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Innamorarsi in Giappone: 15 film romantici che raccontano il paese del Sol Levante
I mille volti del Giappone raccontati da stupende storie d'amore, tra sperimentazioni innovative, tradizione e storia del cinema: ecco i migliori
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11 mesi fail
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Giacomo MoscaIl Giappone, paese del Sol Levante, ci attira e seduce con la sua cultura, i suoi paesaggi e il suo popolo, anche grazie all’immagine che, dagli anni subito successivi alla seconda guerra mondiale, è stato capace di creare intorno a sé. Dai Manga al Sushi, dai Samurai alle auto sportive, dalle campagne calme e incontaminate della prefettura di Hokkaidō, ai labirintici e alienanti vicoli al neon di Tokyo, fino alle bianche spiagge da cartolina e le atmosfere epiche delle antiche costruzioni imperiali.
Il Giappone ha mille volti e non importa sapere cosa c’è dietro la sua limpida facciata, tanto basta per innamorarsene perdutamente. Sono tanti gli autori che negli anni hanno tentato di districare la matassa di simboli e idee che il Giappone rappresenta, sfruttandolo come chiaro simbolo e co-protagonista delle proprie pellicole, la cui trama, spesso e volentieri, ruota attorno al più universale dei sentimenti, forse l’unico capace di razionalizzare l’aura contraddittoria di questa terra, l’amore.
L’ultimo della lista, uscito in sala l’11 Gennaio 2024, è Viaggio In Giappone (Sidonie Au Japon), presentato alle Giornate Degli Autori durante l’80esimo Festival del Cinema di Venezia, il quale racconta la storia di Sidonie, una scrittrice francese che vola in estremo oriente, alla ricerca di se stessa dopo aver perso il marito, e che qui troverà una nuova fiamma per alimentare il suo fuoco.
Partendo proprio dal film, quasi autobiografico, di Élise Girard con Isabelle Huppert, Tsuyoshi Ihara e August Diehl, ecco alcune delle pellicole più iconiche capaci di raccontare i tanti volti del Giappone attraverso storie romantiche delle volte genuine, altre artefatte, racconti d’amore dolce, brutale, appassionante. Viaggi talvolta impossibili, altre volte indicibili, con al centro sempre quella magica e misteriosa terra dove ‘nasce il sole’.
Hiroshima Mon Amour (Alain Resnais, 1959)
Questo ‘viaggio in Giappone’ inizia proprio come quello di un turista che, emozionato e ingenuo, si affaccia alla terra nipponica munito di curiosità e una camera che possa immortalare e rendere indelebile ogni cosa che vede. I primi film della lista sono quelli di produzione straniera al Giappone.
Come Sidonie au Japon, anche Hiroshima Mon Amour è francese. ‘Lei’ (Emmanuelle Riva) è un’attrice che si trova in Giappone per girare un film pacifista, non a caso nella città simbolo, senza tempo, degli orrori della guerra -come ci ha ricordato Oppenheimer– ‘Lui’ (Eiji Okada) è un giovane uomo d’affari del posto, sofferente e pragmatico. Tra i due nasce un amore sincero e passionale, che non scade nel volgare nonostante la trascinante attrazione tra i due non venga mai oscurata.
‘Oppenheimer’ sbarca in Giappone
Scritto magistralmente dall’attrice Marguerite Duras, Hiroshima Mon Amour è uno dei primi esempi della neonata Nouvelle Vague, grazie all’utilizzo innovativo dei flashback e a una storia d’amore intima e contraria ai pudori della società, ignara delle sovrastrutture sociali o razziali che, come proprio il cinema francese degli anni ’60 insegna, erano ormai superate, perlomeno nel guscio protettivo che l’innamoramento può creare attorno a due persone.
L’opera di Resnais è senza dubbio da annoverare tra le massime espressioni del cinema del ‘900, un film che sceglie coraggiosamente di mettere in dubbio il senso del potere e dei conflitti, di fronte alla meraviglia di una pulsione umana. Questo amore, a lei, ricorda quello che durante la guerra ebbe nella nativa Nevers con un giovane soldato tedesco, ucciso sotto i suoi occhi e la riporta al mondo. Sguardi e dialoghi tanto brillanti quanto fluviali, imprimono a Hiroshima Mon Amour, una tridimensionalità indelebile, eterna.
A sfondo bellico, due anni prima, uscì nelle sale Sayonara (Joshua Logan, 1957), con Marlon Brando nei panni di un soldato americano impegnato nella Guerra di Corea, che si innamora perdutamente di una ragazza giapponese, interpretata da Miiko Taka. L’istinto di seguire un sentimento così puro si scontra con la crudeltà e i doveri dell’ambiente militare.
Tradurre l’amore
Si dice che l’amore sia un linguaggio universale, capace, tramite la sua inafferrabile essenza, di raccontare e dare un senso a qualsiasi cosa. L’amore e l’innamoramento dicono tutto di una persona, delle sue azioni, decisioni e abitudini. Ci si potrebbe spingere ancora più in là e dire che questo sentimento, così forte, abbia saputo muovere i popoli e cambiare il corso della storia. Ma se è vero che questa visione della nostra realtà è forse un po’ troppo romantica, è altrettanto vero che ne esiste una alternativa, dove è concesso lasciarsi andare, quella del cinema.
Lost In Translation (Sofia Coppola, 2003)
È quello che Sofia Coppola decide di fare con il suo, splendido, secondo lungometraggio, Lost In Translation. Bob, star in declino di Hollywood, interpretata da un malinconico Bill Murray, è a Tokyo per recitare nella pubblicità di un whisky. Rinchiuso nel lussuoso hotel dove soggiorna, si sente terribilmente solo, non conosce il luogo ne la lingua e si perde nei suoi pensieri mentre guarda la sua carriera cadere a pezzi; a condividere questo sentimento c’è Charlotte, una giovane Scarlett Johansson, di molti anni più giovane, la quale si trova a Tokyo per seguire la carriera da fotografo intrapresa dal suo apatico marito. I due si incontrano, legando inevitabilmente le loro anime, come fossero gli unici punti di luce tra milioni di ombre.
Lost in Translation, disponibile in PPV su Apple TV+e Prime Video, mostra il Giappone come un luogo tanto lontano e diverso da sembrare alieno, e racconta di un amore dettato dalla sopravvivenza, non dal sesso, che lo rende uno dei film romantici più importanti del nuovo secolo, indelebile nella memoria degli appassionati e consacrazione di Sofia Coppola quale vera e propria figlia d’Arte, ‘A’ maiuscola.
Cinque anni più tardi è il turno di The Ramen Girl (Robert Allan Akerman, 2008), film con meno pretese ma senza dubbio intrigante per la svolta che decide d’intraprendere. Dopo essere stata abbandonata dal fidanzato mentre si trovava a Tokyo, Abby, una studentessa fuori corso interpretata dalla compianta Brittany Murphy, cerca di superare la delusione lasciandosi affascinare da un altro tipo di amore, quello per l’arte culinaria giapponese, aprendosi ad una cultura diversa e a nuove esperienze piuttosto che rinchiudersi in se stessa.
Memorie di una Geisha (Rob Marshall, 2005)
Uno dei film di maggior successo in questa lista, tre premi oscar per la pellicola ambientata nel Giappone imperiale del 1929. Chiyo è una bambina di nove anni figlia di modesti pescatori. Dopo essere stata venduta a una casa di geishe di Tokyo è costretta a crescere lavorando fino allo sfinimento agli ordini di Hatsumomo. Col tempo in lei nascerà il desiderio di diventare una Geisha, per vivere una vita più agiata e godere dell’ammirazione della società, in poco tempo diverrà la donna più desiderata del Giappone, attirando uomini facoltosi e pericolosa invidia.
Memorie di Una Geisha, incluso nell’abbonamento Netflix e acquistabile su Rakuten TV e Prime Video, racconta di un altro tipo d’amore, più avido e subdolo, dove vige la legge del più furbo, o forse della più bella, meglio, di entrambi.
Nonostante il film voglia rendere omaggio alla tradizione nipponica, all’epoca destò non poca polemica il fatto che una buona parte del cast non fosse giapponese, tra cui la stessa protagonista Zhang Ziyi, cittadina cinese e Michelle Yeoh, malese. D’altro canto accade spesso che attori statunitensi in film hollywoodiani interpretino personaggi europei per via dei loro tratti somatici che, per un americano, possono essere riconducibili a un’altra etnia, “Ralph Finnes può interpretare un personaggio inglese, un tedesco, un polacco, un ebreo” sostenne l’attrice Sandra Oh (Grey’s Anatomy) in un’intervista a Bust Magazine.
Come cicatrici
Ad alimentare le controversie fu la censura totale che la pellicola subì nella repubblica popolare cinese, per paura che questa potesse contribuire a risvegliare il sentimento anti-giapponese che, dai tempi della seconda guerra mondiale, non si era mai spento del tutto. Solo nel 2019 Memorie di Una Geisha è stato reso disponibile in streaming anche in territorio cinese.
L’occhio, talvolta pigro, dell’occidente è ciò che allontana i puristi da film come Memorie di Una Geisha, al contrario, in Seta (François Girard, 2007), con Keira Knightley e Michel Pitt la situazione è opposta: Ambienti, musica (di Sakamoto) e ricostruzione storica sono impeccabili, ma la storia d’amore e le emozioni che i personaggi lasciano trasparire risultano incolori, creando un fastidioso contrasto con le brillanti e vivaci coltivazioni di seta attorno al quale ruota il film. Tanta forma e poca sostanza, ma Seta non poteva mancare tra le menzioni di questa lista, una lettera d’amore al Giappone, incorniciata in una commedia tremendamente anni duemila.
Quando scatta la scintilla
Questi titoli sono indubbiamente centrali per costruire un’immagine del Giappone visto dagli occhi dell’occidente, ma per conoscere davvero l’appassionante storia d’amore tra il paese del Sol Levante e la settima arte occorre fare un balzo indietro nel tempo e analizzare alcuni titoli dei più grandi cineasti nipponici del novecento e i loro film anche considerati, non a caso, tra i migliori in assoluto.
Una Meravigliosa Domenica (Akira Kurosawa, 1947)
Un classico senza tempo del maestro senza tempo Akira Kurosawa. Nel Giappone, ancora ferito, del dopoguerra Yuzo e Masako sono una coppia d’innamorati che decide di trascorrere una domenica pomeriggio, cercando di divertirsi con i soli trentacinque yen a disposizione. Circondati da tristezza, sciacalli e desolazione, i due riescono a vivere tante piccole avventure che renderanno ‘meravigliosa’ la loro domenica, grazie soprattutto all’ottimismo e la fede nei sogni di Masako (Chieko Nakaklita), in grado di risollevare l’animo del mite Yuzo (Isao Numasaki) dal suo disperato realismo.
La regia all’avanguardia, la composizione delle inquadrature a metà tra teatro e neorealismo e una scrittura dolcemente naïf rendono Una Meravigliosa Domenica uno snodo fondamentale nell’ancora acerba carriera di Kurosawa, capace di regalarci una commedia agrodolce dal forte simbolismo e black humor a sfondo sociale.
Kurosawa dona dignità al ridicolo, che si tratti di una palla da baseball goffamente lanciata in direzione dell’insegna di un negozio, solamente per far colpo su un gruppo di ragazzini di strada o di una visita in quella casa costosissima giusto per assaporare un po’ della bella vita di cui tutti parlano. Una Meravigliosa Domenica è l’ode alle piccole cose e al come viverle con le persone giuste possa renderle speciali. Pellicola consigliatissima, sopratutto ai fan di Kaurismaki.
Tokyo Story (Yasujiro Ozu, 1953)
C’è un detto in Giappone, una sentenza celebre perché sostenuta e rimarcata spesso dai critici ed esperti di cinema nipponico; dice che, se i film di Kurosawa sono estremamente occidentali, quelli di Ozu sono la quintessenza del Giappone, raccontato con una maestria che nessuno ha mai saputo replicare. Parlando di due autori così importanti e complessi è impossibile trovare tutti d’accordo ma una cosa è certa, Yasujiro Ozu nella sua illustre carriera, ha donato ogni parte di se al racconto cinematografico della sua terra e delle anime che la abitano. Se non è amore questo, allora cos’è?
Tokyo Story, in italiano ‘Viaggio a Tokyo‘, è considerato il capolavoro di Ozu e uno dei migliori film in senso assoluto. Due anziani della provincia di Hiroshima vanno per la prima volta a Tokyo in seguito a un lungo e faticoso viaggio in treno a visitare i figli, ormai cresciuti e sposati. La frenetica vita di città e gli impegni del lavoro non permettono ai figli di riservare tempo, né voglia all’intrattenersi con i propri genitori. Neppure i nipotini apprezzano la loro presenza. Soltanto la vedova di un altro figlio disperso in guerra li tratta con gentilezza e fa loro visitare la città. La malinconia e la delusione della coppia accresce col passare del tempo portandoli alla silenziosa rassegnazione.
Wenders meets Ozu: un rapporto di (distante) reciprocità
Come molti altri film di Ozu, Tokyo Story racconta il conflitto generazionale e la distanza, umana e fisica che può esserci perfino tra i membri di una stessa famiglia e lo fa caricando di empatia e umanità i momenti che scandiscono la pellicola. Il viaggio emozionante ed elegante che Ozu ci racconta vede al centro l’amore nella sua forma più pura, quello dei genitori per i propri figli e di come, nella società moderna, lobotomizzata dal produrre e dal guadagnare, le priorità sono divenute altre. Nonostante ci dica questo più di 70 anni fa, poco è cambiato, anzi.
Tokyo Story è disponibile in streaming con Nexo+ tramite Prime Video e in PPV su Rakuten TV, Apple TV+ e nel Google Play store.
L’intendente Sansho (Kenji Mizoguchi, 1954)
Sansho The Bailiff narra la storia di un governatore idealista che, disobbedendo al signore feudale regnante, viene mandato in esilio, sua moglie e i suoi figli vengono lasciati a se stessi e alla fine separati da malvagi mercanti di schiavi. “Sotto la brillante regia di Kenji Mizoguchi, questa classica storia giapponese è diventata uno dei più grandi capolavori del cinema, un’espressione monumentale ed empatica della resilienza umana di fronte al male”, menzionando la sinossi fatta da Criterion Collection, migliore amica di ogni cinefilo.
Come nel sopraccitato capolavoro di Ozu, l’estremizzazione del dolore che un animo umano può sopportare è il fuoco che alimenta le gesta dei personaggi ma, in maniera diametralmente opposta rispetto a Tokyo Story, qui sono i figli, orfani per procura, a vivere una triste e sofferta epopea per ricongiungersi alla famiglia, sperando invano di riavere indietro quell’amore che gli è stato sottratto per mano di, chi l’amore, non l’ha mai capito.
Il cinema giapponese dalle origini a ‘Drive My Car’
Dopo Kurosawa e Ozu non poteva mancare in questa lista un film di Kenji Mizoguchi, L’intendente Sansho (Sansho The Bailif) è un prodigio della tecnica, espressa al suo massimo con lunghi ed elaborati piani sequenza e un’attenzione particolare al ruolo della donna nella società. Forse inserirlo in questa lista è un azzardo ma il romanticismo con cui Mizoguchi tratta temi come il sacrificio, l’avidità o il riscatto dicono molto della società nipponica. Non a caso la storia originale risale addirittura al medioevo.
Discorso analogo si potrebbe fare per Akitsu Springs (Yoshishige Yoshida, 1962). Shusaku si reca alle terme di Akitsu per curare una brutta tubercolosi contratta in guerra e per cercare di dimenticare gli orrori vissuti, Shinko è la figlia della proprietaria della locanda in cui lui alloggia, i due si innamorano e, condividendo una forte insofferenza per lo stato delle loro esistenze, tentano invano di suicidarsi. Quello che Mizoguchi e Yoshida vogliono dirci è che vita, morte e sentimento sono legati indissolubilmente e questo è il prezzo della condizione umana. A questo proposito…
L’età della scoperta
Si conclude la parte del viaggio che analizza quei film che, in un modo o nell’altro, hanno raccontato la realtà del Giappone postbellico con uno sguardo romantico. Di questa lista non fa parte l’indimenticabile trilogia de La Condizione Umana di Masaki Kobayashi, troppo discostante dal tema principale seppur pregna di amore, per il cinema in primis, ed ennesima prova di come gli autori giapponesi dell’immediato dopoguerra abbiano saputo raccontare la loro realtà con una lucidità ed una poesia irripetibili.
Gli anni passano, i ricordi del triste passato si fanno sempre più opachi e un nuovo Giappone nasce. Un paese moderno, proiettato al futuro, luminoso, colorato, tecnologico ed in perenne fibrillazione. In quest’epoca di rinascimento collettivo alcuni autori controcorrente conquistano una propria nicchia con film avanguardisti e scandalosi, sorretti da un decadentismo al neon quasi cyberpunk, Nagisa Oshima è uno di questi.
Diario di un Ladro di Shinjuku (Nagisa Oshima, 1968)
Diario di Un Ladro di Shinjuku, tredicesimo lungometraggio di Oshima in appena nove anni, è incentrato su Birdie, un giovane ladro di libri giapponese che viene beccato da Umeko, commessa in una libreria. Da quel momento i loro incontri diventano sempre più carichi di tensione e inaspettato desiderio, i due diventano amanti e iniziano a commettere furti insieme.
Diary Of a Shinjuku Thief è per lo più in bianco e nero, scelta che rende ancora più d’impatto le sequenze a colori, creando un netto (e voluto) distacco dalle tendenze che la cinematografia stava prendendo orientandosi sempre di più a occidente. Anche i personaggi danno seguito a questo intento. La coppia innamorata non è più vittima degli eventi, schiava di una qualche autorità più forte e prepotente; al contrario l’amore tra Birdie e Umeko è dettato dalla ribellione, una rivisitazione nipponica e underground di Bonnie e Clyde che da origine ad una radicale e quantomai naturale alternativa alla visione comune.
‘Red Post on Escher Street’. l’imprevedibile film di Sion Sono
A seguire la strada della perdizione si rischia facilmente di andare oltre. Nel 1976 Oshima scandalizza il paese con In The Realm Of Senses (Ecco L’impero dei Sensi). In questo film un uomo, con la compagnia di un suo servitore, danno inizio a una serie di indicibili misfatti che, in poco tempo sfociano in abusi sessuali e di violenza inaudita, il vortice in cui cadono li porta a volerne sempre di più. Abbandonandosi all’ardore dei momenti, i due rinnegano ogni cosa, compresa la vita. L’ambientazione post-bellica del film accresce ancora di più il significato di scostamento dal passato che Oshima voleva trasmettere.
In Nanami: The Inferno of First Love, diretto da Susumu Hana nel 1968, un giovane orafo dal passato burrascoso si innamora di una modella di nudo. Entrambi condividono un infanzia di sofferenze che ha causato loro un’irreparabile incapacità nell’esprimere genuinamente i propri sentimenti. Destino e sfortuna si incrociano in una storia che non potrà mai trovare pace se non in pochi fugaci momenti, un inferno senza via d’uscita.
Una delle pellicole che indiscutibilmente hanno formato Oshima è Kisses (Yasuzo Masumura, 1957), la storia d’amore tra Kinichi e Akiko, due giovani che, dopo aver rovinato il corso delle proprie vite con scelte sbagliate e immorali trovano pace nell’affetto reciproco.
His Motorbike, Her Island (Nobuhiko Obayashi, 1986)
Un giovane fattorino innamorato della sua Kawasaki, una misteriosa ragazza in bianco e un’isola in cui vivere fuori dal tempo. Stilisticamente ed esteticamente simile alle opere di Oshima, questo nostalgico racconto del primo amore emoziona e affascina, seduce e tradisce, causa sbalzi d’umore incontrollati e rimane indelebile nella memoria, proprio come il primo amore, appunto.
His Motorbike, Her Island esplora le sottoculture giovanili degli anni ’80, la prima generazione a vivere nel “nuovo” Giappone votato al consumismo e alla spensieratezza. La storia di Koh e Miyoko è onirica, annebbiata dai fumi dell’alcool e mossa da un’invidiabile ingenuità. L’amore raccontato da Obayashi è quel sentimento tanto irreprimibile da rendere chi ne è affetto schiavo inconsapevole delle proprie pulsioni.
La leggerezza, l’inadeguatezza e il trasporto tipici del cinema asiatico anni ’90, esportato nel mondo da Takeshi Kitano e Edward Yang, passando per Hou Hsiao-hsien fino a Wong Kai-wai nascono o si evolvono tutti, in un modo o nell’altro, in questi anni grazie anche a pellicole come His Motorbike, Her Island.
Un anno prima, Obayashi girò Miss Lonely, meno d’impatto ma allo stesso tempo ancor più onirico e significativo. Una ragazza del liceo incontra improvvisamente l’amore della propria vita, in un attimo questi svanisce e mentre il ricordo le si sedimenta nel cuore e nella mente, la ragazza si chiede se fosse tutto frutto della sua immaginazione.
Quella di Nobuhiko Obayashi è una delle carriere più eclettiche del cinema nipponico. Cresciuto dai nonni materni dopo il perimento al fronte del padre, ha espresso la sua visione in molteplici ambiti artistici, raggiungendo il massimo della notorietà nel 1977 con Hausu, un horror divenuto cult che presenta interessanti sperimentazioni con tecniche di ripresa mista e animazione.
Takeshi vs Kitano
L’industria cinematografica giapponese è sempre stata eccellente nel raccontare con lucida chiarezza l’identità del paese, spesso tramite metafore o storie di vita quotidiana all’apparenza semplici. Takeshi Kitano nella sua illustre e camaleontica carriera ha spesso dedicato al romanticismo e all’effimera presenza dell’amore un occhio di riguardo. Come un avvocato pronto a tutto per difendere il suo cliente, Kitano rende importanti i gesti più semplici, fa si che il mondo intero ruoti intorno ai suoi personaggi.
A Scene At The Sea (Takeshi Kitano, 1991)
Il silenzio sul mare è un film per certi versi anomalo che segna un punto di rottura con il passato, fatto di gangster e sparatorie, del regista. In un tranquillo paese sul mare, Shigeru, un giovane netturbino sordomuto trova una tavola da surf, vecchia e logora, nella spazzatura; supportato dalla sua ragazza, anch’essa sorda, decide di diventare un campione della disciplina, nonostante i costanti fallimenti e gli occhi giudicanti degli altri ragazzi del paese.
Con questo film, dolce e intrigante, Kitano esprime il suo amore per il mare, ancora più esplicito nel successivo Sonatine, e come fosse il vero protagonista, fa si che esso sia causa delle gioie e dei dolori per i personaggi. Shigeru vede nel mare l’unica via d’uscita da un’esistenza che non lo soddisfa, sente il richiamo di esso e in fondo conosce anche quanto possa essere crudele e spietato.
Claude Maki, il protagonista, apparso in diversi film di Kitano, è a tutti gli effetti un surfer professionista, oltre che un cantante Hip Hop sotto lo pseudonimo di A.K.T.I.O.N, da sempre considerato ideale nell’interpretare i ruoli delicati e apatici che il regista li proponeva è il perfetto ritratto del giovane giapponese sognatore di quegli anni: impassibile nell’inseguire i propri sogni e disilluso da una realtà che lo opprime.
“Foto di famiglia” in Italia dopo aver emozionato il Giappone
Nel 1997, Kitano dirige Hana-bi – Fiori di fuoco, il suo film più significativo, grazie sopratutto al Leone d’Oro conquistato al 54esimo festival del cinema di Venezia. Trionfo di estetica e irriducibile romanticismo. La storia di violenza dell’ex poliziotto Nishi, interpretato da Kitano stesso, fa da contraltare alla sua delicata interiorità, profondamente turbata dalla leucemia di cui è affetta la moglie. I due lati del regista in un unico, splendido, film.
Un film simile Kitano lo realizzerà cinque anni dopo; il titolo è Dolls e racconta tre struggenti storie d’amore incondizionato, a cavallo delle quattro stagioni e con un’elemento visivo d’impatto a legarle, il colore rosso, simbolo universale di amore e sofferenza. La prima ruota attorno ad una giovane coppia di vagabondi legati, a tutti gli effetti, da una corda; poi un anziano membro della Yakuza torna nel giardino dove era solito passare del tempo con la fidanzata ed infine un ragazzo che decide di acciecassi prima di incontrare la sua cantante preferita, rimasta sfigurata.
Love actually: la missione dei nuovi
I nuovi autori del cinema giapponese hanno scelto una via che pare essere comune, senza rinnegare i maestri del recente passato ma sfatando i miti ideologici con cui sono cresciuti tramite film coraggiosi e sperimentando tecniche di narrazione nuove. Hamaguchi, Kore-eda e perfino Sion Sono o Satoshi Kon attingono all’immensa cultura letteraria nipponica per stupire e sedurre lo spettatore in un’epoca di rara libertà espressiva.
Asako I&II (Ryusuke hamaguchi, 2018)
Quella di Ryusuke Hamaguchi è senz’altro tra le più interessanti filmografie contemporanee, in Giappone e non solo. Dopo essersi fatto notare nel 2015 con Happy Hour per la sua maestria nella direzione degli attori e per il suo sguardo particolare verso la società contemporanea giapponese, raccontando quattro storie in 315 minuti incentrate sulla vita sentimentale di quattro donne di Kobe. Ha ottenuto la consacrazione tra gli addetti ai lavori con Il Gioco Del Destino e Della Fantasia, gran premio della giuria al 71esimo Festival di Berlino, sfruttando lo stesso espediente del film a episodi per sperimentare tecniche di racconto e di regia diversi, anche qui, seguendo tre donne turbate dai propri sentimenti e mosse dall’immaginazione. Disponibile in streaming su MUBI.
Asako I&II (Netemo sametemo) si colloca nel mezzo, sia a livello di scelte e trama, sia perché uscito nel 2018, a cavallo dei precedenti. Asako, una timida e insicura studentessa di Osaka, si innamora di Baku. La loro storia è da romanzo rosa finché lui, un giorno, svanisce nel nulla. Due anni dopo, a Tokyo, Asako incontra un altro ragazzo, identico a Baku. In primis la cosa la destabilizza, salvo poi convincerla a riprovarci, innamorandosi quindi del misterioso ragazzo con l’aspetto ammaliante di Baku, ma il carattere gentile e premuroso di Ryohei, questo il suo nome. Con lui comincia una nuova vita e sperimenta una nuova relazione sentimentale, più profonda e genuina. Tutto questo fino a che il suo passato non le si ripresenta, lasciandola appesa tra due realtà e dividendole il cuore irreparabilmente.
Oscar 2024: Il Giappone candida Wim Wenders invece di Miyazaki
Il talento di Hamaguchi si riversa anche nella scrittura e la sua capacità di rendere il tempo malleabile e consistente rendono Asako I&II il film perfetto per comprenderne la poetica. La storia è quella di un amore soffocante che, come un demone, perseguita la protagonista dovunque provi a fuggire, portandola al dissociarsi dalla realtà, da se stessa e ad un epilogo inevitabile.
Hamaguchi termina, per ora, la sua esplorazione degli stati dell’amore con il capolavoro del 2021 Drive My Car. Vincitore di Oscar e Golden Globe, è il trionfo del cinema giapponese nel nuovo millennio, un’opera in cui le parole lasciano spazio ad interminabili silenzi e l’amore resta solo una pagina vuota nelle vita del protagonista. Tratto dal racconto di Murakami “Uomini Senza Donne”.
Il celebre scrittore nipponico ha ispirato diversi successi cinematografici come Norwegian Wood (Tran Anh Hung, 2010) o il coreano Burning – L’amore Brucia (Lee Chang-dong, 2018), quest’ultimo nel catalogo italiano di Prime Video e Paramount+.
Air Doll (Hirokazu Kore-eda, 2009)
Annoverato tra i principali registi nipponici degli ultimi decenni, Hirokazu Kore-eda è, insieme ad Hamaguchi, la voce del Giappone di oggi, seppur le influenze taiwanesi di Hou Hsiao-Hsien e Edward Yang (sui quali ha perfino realizzato un documentario) siano palesi. Concentra le sue opere, tecnicamente elaboratissime, su dinamiche famigliari complesse e sulle conseguenze che esse portano nei protagonisti, interrogandosi sul significato stesso di ‘legame di sangue’. Shoplifters (Un Affare di famiglia), disponibile gratuitamente su Raiplay, è certamente il suo titolo più famoso ma, scavando più a fondo, la carriera di Kore-eda nasconde gemme di rara bellezza.
Una di queste è Air Doll, storia d’amore decisamente atipica: Hideo, un uomo giapponese come tanti, ordinario e solo, dedica gran parte della sua esistenza al lavoro. Hideo è fidanzato, se così si può dire, con una bambola gonfiabile, la tratta come una donna reale e vivono insieme in un’immaginaria oasi di felicità. Un giorno, però, la bambola prende vita e si sviluppa in lei una coscienza e dei sentimenti umani, si innamora di un altro uomo, Junichi e la sua esistenza cambia per sempre.
Anche in questo caso, la quotidianità assume tratti fantastici, giustificati dall’invisibile potere dell’amore, di cui Kore-eda si serve per mostrare l’alienante stato confusionale in cui la popolazione media giapponese, quella delle grandi metropoli, riversa e anticipando il tema degli ultimi film di questa lista, quello della perdita di umanità da parte della popolazione, infatuata da una realtà non più organica ma meccanica, o come in questo caso, di plastica.
Il sentimento svanisce dove manca umanità
Un altro lato del Giappone, più triste ed inquietante, è quello sviluppatosi nelle grandi città in seguito alla rapida Globalizzazione che ha invaso il paese, stravolgendo usi e costumi della popolazione e creando una confusione identitaria che il popolo Nipponico, ancora oggi, sta soffrendo. Tra le conseguenze di ciò c’è anche il fenomeno delle ‘fidanzate in affitto’, ragazze che, per soldi, si offrono di passare del tempo con i propri clienti, fingendosi la loro dolce metà. Sistema che ha poco a che vedere con la cultura Geisha e che racconta di una società dove anche l’amore è un bene di consumo.
Tokyo Decadence (Ryu Murakami, 1992) e Love&Pop (Hideaki Anno, 1998)
Tokyo Decadence è una pellicola diretta dall’autore Ryu Murakami, conosciuta anche con il titolo originale del suo romanzo ‘Topaz‘, da cui è tratto. Ai è una ragazza squillo per una agenzia di accompagnatrici di Tokyo. Tramite i suoi occhi, Murakami accompagna lo spettatore in un opprimente labirinto di perdizione cresciuto all’ombra della bubble economy. Uomini d’affari e impiegati frustrati si sfogano nel sesso a pagamento e nel sadomasochismo. La spropositata ricchezza accumulatasi nel Paese in seguito al boom della globalizzazione, è pronta a riversarsi nella rovinosa recessione degli anni novanta distruggendo, psicologicamente, un’intera generazione.
Film come Tokyo Decadence e il suo seguito, Love & Pop (Topaz II) presentano una realtà alterata, in cui ogni cosa ha un prezzo e chiunque può essere comprato, simbolo di un consumismo ormai permeato e del rapporto umano con la propria natura sempre meno genuino.
Love & Pop, del 1998, è diretto da Hideaki Anno, il quale girò il film subito dopo la chiusura del primo ciclo dedicato a Evangelion, la sua opera regina. Ambientato durante una giornata estiva a Shibuya, quartiere centrale di Tokyo, Love & Pop segue le vicende di quattro ragazze delle scuole superiori impegnate nell’enjo kōsai (appuntamenti sovvenzionati), ossia una pratica diffusa in Giappone dove uomini d’affari pagano ragazze adolescenti per trascorrere del tempo con loro. La pellicola seppur discostandosi evidentemente dalla dimensione onirica dell’anime che ha reso celebre il regista, presenta l’utilizzo di diverse piccole cineprese e microcamere digitali, piazzate in scena così da creare inquadrare inusuali e stranianti, simili a quelle viste in Evangelion.
Anime: da Evangelion a Miyazaki
Talvolta l’amore può essere ambiguo, fumoso, lontano dalla comprensione di chi ne è ‘affetto’, proprio come accade a Shinji Ikari, il ragazzino protagonista dell’anime cult anni ’90 Neon Genesis Evangelion, l’opera definitiva di Hideaki Anno, considerata un vero e proprio capolavoro. Anno utilizza la metafora religiosa e dell’apocalisse sulla terra come teatro nel quale mettere in scena l’interiorità dei suoi personaggi servendosi di poetica, filosofia e psicologia per entrare nel corpo e nella mente di Shinji, la cui mancanza di una vera famiglia, lo renderà un inetto, incapace di relazionarsi con i propri sentimenti e con le altre persone. Shinji è impotente nelle piccole cose e Anno ne mette a nudo l’anima in un modo spiazzante, mai visto prima. Chi vi dice “è solo un cartone”, non ci ha capito nulla.
Il film, disponibile su Netflix, così come la serie, The End OF Evangelion, del 1997 è la massima espressione della poetica di Anno ma, se si parla di Anime giapponesi, non si può trascurare il maestro Hayao Miyazaki, che nella sua quasi cinquantenaria carriera ha saputo far innamorare dei suoi film milioni di persone. L’amore raccontato da Miyazaki e dal suo studio Ghibli è gentile, rispettoso e coinvolge personaggi di qualsiasi età ed estrazione sociale, un sentimento condiviso e in grado di smuovere i lati più profondi dell’animo.
‘Il Ragazzo e l’Airone’ primo Golden Globe per lo Studio Ghibli
Nel meraviglioso Principessa Mononoke (1997) l’affetto provato dal giovane Ashitaka nei confronti di San, la ragazza-lupo protettrice della foresta del “Dio Bestia”, lo porterà a modificare le sue priorità, mettendo in secondo piano la sua stessa vita nell’eterna lotta tra uomo e natura. Ne Il Castello Errante di Howl (2004) la storia d’amore tra la cappellaia Sophie e il tenebroso mago Howl è una delle più suggestive e romantiche ideate da Miyazaki, l’oscurità che si mischia con la luce, il cliché degli opposti che si attraggono in un modo che, però, è tutt’altro che scontato. Entrambi i film sono presenti nel catalogo Netflix.
Menzione d’onore, poi, per Ocean Waves (1993), un adolescenziale triangolo amoroso e primo anime dello Studio Ghibli non diretto da Miyazaki o Takahata, i due fondatori. Il film TV, con la regia di Tomomi Mochizuki, era il tentativo di produrre un anime solamente con il contributo dei più giovani membri dello studio, per risparmiare tempo e denaro. Non andò come previsto e l’esperimento non si ripeté, Ocean Waves divenne così una piccola gemma per lo più dimenticata.
In epoca recente le più importanti storie d’amore negli anime incontrano le insicurezze e i sogni delle nuove generazioni; Your Name (Makoto Shinkai, 2016), affronta il tema della vita in città sempre più lontana da quella di campagna e lo fa con quel tocco fantastico che lo rende speciale. Quando Taki e Mistuha si risvegliano improvvisamente l’uno nel corpo dell’altra le loro vite vengono stravolte, portandoli a unire i loro mondi, sviluppando un rapporto sempre più profondo. Words Bubble Up Like Soda Pop di Kyohei Ishiguro, prodotto e distribuito da Netflix nel 2020, racconta una storia semplice e di genuino innamoramento adolescenziale, con momenti di tenerezza della durata di un Haiku.
Una storia (d’amore) infinita
Anche tentando di racchiudere, in poche righe, ogni aspetto e sfumatura del Giappone tramite questi incredibili film incentrati sull’amore, è impossibile concludere questo viaggio senza portare con se la sensazione che manchi qualcosa. Selezionare le pellicole più iconiche, rappresentative e memorabili di ogni epoca, tramite gli autori più illustri è forse un modo per rendere giustizia al vastissimo mondo di cui quest’angolo di cinema fa parte, sperando che chiunque sia arrivato fino a qui, possa essersi innamorato, almeno un po, del paese del Sol Levante.
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