Mi capita spesso di osservare i primi lavori di giovani registi e sceneggiatori e mi appare sempre più evidente la presenza di un filo conduttore tra queste opere. Chiunque abbia dimestichezza con il giovane cinema anche negli ambiti che vengono definiti indipendenti noterà una preponderante presenza di cortometraggi comici oppure horror e puntate pilota per serial tv. E’ noto che la commedia è più abbordabile per chi deve ancora formare un proprio stile narrativo o non è dotato di una robusta produzione alle spalle tuttavia il suo predominio testimonia piuttosto una netta presa di distanze dai registri drammatici e realistici, come potrà confermare il confronto diretto con gli autori che generalmente non necessitano di questi strumenti in quanto non interessati ad approcciare tematiche politiche e sociali. Questa impostazione testimonia i sentimenti prevalenti della generazione di appartenenza. E’ la conferma di una incapacità di contestare e riformare il sistema sociale in cui si è immersi ed è, anzi, il tentativo di partecipare al sistema (che li ha esclusi dalla redistribuzione delle risorse) assecondandolo, divertendolo, dandogli in pasto qualunque genere di alimento richieda, per quanto vacuo ed insignificante.
L’ambizione di giovani autori “indipendenti” di diventare velocemente main stream indica una modalità di rappresentazione esclusivamente individuale, una volontà di “emersione” che esclude totalmente la possibilità di partecipare ad un’elaborazione collettiva di contenuti politici che esprimano idee di cambiamento della propria generazione. Gli elementi a sostegno di questa mia impietosa tesi non mancano. Si pensi agli autori che si sono incaricati di descrivere e denunciare le condizioni in cui versa questa generazione condannata al precariato, che per farlo hanno spesso scelto toni da commedia che non sono stati in grado di provocare vera indignazione, rischiando, al contrario, di creare assuefazione (in ambito commerciale si pensi ai film di Virzì o ai vari Immaturi). Questa tendenza è tanto più grave quanto più si rileva non solo nel cinema main stream ma anche in quello “indipendente” che spesso di indipendente finisce per avere solo la mancanza di mezzi economici e non certo l’autonomia di pensiero. E’ certamente deprimente partecipare a festival di cortometraggi e osservare lunghe sequele di film (a volte anche tecnicamente curati) che esprimono vuoto politico, sterile culto della bella forma, vacua aspirazione a divertire il pubblico. Si arriva al punto di dover considerare autori di contenuto quelli che riescono quantomeno ad affrontare i temi legati ai sentimenti.
Negli ultimi decenni l’Italia aveva sempre espresso autori in grado di dare una lettura della propria generazione, che fosse in grado anche di immaginare un cambiamento e creare un’antitesi rispetto alle generazioni precedenti. Il cinema underground aveva raccontato delle utopie generate dal ’68, negli anni ’70 si è rappresentata la contestazione e i primi segni della sconfitta e agli anni ’80 era rimasto di raccontare il mito della fuga. A partire dagli anni ’90, invece, comincia il declino della capacità interpretativa della realtà da parte dei giovani cineasti, che ci porta alla conclamata crisi attuale. E l’ausilio delle tecnologie digitali, che ha moltiplicato il numero di produzioni non è servito a fare emergere significative tendenze in grado di opporsi alla prevalente omologazione culturale e politica.
Mi si perdoni questa mia accusa, così severa verso chi è vittima delle congiunture economiche e delle scelte politiche che privano delle speranze e del futuro ma non credo vi sia salvezza senza un scatto di orgoglio e di rabbia che proietti questa generazione contro le inique e incongrue decisioni del potere e la spinga a prendere la parola per fare scelte di radicale cambiamento.