Non è solo un regista di horror e di fantascienza: i suoi film si pongono come sguardo critico sul mondo, sottolineando le ansie legate ai problemi sociali e politici ancora attuali. Oggi compie 76 anni e in occasione del suo compleanno vogliamo omaggiarlo con una retrospettiva approfondita sulla sua filmografia. Auguri, John Carpenter!
Buon compleanno John Carpenter: una retrospettiva sul maestro del Male
John Carpenter nasce il 16 gennaio 1948 negli Stati Uniti d’America. Il giovane Carpenter si innamora ben presto del cinema, specialmente di quello di genere, dall’horror alla fantascienza passando per il western. Inizia quindi a sperimentarlo con una cinepresa 8 mm che il padre gli regala per il suo ottavo compleanno.
Si trasferisce in California e si iscrive a corsi di cinema e regia, con la fortuna di incontrare, durante le lezioni, Alfred Hitchcock, Orson Welles, Roman Polanski e Howard Hawks. Quest’ultimo, soprattutto, con la sua grande capacità di piegare, attraverso gli stilemi del cinema di genere, le regole dello studio system, diventerà l’ispirazione principale di Carpenter.
Dal suo cortometraggio/saggio di laurea ricava il primo lungometraggio, Dark Star (1974), che definisce “un aspettando Godot dello spazio” e in cui celebra Stanley Kubrick. Il suo primo film professionale, tratto da una sua sceneggiatura, è però Distretto 13 – Le brigate della morte (1976), girato in ventiquattro giorni con un budget di appena 100mila dollari. Avrebbe dovuto essere un western ma, visto lo scarso finanziamento, diventa un assedio metropolitano in omaggio a Un dollaro d’onore di Howard Hawks.
Riscontrato poco successo in patria, Carpenter viene scoperto all’estero, in particolare in Francia e in Germania. Lui stesso dichiarerà in un’intervista:
“In Francia sono un autore, in Inghilterra sono un regista di film horror, in Germania sono un filmmaker, negli Stati Uniti sono un buono a nulla”
Dopo una parentesi televisiva, con Pericolo in agguato del 1978, Carpenter accetta la proposta del produttore Irwin Yablans per un thriller a basso costo il cui soggetto tratta l’omicidio di una babysitter. Scrive così, insieme a Debra Hill, la sceneggiatura di quello che diventerà uno dei suoi capolavori: Halloween.
Retrospettiva John Carpenter:
Halloween (1978)

L’iconico incipit basterebbe da solo a giustificarne l’importanza: una soggettiva, in piano sequenza, dell’assassino, che costringe lo spettatore ad identificarsi con lui. Il killer, però, è un bambino di 6 anni.
Michael Myers è l’incarnazione del male assoluto, in una rivisitazione realistica dell’uomo nero (bogey-man) che affonda le radici nell’immaginario collettivo. In questo caso, l’uomo nero è il figlio della repressione sessuale. La costante in tutti gli omicidi è l’avversione per il sesso e l’unica capace di sconfiggerlo è la casta protagonista.
A tal proposito, il film lancia anche la carriera di Jamie Lee Curtis, figlia di Janet Leigh, protagonista di Psycho, in un rimando metacinematografico non casuale. Fin dalle prime scene, è evidente il voyeurismo hitchcockiano e c’è una reference diretta anche nell’arma del killer: il coltello.
Il male è sempre fuori inquadratura o a margine di essa. Il fuori campo diventa con Carpenter il luogo in cui nasce la paura: nell’assenza. Ma il male non può essere sconfitto, e infatti Michael Myers non muore. Tanto da originare un longevo franchise di 13 film successivi.
Altro topos è la colonna sonora, onnipresente e invasiva nei film di Carpenter, che molto spesso ne è l’autore. In questo caso, le sonorità giocano sulla ripetizione e la musica diventa un tessuto palpabile su cui le immagini scorrono potenziate.
Inaspettatamente, la pellicola si rivela un clamoroso successo commerciale: partendo con budget ridotto (700mila dollari, circa 3 milioni odierni) incassa 70 milioni in tutto il mondo (circa 330 oggi) e dà origine al sottogenere slasher nel panorama horror.
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Nel 1979 Carpenter dirige Elvis, un biopic per la televisione in cui lavora per la prima volta con Kurt Russell, diventato in seguito suo attore feticcio in una longeva collaborazione.
Retrospettiva John Carpenter:
The Fog (1980)

Nel 1980 John Carpenter ritorna sul grande schermo con The Fog, per il quale riunisce tutta la crew del precedente successo horror. Sul villaggio di Antonio Bay incombe una maledizione: un gruppo di ricchi lebbrosi a bordo di una nave carica d’oro affonda a causa di un inganno delle classi dirigenti della cittadina. Nel centenario della fondazione queste anime tormentate ritornano, accompagnate da una nebbia soprannaturale, per recuperare l’oro e uccidere i discendenti degli uomini che li avevano traditi.
Il budget di 1 milione di dollari viene speso in gran parte per la realizzazione della nebbia fosforescente: una combinazione di cherosene, insetticida e acqua. Materiale tossico e difficilmente illuminabile mette a dura prova tutto l’apparato tecnico.
The Fog è un film di fantasmi che ancora una volta sconfina nella critica sociale sotterranea, mai intento principale di Carpenter ma innegabilmente leggibile nelle sue opere. In The Fog è evidente il parallelismo tra la fondazione di Antonio Bay e la nazione che i Padri Pellegrini hanno costruito sui cadaveri delle popolazioni indigene, sterminate dall’inganno e dalla violenza.
La paura viene quindi dal passato e i mostri del presente sono creati dalla memoria storica. Il male è incarnato questa volta dalla nebbia, che si infiltra e si espande ineluttabilmente, perché il male è già dentro di noi, fa parte della nostra storia e della nostra memoria.
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Retrospettiva John Carpenter:
1997: Fuga da New York (1981)

Diventato un affidabile regista di film low budget, Carpenter viene incaricato di un altro progetto, con 7 milioni a disposizione. Da una sceneggiatura scritta a quattro mani insieme all’amico Nick Castle (tra le altre cose, interprete di Michael Myers) nasce Escape From New York.
L’indice di criminalità è aumentato a dismisura negli USA, che nel 1988 trasformano l’isola di Manhattan in una prigione a cielo aperto da cui è impossibile fuggire e dove i detenuti possono vivere liberamente. Nel 1997 l’Air Force One precipita, dirottato dai terroristi, nel cuore di Manhattan e il presidente viene rapito. Snake Plissken (Iena), ex-soldato dei corpi speciali dell’esercito, viene incaricato di salvarlo.
Una sintesi dispotica di generi che vanno dalla fantascienza al thriller d’avventura, passando, come sempre, per le tinte dell’horror. Carpenter disegna un mondo oscuro, privo di luce, in cui gli spazi vuoti spaventano. Le minacce si muovono come ombre e scivolano sulle rovine della città, strisciano fuori dai suoi tombini, permeano come insetti il cadavere putrescente di New York.
Snake Plissken diventa un personaggio iconico di ribellione. Kurt Russell/Iena è un eroe imperscrutabile, la cui recitazione corporea racconta anche ciò che l’attore non dice.
Il Presidente, personaggio inerme e codardo, rappresenta l’ipocrisia, la mediocrità della classe dirigente, mentre la potenza militare e politica degli Stati Uniti viene ridicolizzata, soprattutto nel finale, apoteosi della risata sommessa e della triste ironia che attraversano tutto il film.
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Retrospettiva John Carpenter:
La cosa (1982)

The Thing è il primo film di Carpenter con una major hollywoodiana (Universal). Il budget a disposizione, questa volta, è notevole e viene speso per la maggior parte nella realizzazione degli effetti speciali. Per mostrare La Cosa e tutti i suoi mutamenti.
Ancora una volta spicca Kurt Russell nel ruolo di protagonista (MacReady), accanto ad altri 11 ricercatori di una base in Antartide. La squadra entra in contatto con un’entità aliena parassitaria che prende le sembianze dell’organismo in cui abita, divorandolo e crescendo al suo interno.
Il mostro appare sempre nella sua impossibilità di essere definito: è una massa informe composta da vari elementi. Non ha identità, non ha volto e non ha confini corporei. È invisibile in quanto parassita che cresce all’interno di un corpo e da cui scaturisce il terrore: potrebbe essere chiunque. Proprio per questo larga parte del film mostra la paranoia che man mano invade sempre di più i personaggi.
Anche in questo caso, il messaggio è chiaro: viviamo in una società chiusa in se stessa, senza solidarietà né empatia tra gli esseri umani, diventati mostri pronti a sprigionare il male che si autoalimenta all’interno dei corpi.
Capolavoro tra i principali dell’autore, The Thing è da ricordare soprattutto per gli effetti speciali meccanici e analogici, rivoluzionari per l’epoca e invecchiati benissimo, che rimangono credibili e concorrono onestamente con la CGI odierna. Il reparto effettistica del film ha fatto la storia del cinema per la sua creatività e per l’iconicità del risultato finale.
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Stranger Things che si ispira a La Cosa
La cosa, però, si rivela un flop al botteghino, anche e soprattutto per l’uscita contemporanea di E.T., che racconta invece una storia di fantascienza molto più rassicurante. Carpenter ha quindi bisogno di un altro film e accetta di dirigere Christine – La macchina infernale (1983), un adattamento teen horror a basso costo dell’omonimo romanzo di Stephen King. Purtroppo il film ha dei limiti nella sceneggiatura che la messa in scena non riesce ad aggirare, a cui si aggiunge un casting molto debole. Carpenter riesce comunque ad ottenere un buon risultato finale, con una certa tensione emotiva e una discreta suspence, in cui, ancora una volta, spiccano gli effetti speciali realizzati artigianalmente.
Christine – La macchina infernale ottiene un discreto successo commerciale e conferma Carpenter come regista affidabile per le produzioni low budget. La Columbia gli commissiona quindi un altro lavoro: Starman (1984), commedia romantica prodotta da Michael Douglas. Ingabbiato dai vincoli dello studio system, però, il regista non riesce ad esprimersi al meglio.
Retrospettiva John Carpenter:
Grosso guaio a Chinatown (1986)

Due anni dopo, Carpenter torna a dirigere un film fuori dalla sua comfort zone. Kurt Russell, ancora una volta protagonista, compare qui nei panni di Jack Burton, anti-eroe di un action comedy al limite del trash.
Il regista lo considera
un film d’azione, di avventura, di arti marziali cinesi, una storia di spiriti e mostri e una commedia
Esplosivo, caotico e immaginifico, il nuovo lavoro carpenteriano è forse il suo esperimento più riuscito in relazione ai generi a cui fa riferimento: western (originariamente, il film avrebbe dovuto ambientarsi nell’Ottocento e Burton avrebbe dovuto spostarsi in sella a un cavallo anziché a bordo di un camion), fantasy e, come sempre, horror.
Il risultato finale è ormai un leitmotiv: l’eterna lotta tra bene e male, in un mondo abbandonato dalle autorità e in mano ai fuorilegge.
Lo spettatore è sospeso dalla realtà attraverso una comicità semplice ma efficace. La complessità della trama, che si deve districare tra magia e leggende, viene sbrogliata abilmente attraverso i dialoghi didascalici che, nel clima surreale di tutto il film, non risultano fuori luogo e anzi appaiono quasi fumettistici, così come i poteri degli antagonisti e la loro messa in scena.
La vera punta di diamante di questa pellicola, però, è il lavoro sui personaggi, caratterizzati magistralmente. Kurt Russell abbandona l’austerità e la freddezza di Plissken per abbracciare un personaggio goffo ma profondamente buono e coraggioso, che rievoca John Wayne in un’intelligente satira-parodia.
Incredibilmente ignorato dal pubblico, il film incassa solo 11 milioni.
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Retrospettiva John Carpenter:
Il signore del male (1987)

Regista iperattivo e soprattutto mosso da un’idea incrollabile, nel 1987 scrive la sceneggiatura de Il signore del male, secondo capitolo della Trilogia dell’Apocalisse con La Cosa e il futuro Il seme della follia.
Per la prima volta realizza un film dell’orrore vero e proprio, senza sfumature.
Costato appena 3 milioni di dollari, segna il ritorno di Carpenter alla produzione low budget. Il regista maschera abilmente i limiti della produzione attraverso i simbolismi orrorifici, lo spirito evocativo delle immagini e la colonna sonora, ancora una volta parte integrante del racconto.
Il male qui è ben visibile, sotto forma di un liquido verde contenuto in un cilindro, all’interno di una chiesa abbandonata di Los Angeles, di cui si impadronirà Padre Loomis.
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Retrospettiva John Carpenter:
Essi vivono (1988)

La sopravvivenza, la distopia, e un carattere, questa volta, spiccatamente politico: ecco gli ingredienti di They Live.
Gli alieni si impossessano dell’America prendendo sembianze umane, mentre imperversa la crisi economica che sta mettendo in ginocchio il Paese. La minaccia qui non è l’invasione, già avvenuta, ma la monopolizzazione e assimilazione del popolo terrestre. Attraverso segnali nell’etere e messaggi subliminali orwelliani, “essi” tengono soggiogata la popolazione e la inducono a obbedire, consumare, riprodursi, dormire e soprattutto a non pensare.
Il denaro diventa, esplicitamente, il Dio da riverire: la scritta “This is your God” sopra una banconota è l’apogeo della critica al capitalismo di Carpenter.
Il modello capitalista diventa una realtà palpabile, in cui siamo immersi, influenzati da input che ci inducono a spendere e a credere di essere felici per questo. L’élite sociale, però, ne è perfettamente consapevole ed è disposta a sottomettersi al potere degli invasori in cambio di prosperità economica, distribuita ovviamente con disparità.
Il protagonista, alla fine, farà cadere la facciata dell’ipocrisia. “Essi vivono, noi dormiamo” – lui sceglie di svegliare l’umanità.
Con numerose incursioni nello slapstick e nel cinema d’azione, questo incubo urbano è l’ennesima opera di culto di Carpenter, un film che, come 1984 di George Orwell, cambia la prospettiva sul mondo.
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Avventure di un uomo invisibile (1992) è il lavoro successivo, affidatogli dalla Cornelius Productions nella speranza di riesumare un classico della fantascienza. Il risultato è un ibrido tra sci-fi e spionaggio in cui Carpenter si conferma in grado di esaltare qualsiasi genere cinematografico.
L’anno successivo abbandona temporaneamente il grande schermo per tornare alla televisione e dirigere Body Bags – Corpi estranei (1993), rientrando nei ranghi dell’horror, seppur sfumato da atmosfere grottesche al limite del ridicolo, dove terrore e umorismo si fondono.
Retrospettiva John Carpenter:
Il seme della follia (1994)

In the Mouth of Madness conclude la Trilogia dell’Apocalisse.
Questi tre film trattano tutti, in un modo o nell’altro, della fine delle cose, la fine di tutto, del mondo che conosciamo, ma in modi diversi
John Trent, entrato nell’immaginario collettivo legato a Carpenter (insieme a Plissken, Burton e Myers), è un investigatore delle assicurazioni e il suo compito è smascherare le frodi. Un giorno gli viene chiesto di indagare sulla scomparsa dello scrittore Sutter Cane, autore del romanzo Nelle fauci della follia. L’indagine lo condurrà proprio in quelle fauci.
Il protagonista, interpretato da un bravissimo Sam Neill, è un uomo libero che non accetta di prendere ordini, irremovibile e razionale. Il suo rifiuto nei confronti di ciò che è intangibile lo porta ad ipotizzare che il caso sia una grande messa in scena, di cui crede di riconoscere la finzione.
Carpenter denuda completamente l’anima arrogante del suo anti-eroe, costretto a cedere al potere del male fino alla sua completa assuefazione. Un male che non si può smascherare perché è reale.
Il seme della follia disorienta e stordisce, attraverso loop infiniti e claustrofobici.
L’epilogo catapulta protagonista e spettatore tra le fauci della follia, in un’inevitabile Apocalisse.
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Opposta la situazione ne Il villaggio dei dannati (1995), remake dell’omonimo film del 1960, fiasco colossale al botteghino. Nel 2022 è diventato anche una serie tv, ma segna comunque la prima vera caduta di Carpenter. La trama è essenziale: cittadina californiana, blackout improvviso, molte donne si ritrovano improvvisamente incinte e i bambini diventeranno terribili assassini. Una debole sceneggiatura associata ad effetti speciali non all’altezza segnano il fallimento totale di questo film.
Il flop convince Carpenter a riesumare la sua creatura più celebrata: Jena Plissken. Fuga da Los Angeles (1996) non è un sequel né un remake, bensì una parodia sul mito dell’eroe americano. Il film ripercorre ambienti, dialoghi e circostanze già vissute, con effetti visivi volutamente comici sullo stile dei videogame dell’epoca. Una scherzosa satira sulla politica inerme, dall’era del consumismo di Reagan a quella del conservatorismo di Clinton. La sfiducia definitiva nella razza umana viene qui palesata a caratteri cubitali.
Purtroppo, anche questo film si rivela un fiasco al botteghino.

Il successivo Vampires (1998) riceve il plauso unanime di critica e pubblico in Europa. Un horror beffardo e truculento con una vena dissacrante. Il protagonista è un crociato mercenario assoldato dal Vaticano per uccidere i vampiri, coadiuvato da una setta al servizio dei potenti. L’orrore delle immagini, in cui i personaggi vengono massacrati e smembrati, viene annacquato dai blasfemi dialoghi del protagonista. Un sanguinolento western on the road che mette in scena, ancora una volta, la sfiducia e lo scetticismo che testimoniano la concretezza del Male.
La chiesa, forte presenza nei lungometraggi di Carpenter, è il simbolo religioso che scaturisce inevitabilmente dalla continua ricerca tra bene e male, è il luogo in cui si manifesta la verità (gli occhiali di Essi vivono vengono trovati in chiesa, ad esempio). Vampires annienta per la prima volta il bene facendolo alleare con il demonio. Anche la chiesa diventa un luogo ambiguo e ipocrita.
Retrospettiva John Carpenter:
Gli anni 2000
Fantasmi da Marte (2001) è il film con cui il regista si inserisce nel nuovo millennio, un inno alla sopravvivenza e alla resistenza che però ha perso i toni brillanti e scoppiettanti dei lavori precedenti.
Dopo l’ennesimo flop, Carpenter decide di concedersi una lunga pausa dal cinema per dedicarsi alla televisione. Gira Cigarette Bruns – Incubo mortale (2005), un episodio che omaggia le sue opere minori. Il successo della puntata lo convince a girare un secondo episodio nella stagione successiva, Pro-Life (2006), meno fortunato del primo.

Nel 2011, a dieci anni di distanza dal suo ultimo lungometraggio, John Carpenter torna in sala con un horror su commissione: The Ward – Il reparto (2010). Ambientato in Oregon nel 1966, si allontana dagli ultimi lavori sci-fi. Il film è, per stessa ammissione del regista, un traguardo ludico che abbandona quasi totalmente le tematiche a lui care per concentrarsi sull’archetipo horror. Lo slasher costituisce infatti il cardine della pellicola, in assenza di profondità narrativa.
Anche l’ultimo lavoro carpenteriano è destinato al fallimento: uscito direttamente in homevideo negli USA, in seguito al rumoroso flop europeo, riassume perfettamente il difficile rapporto con il pubblico e con la critica che ha sempre attanagliato il regista e la sua carriera.
Nonostante gli ambivalenti e poco riconoscenti risultati di stampa e di incassi, John Carpenter rimane comunque un pilastro del cinema horror e non solo, portatore di rivoluzioni e tematiche ancora oggi attuali, sbalorditive per la messa in scena artigianale del suo genio creativo.

Fonte: Ondacinema