Dopo Army of the Dead Zack Snyder torna su Netflix con Rebel Moon – Parte 1: Figlia del fuoco. Il primo capitolo di una nuova saga sci-fi che è prima di tutto una sfida produttiva. Un modo diverso e fortemente “autoriale” di intendere il blockbuster che contiene già in sé tutti i pregi e, soprattutto, i difetti del cinema muscolare del regista statunitense. Dalla grandiosità visiva fine a se stessa agli evidenti problemi di ritmo, dagli eroi bidimensionali a un gusto per l’epica tanto forte quanto immotivato.
‘Rebel Moon’: Trama
Dopo la morte del suo sovrano Mondo Madre è finito nel caos. Il potere è stato preso dal senatore Balisarius che domina col pugno di ferro le colonie e i mondi esterni, dove il malcontento è più forte. Proprio in uno di questi una guerriera in esilio, Kora (Sofia Boutella), cerca di condurre un’esistenza pacifica con i contadini del luogo. Almeno fino a quando l’esercito non viene a bussare alla porta pretendendo ogni risorsa disponibile. Kora, assieme all’amico Gunnar (Michiel Huisman), decide così di partire per mettere assieme una squadra di guerrieri pronti a fronteggiare, in nome della ribellione, il temibile ammiraglio Atticus Noble (Ed Skrein).
Smisurata ambizione
Ormai ne siamo consapevoli. Non esiste a Hollywood regista più incline all’hybris di Zack Snyder. Un autore così cocciutamente legato alla propria idea di cinema da rifiutare qualsiasi compromesso. Così fiducioso nella sua visione sempre e comunque fuori dagli schemi (e lontana da qualsiasi buonsenso, direbbe qualcuno) da andare contro ogni convenzione stilistica o logica consolidata. Fino a dare vita, spesso e volentieri, a veri e propri “mostri”, progetti dagli esiti spesso discutibili che dire ambiziosi è poco.
Galassie (non molto) lontane
Rebel Moon appartiene sicuramente a uno di questi casi. Anzi, forse rappresenta proprio il culmine di questo gigantismo produttivo, di questa esibizione sconsiderata di potenza. Non potrebbe essere altrimenti, d’altronde, per un film che guarda esplicitamente a Star Wars (prima dell’acquisizione di Lucasfilm da parte di Disney era nato come progetto ambientato proprio in quell’universo) e al suo approccio postmoderno reinventandolo (o pervertendolo) in perfetto stile Snyder.
Ecco allora tornare, accanto ai riferimenti classici (da Kurosawa a Dune, passando per John Carter e i fumetti di Moebius e Jodorowsky), nuovi immaginari eterogenei (quello videoludico di titoli come Halo, la sci-fi delle sorelle Wachoski e di Avatar), il tutto declinato attraverso lo stile oramai riconoscibilissimo del regista di 300 e Watchmen.
Uno stile debordante
Tra ralenti esasperati e onnipresenti, toni epici imperanti ed estetizzazioni insistite, va così in scena un’esibizione di forza sempre più sfacciatamente fine a se stessa. Un trionfo superficiale e compiaciuto dove lo spettacolo a volte soffoca sotto il peso di una grandiosità che spesso cozza con la banalità della storia e con i suoi personaggi estremamente bidimensionali. Scorrevolezza ed empatia latitano infatti in questo film così preso dalla sua sfida produttiva da dimenticare tutto quello che non è semplice superficie, immediato compiacimento per un’epicità totalmente gratuita.
Quando il coraggio non basta
Certo, a Rebel Moon resta il coraggio di aver saputo creare un mondo partendo (quasi) da zero, ignorando la moda imperante – e decisamente meno rischiosa – di sequel e reboot per gettarsi in un’impresa titanica e potenzialmente catastrofica. Eppure l’universo che Snyder dipinge non solo pare essere estremamente derivativo ma anche poco ispirato, bidimensionale come lo sono i personaggi che lo popolano. Un insieme di scene madri legate alla meglio tra di loro che – nonostante la CGI discreta e alcune sequenze d’azione godibili – non riesce a nascondere l’estrema esilità dell’intera operazione. Quella sensazione di trovarsi davanti a un semplice fondale dipinto. Magari pure affascinante e suggestivo, ma pur sempre un fondale.