema mainstream, nonché una delle più lunghe. Ma Akerman riesce a dimostrare che il sesso al cinema non si traduce per forza in un’oggettificazione del corpo femminile. Qui la macchina da presa mantiene uno sguardo distaccato e non si intromette mai nel lungo atto tra le due donne, restituendo la sensazione di disperazione della protagonista. Nonostante abbia sempre rifiutato qualunque categorizzazione o etichetta per la sua persona, Chantal Akerman resta un nome imprescindibile e fondamentale per parlare di cinema femminista e lesbico.

The Watermelon Woman (1996) – Cheryl Dunye

Tra i titoli più rilevanti del New Queer Cinema per il cinema lesbico si colloca The Watermelon Woman, realizzato nel 1996 da Cheryl Dunye. Si tratta di un film emblematico fin da subito poiché è il primo girato da una regista donna, nera e lesbica in tutta la storia del cinema. Dunye interpreta anche il ruolo della protagonista, una giovane donna lesbica appassionata di cinema che lavora in un video store. Mentre guarda un film degli anni ’30, intitolato Plantation Memories, Cheryl scopre un’attrice nera molto famosa in quegli anni, soprannominata “The Watermelon Woman”. Non conoscendone neppure il nome, Cheryl inizia a documentarsi, ma presto scopre che, in molti dei suoi ruoli, l’attrice non è nemmeno accreditata nei titoli di coda. Allora progetta di realizzare un documentario sulla misteriosa “Watermelon Woman” per scoprirne l’identità, intervistando conoscenti, familiari e membri della comunità LGBTQ+.

In realtà il documentario è tutta una finzione narrativa. Anche la Watermelon Woman, che poi si scopre chiamarsi Fae Richards, è un personaggio inventato dalla regista stessa per dare un volto a tutte quelle attrici – e donne – nere cancellate dalla storia. Era prassi nella Hollywood dei tempi d’oro che le attrici nere, anche quando conquistavano una certa fama, non venissero accreditate nei film e, di conseguenza, fossero dimenticate. Tutte queste volontarie omissioni hanno comportato anche la difficoltà di auto-documentarsi e di conservare una propria memoria per la comunità lesbica nera, come emerge dalle vicissitudini della protagonista nel realizzare il suo progetto. È per questo che Dunye dice di dover necessariamente parlare di donne nere e lesbiche nel suo film: perché le loro storie non sono mai state raccontate.

cinema lesbico - the watermelon woman

The Watermelon Woman è una pietra miliare della cinematografia lesbica perché dimostra come il cinema abbia per natura uno sguardo politico e intersezionale, configurandosi così come la via migliore per le identità marginalizzate per riappropriarsi delle proprie storie.

Ritratto della giovane in fiamme (2019) – Céline Sciamma

Come detto prima, la spinta del New Queer Cinema non si è mai esaurita; piuttosto ha adottato nuove declinazioni dando un rinnovato impulso creativo alla corrente. Alcuni dei risultati contemporanei più interessanti provengono, ancora una volta, dal cinema lesbico. In questo caso, uno dei nomi di riferimento è quello di Céline Sciamma, regista francese classe 1978, che con il suo cinema delicato e attento racconta storie di crescita e scoperta con uno sguardo inedito. La sua filmografia è diventata un vero e proprio pilastro per il cinema femminile e lesbico contemporaneo, soprattutto a partire dal suo titolo capolavoro: Ritratto della giovane in fiamme (2019), con protagoniste Noémie Merlant e Adèle Haenel e vincitore di numerosi premi a Cannes.

Alla fine del Settecento Marianne (Merlant), pittrice di professione, sbarca su un’isola remota della Bretagna per eseguire il ritratto della giovane Héloïse (Haenel), che deve sposare a breve un nobile milanese. Tuttavia Héloïse, che rifiuta il matrimonio impostole, rifiuta anche di farsi ritrarre. Così Marianne deve svolgere il suo compito in segreto fingendosi una dama di compagnia. Ma presto tra le due donne cresce un amore profondo e intenso che, pur traducendosi in una relazione segreta, saranno costrette ad abbandonare al termine del ritratto. Il racconto non è altro che un lungo flashback in cui Marianne ricorda la sua amata vedendo un dipinto che la ritrae e da lei realizzato – e che dà anche il titolo al film.

La storia d’amore tra le protagoniste è dunque, prima di tutto, una storia di memoria. Non potendo continuare la relazione per le contingenze storiche e sociali, l’unico modo per le due donne per mantenere in vita quell’amore è il ricordo. In questo senso, il ritratto si fa strumento di eternizzazione e di memoria ed è un elemento centrale per comprendere l’attenta riflessione sulla rappresentazione che Sciamma porta avanti con il suo film. Oltretutto, a esercitare lo sguardo creatore  non è – come sempre – un uomo, bensì una donna. Marianne che, unica pittrice tra tanti pittori, è anche l’unica a riuscire a fissare l’immagine di Héloïse sulla tela.

“Male gaze” e “female gaze”

Quanto c’è di geniale nella scrittura di Sciamma è proprio l’intuizione di sfruttare questo elemento narrativo, ovvero la questione delle donne artiste nella storia, per portare avanti una più ampia riflessione su cosa vuol dire guardare ed essere guardate.

Grazie agli svariati studi accademici sulla questione, è ormai noto che l’assenza di donne dalla storia dell’arte, della letteratura e del cinema non è casuale. I grandi artisti, o almeno quelli consacrati nella memoria collettiva, sono stati quasi solo uomini perché loro, per secoli, è stato lo sguardo dominante. Uno sguardo che ha sempre relegato le donne a muse da guardare, ammirare e soprattutto dominare, vero e proprio oggetto del desiderio per lo sguardo maschile. Questo concetto, brillantemente definito “male gaze” dalla studiosa Laura Mulvey negli anni Settanta, è alla base della riflessione e del ribaltamento teorico che Sciamma mette in pratica nel suo film per cui, non a caso, si parla spesso di “female gaze”.

cinema lesbico Ritratto della giovane in fiamme

Ritratto della giovane in fiamme è un continuo gioco di specchi e di sguardi: quelli segreti tra le protagoniste, quelli complici della serva o inquisitori della madre, e infine anche quelli del pubblico, che spia la loro storia dalla cornice. Ma quanto c’è di eccezionale nel film di Sciamma è che tutte le donne che si alternano sullo schermo assumono a loro volta il ruolo di soggetto guardante. Lo fa anche Héloïse che, scoperto il vero ruolo di Marianne, mentre posa la affronta chiedendole:

Quando tu mi osservi, chi credi che io stia osservando?

Il fatto che a guardare queste donne siano sempre altre donne – a partire dalla regista stessa – comporta la mancanza di quell’idealizzazione e non troppo velata sessualizzazione del corpo femminile propria dello sguardo maschile. Anche quando giovani e belli, i corpi dell’universo di Sciamma non corrispondono mai a quegli standard ideali e irraggiungibili a cui il cinema e l’arte ci hanno abituato per secoli. Ma soprattutto sono sempre corpi che si autodeterminano e che vengono mostrati in tutta la crudezza degli eventi, come nella scena dell’aborto clandestino della serva.

Un nuovo sguardo per il desiderio femminile

Con Ritratto della giovane in fiamme, Sciamma opera un vero e proprio ribaltamento dello sguardo tradizionale e delle modalità di rappresentazione del corpo femminile al cinema. È per questo che si può parlare di “female gaze”: uno sguardo di donne che non sono più oggetti passivi del desiderio ma attrici della visione. Anche se cambiano radicalmente la natura e l’intento di questo sguardo, non significa però che esso sia privo di desiderio. Anzi, le protagoniste del cinema di Sciamma mostrano sempre grande consapevolezza di sé, delle proprie volontà e delle proprie passioni, soprattutto di quelle amorose anche quando queste sono rifiutate dalla società. Sono donne che non trovano posto – e non vogliono trovarlo – in un mondo patriarcale ed eteronormato proprio perché seguono e ascoltano il loro desiderio che, finalmente, viene mostrato e legittimato.

Ed è solo grazie a uno sguardo come quello di Céline Sciamma, femminile e lesbico, che il desiderio femminile trova una traduzione tanto intensa, delicata e sincera sullo schermo. La regista francese dimostra che per trasmettere la tensione e l’erotismo tra le due protagoniste non è necessario mostrarne i corpi nella loro nudità o gli atti amorosi nel loro avvenire. Ma è grazie ai silenzi, a una melodia o agli sguardi nascosti – come nella memorabile scena finale – che si può ricordare e far rivivere tutta la passione di un amore profondo.

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