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Lee Sun-kyun e la caccia alle streghe
Lee Sun-kyun era probabilmente uno tra i volti feticcio della cinematografia coreana, e il simbolo della sua ascesa alle stelle.
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12 mesi agoon
48 anni, premiato, seguito, rispettato. Lee Sun-kyun era probabilmente uno tra i volti feticcio della cinematografia coreana, e il simbolo della sua ascesa alle stelle.
Un’ascesa che per Lee si è interrotta nella notte del 27 dicembre, quando l’attore è venuto a mancare, togliendosi la vita nella solitudine della sua auto.
Lee Sun-kyun e vent’anni di carriera
Nei primi anni 2000 Lee Sun-kyun inizia con i prodotti per il piccolo schermo, che gli conferiscono discreta fama locale. In particolare, è con Behind the White Tower che viene premiato ai Baeksang e si ritaglia un posto nello stardom coreano. Nel 2007 esce Coffee Prince, amatissima serie che con Lee ha lanciato anche Gong Yoo.
In quel periodo Lee Sun-kyun inizia la collaborazione con il regista Hong Sang-soo, per il quale calpesta i tappeti rossi dei prestigiosi festival europei: con Oki’s movie è a Venezia nel 2010, mentre Nobody’s daughter Haewon lo porta a Berlino nel 2013. L’anno dopo viene invitato a Cannes con il thriller d’azione A Hard Day di Kim Seong-hun.
Ma sono gli anni seguenti a garantirgli la conferma: nel 2018 esce My Mister (Naui Ajussi), dove al fianco di IU racconta di un legame nato per caso tra un uomo di mezza età e una giovane ventenne, e di come questo rapporto aiuti i protagonisti a riscattare la propria felicità navigando le sfide quotidiane.
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A questo seguirà il trionfo di Parasite, che Lee segue passo passo in compagnia del regista Bong Joon-ho. Allo straordinario successo del film, segue la serie AppleTv+ Dr.Brain in cui Lee è il protagonista di un esperimento cerebrale che oscilla tra il sogno e la realtà.
Di recente era tornato a Cannes con i due film Sleep e Project: Silence.
La caduta
Da mesi Lee Sun-kyun era al centro di un ciclone mediatico. Era accusato di aver fatto uso di marijuana e ketamina. Una denuncia partita da una hostess di un bar di Gangnam, la quale aveva perseguitato e ricattato l’attore da tempo. Le indagini erano in corso, ma ancora in stadio iniziale; ciononostante la notizia era trapelata, e la rabbia, l’indignazione e talvolta la cattiveria gratuita dei fan e dei media si erano scagliati sull’attore.
È complesso e insufficiente raccontare la situazione delle celebrità in un Paese così articolato come la Corea del Sud. Il successo si paga davvero ad un prezzo altissimo.
Mentre la famiglia ne piange la scomparsa, in pochi tra i colleghi si sono espressi a sostegno. C’è sicuramente una forte condanna all’uso delle droghe in Corea, ma è più probabile che tacere qualunque commento sia un modo per tutelarsi e non affogare in uno shit storm senza precedenti. La comprensione, l’empatia, è una forma di supporto. Quindi il silenzio è l’unica alternativa per non essere travolti nel medesimo scandalo.
Lo star system coreano
Il divismo è già un fenomeno complesso, ma ancora di più lo è in Corea del Sud, dove la società vanta una struttura economica futuristica, mentre l’impianto sociale e le relazioni affondano nell’arcaico, in un clima quasi medioevale. In parte, la ragione si trova nella presenza ancora molto forte all’interno del tessuto sociale e interpersonale, delle regole non scritte del Confucianesimo. In parte, in un clima del terrore pari a quello degli anni del proibizionismo o della Guerra Fredda, quando si parla di stupefacenti.
Il divismo della Corea del Ventunesimo secolo è un misto di eccellenza professionale e monachesimo personale, ossia condotta immacolata in qualunque situazione, che anche le parole possono portare alla rovina. Regole non scritte costringono il volto pubblico di un professionista ad aderire maniacalmente al privato, che deve rigorosamente essere nobile. Dalla nostra prospettiva, abbiamo qualcosa da invidiare a questa garanzia di rettitudine: questi modelli offerti dallo show biz devono essere bravi buoni e belli. Kalos kai agathos.
Ma se uno si sbaglia, con chi ce la dobbiamo prendere? La star che non è stata all’altezza, il sistema utopico che non tollera gli sbandamenti, o lo spettatore che dal suo idol pretende la perfezione per sfuggire alla propria imperfezione?
Il punto di vista
Il prezzo della fama è l’impeccabilità, ok. E su questo punto, quale sia il proprio pensiero, non c’è nulla da giudicare: è la peculiarità di questa cultura che risuona in qualunque altro aspetto. Le performance massime richieste, la bellezza a cui anche la massa deve aspirare, il lusso sempre ostentato, il lavoro sempre e comunque, anche sopra la famiglia. E un concetto di vita privata e di privacy completamente diverso da quello a cui le culture occidentali sono abituate: l’asfissiante presenza di CCTV, la disposizione al sacrificio, lo spirito di adattamento che riduce lo spazio dell’individualità e della libertà personale a un involucro sottile sottile e ben poco protettivo.
Sforzandosi di immaginare un tale perfezionismo ossessivo, e la sottomissione all’eccellenza, allora si può intravedere un disegno dietro alla condanna pubblica di Lee Sun-kyun. Tuttavia, umanamente, perché non ci si concede un po’ di tolleranza… In fondo, non è questo che tutti i micromondi seriali coreani raccontano?
Per chi ha guardato il K-drama che ha reso più famoso Lee Sun-kyun a livello internazionale, My Mister, sembrerà quasi malata ironia della sorte questa morte così ingiusta: in quei 16 episodi c’era un inno alle seconde possibilità. Ma, come sempre, la narrazione è una cosa, la realtà è ben lontana dall’utopia di questi paradisi della socialità equilibrata.
Il viale del tramonto
Eccola quindi, la strega contro cui scagliarsi: malgrado l’attore si fosse più volte prestato a test anti droga che confermavano la sua innocenza; malgrado si sia sottoposto alla macchina della verità; malgrado le scuse pubbliche in conferenza stampa; malgrado le forze dell’ordine lo avessero stremato con un interrogatorio fiume; malgrado fosse oggetto di ricatto. Malgrado quante volte si possa scrivere malgrado, nulla ha attenuato la raffica di indiscriminata e irrispettosa copertura mediatica a cui è stato sottoposto. E che gli è esplosa tra le mani senza controllo. Perché questa non è la sceneggiatura di un film, ma la ferocia della realtà.
Non è detto che ritirarsi dalle scene sia davvero la soluzione. Non è detto che sparire dalla circolazione risparmi alla famiglia la sfregio pubblico o condoni le colpe. L’onta è un tema delicato in una società consolidata sulla pratica confuciana, e quel che seguirà non è detto venga raccontato, adesso che i riflettori sono già in cerca di nuove storie.
Sebbene gli strumenti siano diversi e sia necessaria una ampia dose di empatia, è difficile astenersi dal chiedersi se fosse davvero necessaria la lapidazione di Lee Sun-kyun per una canna.
A questo punto che importa chi materialmente abbia acceso il carbone dentro quell’abitacolo. Sarà stata la mano di Lee o quella di un altro. In entrambi i casi è un sistema che ha fallito nel proteggere se stesso e i propri successi, i figli della propria celebrità.
Sotto questo punto di vista, l’autoritarismo sotterraneo della liberata Corea del Sud non sembra più democratico delle vicine dittature. Solo più edulcorato.