SPAGHETTI WESTERN – L’ALBA E IL PRIMO SPLENDORE DEL GENERE
Di Matteo Mancini
Edizioni Il Foglio
p.414
C’è stato un tempo in cui l’Italia faceva la voce grossa nel mondo del Cinema. L’eco di quel periodo è rimasta indelebile nella storia del cinema, ancora oggi. Scorsese, Tarantino, Refn, tre generazioni diverse e solo degli esempi di un’immensita di nomi influenzati da quello che è stato il cinema più bello di tutti i tempi. E in quel cinema quello che è rimasto più nell’immaginario comune è il western. Basti pensare che tra i 10 film più belli di tutti i tempi compaiono ai primi posti i film della trilogia del dollaro, su tutti i film di tutti i registi di tutte le cinematografie della storia. Oggi che il western è morto come genere se non in sporadici casi in cui la presenza crepuscolare e passionale dello spaghetti western è onnipresente (forse l’unico che non ha elementi del genere è Appaloosa di Ed Harris) e ma vive nel dna di tantissimo grande cinema moderno, anche senza il cappello, i cavalli e le pistole. A differenza di altri generi, come l’horror e la fantascienza, che possono essere facilmente contaminati e trasformati in altro, il western non si contamina ma contamina esso stesso, prepotentemente, denominando una struttura, uno stato, un’apica. Al di là dei grandi Sergio (Leone, Corbucci e Sollima) lo spaghetti westen ha visto le più disparate manifestazioni e stili nella sua storia. Ci sarebbe da parlarne per pagine e pagine, infatti Il Foglio Letterario pubblica il primo libro di una trilogia, opera di Matteo Mancini, che toccherà la grande storia dello spaghetti western. Il primo decennio, i sessanta, è forse quello fondamentale per capire come, dalla genitura di Robert Aldrich, con quel Vera Cruz che sarà il padre di tutti i western, si arriverà al nuovo genere puro. L’autore fa un lavoro di archeologia, lavora di cesello, e esamina le radici reali, dagli show di Billy The Kid ai fumetti, fino ai primi film pre-leoniani. Un viaggio appassionato e appassionate.
Gianluigi Perrone