C’è qualcosa di buono nell’ultimo film di Ridley Scott. La messa in scena sontuosa, amabilmente anacronistica e ultra citazionista potrebbe far storcere il naso agli appassionati (la sensazione del déjà vu, con riferimento all’iconografia, è forte), eppure le questioni trattate (il creazionismo di ritorno, innocente e romantico, contrapposto scientemente a uno smaliziato evoluzionismo darwiniano) meritano senz’altro attenzione
C’è qualcosa di buono in Prometheus, l’ultimo film di Ridley Scott. La messa in scena sontuosa, amabilmente anacronistica e ultra citazionista potrebbe far storcere il naso agli appassionati (la sensazione del déjà vu, con riferimento all’iconografia, è forte) della saga infinita di quell’Alien tanto decantato dal famoso filoso contemporaneo Slavoj Žižek. La spaventosa creatura, secondo il pensatore sloveno, incarnerebbe l’orribile palpitazione della “lamella”, della pulsione non–soggettiva (“acefala”), “non morta”, che persiste oltre la morte ordinaria. Il contrasto basilare tra Vita e Morte sarebbe integrato dalla macchina simbolica parassitaria (il linguaggio come entità inumana che si comporta come se vivesse di vita propria) e il suo contrappunto, il “morto vivente” (la sostanza vitale/mostruosa che persiste nel Reale fuori dal Simbolico).
Un prequel
In questo prequel, però, l’oggetto d’indagine muta: si vuole retrocedere fino alla causa motrice (conoscere chi ci ha generato e perché), ma nel gioco al rimpiattino tra creatore e creatura ci si accorge presto della serie infinita che un movimento del genere innesca (causa causae, causa causae causae, etc.); ed è proprio questo creazionismo di ritorno, innocente e romantico, ad esser scientemente contrapposto a uno smaliziato evoluzionismo darwiniano, che da tempo predica l’inutilità e l’impossibilità di una ricerca siffatta.
Il rapporto tra (un presunto) autentico (Noomi Rapace/Elizabeth Shaw che, avendo constatato la situazione mortifera del pianeta esplorato, decide, dopo aver recuperato il suo prezioso ciondolo con crocifisso, di proseguire ad oltranza la ricerca) e inautentico (la nascita della creatura) ripropone una retorica dialettica che non tiene alcun conto della logica dell’immanenza, in cui le differenze, seppur fatte salve, si sciolgono in una indiscernibilità che fa svanire il segno che le marca.
La verità in Prometheus
Insomma, la verità (l’unico valore che vale la pena perseguire) non si dà solo sul piano del sapere. Ma anche, e soprattutto, su un versante etico in cui ciascuno è convocato a emettere un giudizio che, seppur individuale, ha pretese di universalità (il giudizio riflettente kantiano). In barba a tutti i relativismi post – moderni (multiculturalismi vari e quant’altro). In quest’ottica, appare ingenuo esibire una contrapposizione delle forme (tra l’altro così netta), laddove, invece, la verità, nella sua eccedenza, s’incarna in un’unica immagine che, in virtù di un processo etico avvenuto sul versante della fruizione, cambia di segno e muta, pur mantenendo le stesse fattezze.
Con Prometheussi invita lo spettatore, senza lasciargli in realtà alcun margine d’azione, a compiere una scelta (scelta fasulla, è chiaro: è come se si domandasse qualcosa a qualcuno a patto che dia la risposta giusta); l’indecidibiltà (sul piano del sapere) costituisce, di contro, l’unica condizione che fornisca valore a un atto, aprendo uno spazio all’eticità del soggetto.
I rapporti tra i personaggi
Più interessante appare il rapporto tra l’androide (Michael Fassbender) e gli altri membri dell’equipaggio, nella misura in cui si viola una prescrizione fondamentale: “in teologia si danno solo domande e non risposte” (o, se preferite, “non si può parlare di Dio con Dio”).
Se Terrence Malick, in Tree of life, interrogava Dio (“Cosa siamo noi per te?”) in un delicato monologo interiore, qui la faccenda si fa più spinosa: la creatura ha accesso diretto al creatore, il quale, impietosamente, le ricorda tutti i limiti della sua esistenza, ovvero l’assenza d’anima e, quindi, di libertà. Il robot in questione, però a rigore, non è completamente alla mercé di chi lo ha generato. Bensì allo scopo per cui è stato costruito, cioè servire meticolosamente la ricerca scientifica. Anche a scapito di chi lo ha messo al mondo. E se fa qualcosa di ‘buono’ per gli altri è solo per ubbidire fino in fondo al dogmatismo della razionalità.
Ritorna, per l’appunto, il limite di cui si diceva. Al dogmatismo scientifico si risponde con quello religioso, che, in questo caso, del primo fa propria la caratteristica principale: la ricerca continua intesa come accettazione dello scarto costitutivo che sempre ci separa dall’oggetto perseguito; ciò che di primo acchito appare un ostacolo insormontabile si rivela, in ultima analisi, motore propulsivo della ricerca; insomma la cosiddetta causa/ostacolo del desiderio).
E questo miscuglio, chiaramente, non risolve alcunché. Si, perché l’eccesso è adesso: non si smette di produrre l’evento e – è decisivo sottolinearlo – non si smette di assistervi.