In concorso al 65º Festival internazionale del cinema di Berlino, Vulcano (Ixcanul, 2015) segna l’esordio nel lungometraggio di Jayro Bustamante, che ha vinto il Premio Alfred Bauer. Un debutto intenso, che ci mostra una realtà etnica e sociale sconosciuta, attraverso una messa in scena che unisce, senza eccessiva enfasi, la drammaturgia della fiction con uno stile documentaristico.
Vulcano, la trama
María (María Mercedes Coroy), diciassettenne di origine Maya, vive con i suoi genitori in una piantagione di caffè ai piedi di un vulcano. La ragazza dovrebbe sposarsi, contro la sua volontà, a un giovane contadino di estrazione sociale superiore alla sua, ma si lascia sedurre da El Pepe (Marivn Coroy).

La sofferenza di un popolo legato alle proprie tradizioni
A tutt’oggi, sparse in remote zone del mondo, (soprav)vivono sacche etniche radicate ad antichissime tradizioni. Sparuti popoli che rifiutano – ma sono non sono messi in condizione da gruppi più potenti – di integrarsi nella realtà contemporanea.
Tra le varie “tribù” superstiti, c’è anche quella dei Maya Kaqchikel, che seguono la tradizione dell’arcaica civiltà pre-colombiana, vivendo e lottando nei selvaggi e aspri altipiani del Guatemala. È una tribù che ancora si auto-disciplina con il sacro testo Popul Vuh, e conserva tenacemente la sua lingua identitaria.
I Maya Kaqchikel vivono – come schiavi – lavorando i terreni dei ricchi ladinos, gruppo etnico che, sebbene abbia origini maya, ha preferito integrarsi prendendo le distanze dalle proprie radici, anche attraverso l’utilizzo della lingua spagnola. Tutto ciò è, in sostanza, una dura e inumana colonizzazione interna, attuata da una popolazione affine nei confronti di questa tribù indifesa politicamente e socialmente, utile soltanto come “bestia da soma”.
Questa “disarmata” ma combattiva tribù, e i riti e i problemi che vi gravitano intorno, sono al centro della pellicola Vulcano. Questa brutale realtà guatemalteca ci era già stata raccontata, dettagliatamente e con vigore, dal Premio Nobel Rigorberta Menchù, che nel 1982 espose a Elisabeth Burgos la sua vita e quella del suo popolo oppresso. Tutto questo fluviale e veemente reportage verbale venne raccolto nel libro Mi chiamo Rigoberta Menchú (Me llamo Rigoberta Menchú y así me nació la conciencia).
Gli anni descritti dalla Premio Nobel guatemalteca erano molto più cupi e brutali – nel paese c’era una funesta dittatura, e ci fu una feroce pulizia etnica – ma anche quello che racconta/mostra Bustamante è analogamente violento. La pellicola poteva benissimo intitolarsi Mi chiamo Maria, e per mezzo del triste e tortuoso cammino della protagonista Maria, ragazza maya odierna nata e cresciuta in un solco antico, descrivere la società del Guatemala.

Vulcano, tra fiction e documentario
Vulcano unisce la fiction al documentario, dove la drammaturgia “guidata” è inserita nel reportage etnografico. La drammatica storia personale della giovane protagonista serve come veicolo per raccontare il tragico presente di un popolo che è rimasto fedele alle “pacifiche” e naturalistiche origini, ma alla mercé schiavista dei ladinos.
E la scelta di porre al centro della storia una giovane figura femminile rimarca maggiormente il primitivo stato umano del Guatemala. Jayro Bustamante, anche autore della sceneggiatura, prosciuga la storia di picchi emotivi, senza perdere l’intensità dell’assunto e, per lambire lo stile documentaristico, opta per una regia scrutatrice, in cui le inquadrature raccolgono e documentano usi e costumi dei Maya Kaqchikel.
Per creare questo reportage intimistico, Bustamante filma i personaggi “assimilati” alla selvaggia natura, oppure concentrandosi su particolari rituali o sui volti/corpi, soprattutto quello di Maria e della madre Juana (María Telon). La regia eccede solo nelle brevi scene in città, in cui la finzione e il climax emozionale divengono posticci, come ad esempio la scena al commissariato.
La fuga desiderata da Maria, con il suo “amante” El Pepe, non è vera emancipazione femminile, ma semplice evasione da un mondo regolato da turgide leggi patriarcali e dettami divini; oltre che semplice fuga mossa dal passionale amore tra i due.
Vulcano è un racconto circolare, in cui il destino di Maria è già segnato dalla seconda inquadratura, quando la madre cinge la sua testa con il nastro colorato tipico dei costumi Maya. Il vulcano, che da il titolo alla pellicola, è la venerata arcaica “divinità” che bisogna onorare e rispettare, ma è anche la (in)quieta massa geografica che nasconde il confine, inteso come presente/futuro. Ingombrante “personaggio” come tutta la natura che circonda e fagocita i personaggi, che regola le vite del popolo Maya e di Maria.
