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Conversation

‘Una sterminata domenica’ conversazione con Alain Parroni

Rivelazione dello scorso edizione del Festival di Venezia Una sterminata domenica racconta la gioventù facendo sue le suggestioni dei film che lo hanno preceduto. Del film abbiamo parlato con Alain Parroni

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Selezionato nella rassegna cinematografica “Nuova Onda ArtHouse“, Una sterminata domenica di Alain Parroni racconta il flusso di coscienza di una giovinezza in “cerca d’autore”. Del film abbiamo parlato con il regista del film.

Selezionato nella sezione “Orizzonti” dell’80 Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Una sterminata domenica, opera prima di Alain Parroni è distribuita da Fandango.

Una sterminata domenica di Alain Parroni

Partendo dallo schermo completamente buio e con le sole parole di Alex, l’apertura di Una sterminata domenica mi ha ricordato lo stratagemma formale di Viale del tramonto, con il protagonista che ricostruisce i fatti che lo hanno portato a formulare i pensieri che sentiamo all’inizio del film.

Qualcosa di quei film c’è sicuramente. Quando ho iniziato a pensare a Una Sterminata Domenica, subito dopo aver finito le scuole di cinema, parliamo del 2017, in Italia tramite le piattaforme producevano tantissimi esordi caratterizzati però da narrazioni canoniche, privi di sguardi personali, da cui mi sono sentito subito di dover prendere una distanza, trasmettendo invece uno sguardo capace di lasciare una traccia, una traccia di quello che siamo e di cosa ci ha portato a essere così.

L’impostazione della prima parte del film punta chiaramente a portare lo spettatore all’interno della narrazione, come faceva appunto in maniera clamorosa il classico di Billy Wilder, ma per poi, in un secondo momento, abbandonare ogni schema o codice. I film ci hanno insegnato a percepire il mondo esterno, e i film degli ultimi trent’anni sono solo il residuo di una educazione alla percezione imposta a loro volta da autori già educati a percepire la realtà attraverso i film. Insomma è un cane che si morde la coda. Riflettere sul mezzo e sulla tecnica, sulla percezione e l’esperienza, è un’usanza che le piattaforme e il cinema commerciale ci ha fatto perdere, portando anche grandi autori a realizzare film decodificati e che hanno come obbiettivo il raggiungimento del più vasto pubblico possibile. Credo che questo sia un ragionamento da spot pubblicitario o da film porno.

Io volevo fare un film per il Cinema, usando l’esperienza della sala per restituire la mia personale percezione della mia adolescenza, con la sua mancanza di punti di riferimento, con la sua aggressività incontrollata. Da qui la scelta di una struttura narrativa fuori dai canoni dominanti.

Diversi piani temporali

Il fatto di iniziare il film con quello che scopriremo essere l’epilogo della storia ti permette di formulare un racconto che trova la sua coerenza nella struttura del flusso di coscienza. Il fatto di raccontare avvenimenti accaduti in precedenza ti ha permesso di mescolare in maniera congruente i diversi piani spazio temporali, con la linearità narrativa che discende non tanto dal classico meccanismo di causa effetto, ma da un collegamento di tipo emotivo.

Esatto. Quando cerchi di realizzare il primo film la cosa più traumatica è quella di resistere al desiderio dei produttori di avere un tipo di narrativa in cui è tutto spiegato mentre per me la domenica del titolo doveva essere uno spazio emotivo e non un semplice giorno della settimana; doveva essere simile a qualcosa che si attorciglia su se stessa. La scrittura di Una sterminata domenica nasce da alcune interviste fatte dal 2017 a ragazzi tra i 14, 18 e 20 anni. Ogni due anni tornavo ad ascoltarli accorgendomi come si fossero impantanati all’interno di un loop emotivo. La ragazza che interpreta Brenda faceva parte di loro e sulla scia di quella sensazione abbiamo cercato di costruire una narrazione che poggiasse soprattutto sul sentimento e sulle reazioni emotive.

L’unica cosa che emergeva chiara dopo le interviste era l’esigenza di lasciare una traccia: tutti volevano farlo senza però averne gli strumenti. Spesso in provincia questo desiderio si esaurisce nel fare i figli in giovane età, come hanno fatto i miei genitori con me, o nell’avere atteggiamenti violenti e vandalici per attirare l’attenzione su di sé. La stessa cosa succede ai miei protagonisti che, nel frattempo, per attirare l’attenzione su di loro reagiscono in maniera aggressiva e talvolta violenta. Io stesso quando ero adolescente mi sono sentito così e il cinema è diventato il modo di lasciare traccia di me.

Oltre a quanto appena detto mi pare che l’andirivieni spazio temporale, e con esso il fatto di rimettere ogni volta in discussione le conquiste della scena precedente, e dunque di farci vedere i ragazzi in una condizione che smentisce quella della sequenza precedente, sia anche una soluzione formale per rappresentare quella società “liquida” in cui sembra impossibile mantenere una posizione rispetto alla realtà del mondo.

Quello che dici è esattamente uno dei punti di partenza del film. Il montaggio era pensato in quel senso, ma era anche legato al ritmo esistenziale dell’adolescenza, di per sé molto altalenante. Da qui la presenza di sequenze molto accelerate e di altre molto rallentate. Si tratta di un andamento in cui non c’è coerenza perché così è quello delle persone più giovani. La mia generazione più di altre è cresciuta guardando film, avendo la possibilità di accedervi con grande facilità. Grazie a internet a vent’anni avevo visto più film dei miei genitori e questo ha fatto sì che scoprissi il mondo quasi esclusivamente attraverso la settima arte. Quando uscivo mi ponevo verso la realtà come avevo visto farlo nei film e non come i genitori mi avevano insegnato. Da qui l’idea di giocare con il montaggio e con la costruzione dei personaggi come personaggi filmico-reali. In questo senso Alex, Kevin e Brenda diventano figli della società che li circonda, della generazione a cui appartengono e del cinema stesso.

Assenza di genitori nel film di Alain Parroni

L’esclusione dei genitori per motivi più o meno simili a quello che mi hai detto è stato uno dei must di tanto cinema indie a cominciare da quello di Gus Van Sant, in cui, anche quando presenti, non sono mai ripresi per intero risultando dei veri e propri corpi estranei.

Sì, e la stessa cosa succede anche nei film di animazione giapponesi da cui ho saccheggiato molto, ivi compreso il compositore delle musiche. Negli anime i protagonisti sono i ragazzi, e i genitori sono assenti. La stessa cosa succede in molto cinema indie e in certa televisione che mi ha formato. Non ho mai visto un genitore protagonista su MTV.

Poi però costruisci un film che ha anche un forte riferimento letterario perché se penso a Una sterminata domenica mi viene in mente l’Ulisse di James Joyce. È un riferimento alto con cui peraltro te la cavi molto bene.

Ti ringrazio per l’associazione, non ne nascondo l’imbarazzo, ma diciamo che quando ti cimenti in un’opera prima che ha una gestazione di cinque/sei anni devi tenere conto per forza di cose che cadrai in un flusso costante e quotidiano di suggestioni e di input che provengono da un tempo immediatamente precedente a quello in cui sei immerso in quel momento. Il vantaggio del film è di fare riferimento a una fase della mia vita ancora fresca e a cui per ovvi motivi potevo accedere senza alcuna difficoltà.

Una sterminata domenica di Alain Parroni: il suono

Il suono nel film non è solo un elemento reale perché fin da subito diventa un altro modo per restituire il tormento dell’anima dei protagonisti.

Assolutamente, è così. Alla base di tutto questo c’è la consapevolezza di appartenere a un paese che ha una grande tradizione cinematografica di cui bisogna tenere conto. Voglio dire che, vivendo nella patria del neorealismo, se un come me gira nella campagna romana sa già che il metro di paragone sarà quella cinematografia. Da qui la necessità di utilizzare una forma cinematografica più contemporanea e dunque di utilizzare il suono nella maniera che hai detto e che mi è stato ispirato dal cinema di animazione. Anche l’uso del montaggio viene da lì. In esso capita che per non impazzire durante un dialogo invece di disegnare tutto l’ambiente inquadri un bicchiere lasciando che da questo si evinca il mondo che gli sta attorno.

Per Una sterminata domenica avevo già in mente come utilizzare i suoni e come farlo in una città come Roma che ti mette sempre alla prova trasmettendoti una sorta di ansia da prestazione, soprattutto ai più giovani che come abbiamo detto hanno necessità di emergere e di farsi notare.

Abbiamo detto come Una sterminata domenica racconti una società liquida in cui le situazioni si modificano prima che i protagonisti riescano a consolidare la loro volontà e il loro modo di agire. Adesso aggiungo che a un certo livello il film è anche la rappresentazione di un paradiso perduto e di quella perdita dell’innocenza che è un altro tema caro al cinema indie.

Esatto. Però ti dico che durante le tante proiezioni del film mi sono accorto di quanto la percezione degli adolescenti sia diversa da quella degli adulti. I primi la vedono come una storia piena di speranza e di energia, con protagonisti percepiti come degli eroi contemporanei. L’adolescente empatizza con loro in maniera naturale e crea la sua avventura mentre l’adulto li vede come figli in un flusso autodistruttivo. La visione del film ha creato spesso dibattiti anche molto accesi, dividendo gli spettatori. Gli adolescenti sono più liberi nel pensiero e nella percezione di schemi differenti, alcuni adulti invece sono oramai troppo formati per abbandonare i codici della percezione. Ovviamente ne sono molto contento perché il cinema deve creare contrasto e riflessione, sennò resta solo un racconto di distrazione, per far scorrere il tempo diversamente.

Metafore e contrasti

Il film si apre su una serie di scene che risultano metaforiche rispetto alla condizione esistenziale dei protagonisti e al loro essere in bilico tra disimpegno e responsabilità. La leggerezza e il divertimento delle immagini girate sulla ruota del luna park e a bordo della macchina lanciata a tutta velocità fanno il paio con quelle dei ragazzi fermi sul ciglio della strada nel tentativo di sostituire la ruota fuori uso. Per tutto il film la libertà insita nelle accelerazioni ipercinetiche va di pari passo con stasi improvvise che inchiodano i ragazzi alle loro responsabilità.

Presentando il film dico sempre che è un road movie in cui si buca una ruota nella prima scena, cerco di porre lo spettatore già difronte al loop emotivo che andrà a vivere. La curiosità è che quella prima scena è forse la più realistica, essendo accaduta davvero. Dopo la scena del luna park gli attori sono saliti in macchina e per fare gli sbruffoni hanno per davvero bucato la ruota dell’auto. Stavamo girando da tre settimane per cui ho detto loro di fami vedere come sapevano cavarsela in quella situazione. È così che ho scoperto che in realtà non erano in grado di farlo. Vederli in quella situazione mi ha trasmesso tenerezza, ma anche quel senso di responsabilità di cui si diceva.

Dicevamo prima di come il film risenta, a livello visivo, delle suggestione derivate dalla tua formazione cinematografica. Tra queste trovano posto anche quelle provenienti dalla nouvelle vague francese con i protagonisti ripresi mentre vanno a “zonzo” per la città.

Sì, è così. Mentre giravo, ma anche in fase di montaggio, sentivo una sorta di responsabilità verso quello che è stato fatto prima e rispetto ai tanti percorsi che ho iniziato e poi interrotto dall’arrivo di nuove istanze. Penso a certi paesaggi della New Hollywood a cui poi è subentrata l’estetica e alle strutture della televisione commerciale che ha cercato di portare un codice univoco su tutto. Sentivo quindi una responsabilità verso quelli che ci sono stati prima e ho cercato di trasmetterlo in un film che fosse contemporaneo ma allo stesso tempo sembrasse di dieci anni fa o addirittura del futuro. In Una sterminata domenica i cellulari sono dispositivi che emettono luce, ma di cui non vedi mai le grafiche perché questo ci riporterebbe ai tempi di oggi. Ho cercato di fare un film che fosse contemporaneo, ma altrettanto classico.

La musica nel film di Alain Parroni

La musica è una componente importante del film e nelle sue diverse declinazioni commenta il cambiamento di stato d’animo dei personaggi. Da quella iniziale, solenne ed evocativa delle aspettative dei ragazzi a quella elettronica, corrispondente ai momenti di vacanza e di sballo, e addirittura romantica e sentimentale quando si tratta di sottolineare i momenti più intimi delle relazione tra i ragazzi.

Pensa che inizialmente non era previsto alcun budget per il compositore, convinto com’ero di utilizzare solo musica di repertorio. Poi però in fase di montaggio abbiamo ragionato molto su come siamo arrivati a girare certe scene e da lì abbiamo riconosciuto che alcune di queste erano il frutto della mia visione degli anime giapponesi. Per questo quando siamo andati alla Rai per far vedere il film abbiamo utilizzato musiche scaricate dalle colonne sonore realizzate da Shiro Sagisu. Sulle prime, quella che era stata una scelta pratica è poi diventata una necessità nel momento in cui ci siamo accorti di come quelle sonorità si sposassero alla perfezione con il modo in cui è stato girato il film.

Per fortuna Wim Wendersche, che è co produttore del lungometraggio, stava girando proprio in quei giorni Perfect Days, per cui, tramite la sua produttrice, siamo riusciti a contattare Shiro che, dopo 24 ore, è venuto a Roma e ha voluto vedere il film. Con lui abbiamo impostato il lavoro con l’intenzione di creare un dialogo tra noi e il nostro ispiratore, un po’ come ci può essere tra un padre e un figlio che dopo reciproca assenza cercano di creare le basi per il loro rapporto. Abbiamo iniziato a giocare con sonorità differenti a cominciare dalla prima che, come dici tu, è solenne e che è una variazione proveniente da uno dei film di animazione di Shiro che a me piaceva molto. Con le altre abbiamo cercato di costruire una colonna sonora che rispecchiasse i suoni delle nostre rispettive adolescenze. Non volevamo che fosse la musica che sentono i ragazzi di oggi come voleva qualche produttore ma piuttosto qualcosa che potesse toccare anche chi adolescente lo è stato molti anni fa.

Shiro su questo è stato veramente bravo perché ci ha permesso anche di accedere al suo archivio musicale, dandoci la facoltà di tagliare, di cucire, di prendere un ritmo che ci era particolarmente piaciuto. Gli abbiamo presentato il risultato della nostra ricerca e in base al montaggio e alle immagini lui è andato a costruirgli il suono.

Lo stile

Parlando dello stile del film, Una sterminata domenica utilizza i codici del documentario come può esserlo l’utilizzo di attori sociali, della luce naturale e di location reali per poi scolpirne la forma in fase di post produzione.

Innanzitutto ti ringrazio perché si vede che hai visto il film con un’attenzione che mi capita di rado trovare nei miei interlocutori. Come ti dicevo l’idea era quella di fare un film neorealista, ma allo stesso tempo nouvelle vague e ancora alla maniera di Neon Genesis Evangelion, ovvero dell’anime di cui Shiro ha composto le musiche.

Una sterminata domenica è stato girato con camere digitali però con lenti super 16 e Alessio Zanardi, colorist con un passato da restauratore per la cineteca di Bologna, ha applicato al film le regole di quel lavoro, quindi è andato a fare quello che fanno oggi con i film di Fellini e di Pasolini, ovvero dare al fotogramma una sorta di movimento che deriva dal conferire una grana e una sporcatura più corretta.

Poi è vero che ho preso attori che vengono dalla strada, ma nel filmarli non li ho seguiti con la macchina a spalla come si fa nel cinema del reale, ma ho cercato di creare un linguaggio corrispondente a quello che ha cresciuto la loro generazione, quindi anche frammentario, con uno stile da fumetto, e cioè capace di passare dal totale al dettaglio minimo con una costruzione narrativa che includesse tutto ciò che mi ha educato; dalla graphic novel al cinema neorealista, al documentario.

Uno stile che include riprese immersive alla maniera in cui lo è il cinema di Malik e la fotografia di Emmanuel Lubezki.

Quello che volevo fare era cercare di narrare con le immagini e non con la sceneggiatura, quindi era importante che in scrittura ci fossero questo tipo di decisioni. Quando portavo lo script alla Fandango ad accompagnarne il testo c’erano altrettante pagine dedicate a immagini e fotogrammi, con disegni, storyboard e bozzetti necessari a capire che ogni scena aveva la sua identità, e un suo piccolo flusso interiore che andava raccontato ogni volta con un linguaggio diverso.

Durante i vari corsi di regia la difficoltà è stata quella di trovare docenti che mi dicevano qual era il cinema giusto da fare in base alle loro preferenze. Così poteva capitare di trovare un professore che amava Malik e tendeva a far utilizzare ai ragazzi la luce naturale e la luce in macchina. Per contro ho sempre pensato che ogni cosa avesse la sua identità e dunque che ci fosse ogni volta un diverso modo di girare, a seconda del sentimento della scena in questione.

Tempo e luogo nel film di Alain Parroni

Per quanto detto fin qui il tempo diventa una sorta di oceano dentro al quale i personaggi si ritrovano a nuotare.

Prima di diventare regista campavo come fotografo di scena e quindi sono stato sui set di Matteo Garrone, dei fratelli D’Innocenzo, di Susanna Nicchiarelli e lì ho potuto verificare con mano come le fotografie avessero la prerogativa di parlare sempre di un tempo passato e di come il cinema fosse invece immerso in un eterno presente che scorreva davanti ai nostri occhi quindi ho capito di come e quanto quest’ultimo fosse protagonista dell’età adolescenziale.

La campagna in antagonismo con la città è ritratta come una sorta di nuova frontiera che in quanto tale esprime al meglio i dubbi e le incertezze dei protagonisti alle prese con una situazione per loro nuova come quella della nascita di un figlio. Peraltro per orizzonti e profondità di campo sembra una campagna da cinema western.

Gli ambienti in cui ho girato sono gli stessi in cui sono cresciuto. Rispetto all’immagine western della campagna pensa che ho girato in quella che ospita la tomba di Sergio Leone ed è chiaro che quel tipo di paesaggio si presta a essere visto in quel modo.

Il montaggio

Torno sul montaggio per condividere con te l’impressione che la sua forma sia sempre più frammentata mano a mano che la relazione tra i tre protagonisti diventa meno chiara.

Sì, non abbiamo fatto altro che esasperare quello schema di montaggio di cui avevi parlato all’inizio della conversazione. A quella matrice siamo ritornati ogni volta aggiungendo e manipolando l’interazione tra le diverse immagini. Tra i produttori per fortuna c’era un mio coetaneo che ha capito le esigenze di post produzione (cosa che non si tende a fare quando si hanno solo cinque settimane di mix e montaggio), mentre nel caso di Una sterminata domenica abbiamo avuto il tempo di riflettere per rilavorare il girato nella maniera che hai detto tu.

Alain Parroni oltre Una sterminata domenica

Parliamo dei film che preferisce Alain Parroni.

Come ti ho già detto sono cresciuto con influenze diverse che vanno da Tarkowski ai film della Marvel. Diciamo la cosa che mi ha più impressionato però è stata la new wave giapponese degli anni duemila. Ci sono registi come Toyoda autore di un film come Blue Spring e altri come Iwai, che mi hanno fatto capire come la narrazione fosse legata al mezzo e non il contrario. Essendo i giapponesi anche produttori delle videocamere digitali sono stati fin da subito grandi esploratori narrativi. Per il resto sono stato e rimango un onnivoro cinematografico alla ricerca della mia primordiale visione delle cose.

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Una sterminata domenica di Alain Parroni

  • Anno: 2023
  • Durata: 111'
  • Distribuzione: Fandango
  • Genere: drammatico
  • Nazionalita: Italia, Irlanda, Germania
  • Regia: Alain Parroni
  • Data di uscita: 14-September-2023