La camera delle bestemmie, tempaccio da cani e primi freddi.
Colonna sonora: il camino che scoppietta e il Thannhäuser di R. Wagner.
Seguendo il ciclo delle stagioni, anche io comincio a lavorare in ritardo sul mio tradizionale reportage del Fantafestival. D’altronde anche i miei ritardi sono una tradizione e comunque poca cosa, qualche settimana al massimo. Un peccato veniale paragonato a questo autunno che si è fatto attendere per almeno due mesi prima di mostrare i suoi primi colori.
Accidenti! Mi fermo e rileggo ciò che ho scritto!
Urca, che vena poetica!
Mi domando: sarà l’uggioso languore autunnale dei monti sabini ad ispirarmi, oppure il fatto che è questa XLIII edizione ad essere realmente ispirata e, per proprietà transitiva, ispirante?
Per chi, come me, segue il Fantafestival da che ha l’età legale per farlo (ere geologiche fa…) ed è disposto a tenere chiuso il negozio per 4 giorni pur di partecipare all’evento, la sorpresa è stata notevole.
Ancora vive nella memoria il ricordo dei cosiddetti “anni del declino”. Una brutta decade in cui tra scarsità di fondi, direzione incerta e cattiva comunicazione il festival raggiunse il suo punto più basso, rischiando di morire tra i proverbiali rantoli.
Solo la passione di uno staff che, in buona sostanza, accettò di lavorare “pro bono” e la testardaggine di sparuti drappelli di irriducibili, disposti a sorbirsi vaccate epocali come Testigo intimo (che ancora cerco di dimenticare), è riuscita a tenere accesa quella fiammella ormai ridotta ad un lumicino, con la speranza che tempi migliori avrebbero potuto tornare a farla risplendere.
E a quanto pare tanta dedizione è stata premiata e alla fine il miracolo è successo.
Intendiamoci, siamo ben lontani dalle file di psicotici antisociali che arrivavano ad occupare le strade prospicienti alle sale cinematografiche come accadeva negli anni ‘80 e ‘90.
Ma quella era l’età dell’oro, un tempo mitico e per definizione irraggiungibile.
Oggi, in questa tetra età di mezzo, dominata dal dilagare di individualistiche piattaforme streaming che ci relegano nell’alienazione delle nostre case, per di più assuefatti al peggior modo di guardare un film sullo schermo di un computer, vedere la sala principale del cinema Aquila gremita per assistere alla visione collettiva dei grandi classici e delle novità fuori dal circuito mainstream è un risultato bellissimo di cui andare fieri.
Prima di entrare nello specifico è doveroso ricordare che questa edizione del Fantafestival è stata dedicata ad Adriano Pintaldi e Alberto Ravaioli, le due teste matte che quarantatré anni fa crearono il Fantafestival e che per un caso strano del destino sono scomparsi quest’anno a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro.
Pintaldi non lo conobbi mai di persona, con Ravaioli devo dire che non intrattenevo rapporti eccellenti. Era una personalità complessa, difficile e a tratti imperscrutabile. Aspetti caratteriali che in parte riconosco anche in me. Credo che il non andare d’accordo fosse il minimo sindacale e nonostante ciò ci siamo sempre mantenuti sulla linea del reciproco rispetto formale.
Dico questo perché non voglio accodarmi al drappelli di prefiche che, dopo aver fatto pubbliche lamentazioni e declamato coram populo le inarrivabili virtù del defunto, si lanciano poi in private invettive ciniche e anche un po’ vigliacche.
Umanamente erano molte le cose di Ravaioli che non mi piacevano e penso anche che qualche responsabilità (non tutte ovviamente) gli debba essere addebitata per lo spettacolare declino del festival.
Ma detto questo, aggiungo che oggi noi non staremmo qui a parlare del Fantafestival, senza la sua abilità, la sua passione e anche la sua spregiudicatezza.
Nonostante i limiti e le opinioni, la verità è che gli appassionati del genere e gli amanti del cinema debbano molto al duo Pintaldi e Ravaioli.
E fatto il doveroso coccodrillo, direi che come gli zombie della miglior tradizione romeriana, possiamo andare ad azzannare la “ciccia” di quest’edizione.
Il dubbio è da dove cominciare, visto che sia la sezione novità che quella retrospettiva erano piene di cosette appetitose.
Direi che, parlando delle novità, possiamo segnalare il vero evento.
Per la prima volta a mia memoria, da che mi occupo di cinema, mi sono trovato d’accordo con le decisioni di una giuria. Evento non da poco, visto che in genere ho sempre trovato criticabile il responso dei giurati persino le volte in cui il giurato ero io.
Quindi per la sezione cortometraggi troviamo premiato L‘isola dei resuscitati morti di Domenico Montixi.
Per prima cosa, riguardo al lavoro di Montixi, devo dire che adoro quando qualcuno mi costringe a cambiare idea. E l’idea che mi ero fatto del regista da alcuni suoi precedenti lavori era quella dell’ennesimo cineasta mediamente dotato che decide di abdicare ad ogni percorso di crescita e originalità buttandosi su una provinciale gamma di clichées esterofili.
In particolare non mi era andato giù il fatto che avesse girato in inglese un lavoro ispirato alla tipica tradizione del cinema di genere italiano.
E quest’anno Domenico mi schiaffeggia con una meravigliosa cazzatona zombesca, di quelle che adoro, interamente girata in italiano e non priva di inflessioni dialettali.
Il corto è un vero e proprio saccheggio della memoria che va da Zombie 3 passando per L‘inferno verde dei morti viventi.
I topos ci sono tutti! Le tettone (oddio… un paio di taglie in più a voler esser filologici avrebbe dovuto metterle), lo scienziato misantropo, la jungla, le baracche nella jungla, gli zombie fatti col pongo e i militari brutte copie dei marines americani (che che già di loro son brutti forte). Non manca nemmeno il nastro registrato con la voce dello scienziato pazzo che alterna deliri morali ed esperimenti di rianimazione.
Venti minuti di sangue ad ettolitri e ironia a secchiate, resi ancor più credibili e godibili dal fatto che Montixi ha girato in 16mm. O almeno così ha lavorato la fotografia. Mi riserverò di chiederglielo in un eventuale articolo monografico che potrei fare su di lui.
Ma le affinità con la giuria finiscono qui, per lasciare spazio alla consueta carrellata di divergenze.
A partire dal lungometraggio che ha vinto il festival, Viking di Stéphane Lafleur.
Diciamolo subito, il film non è affatto brutto in sé, solo che mi è sembrato molto fuori contesto e per certi versi scontato. Un incrocio tra l’esperienza marziana simulata di Capricorn One e gli psicodrammi minimali di bassa umanità tipici del Grande fratello.
Un film in cui l’elemento fantastico, preso molto alla lontana, è solo una scusa per raccontarci le storie intimistiche del gruppo di persone rinchiuse nel simulatore di un habitat marziano. Piccole storie di gente ordinaria, con le loro psicosi, le loro ipocondrie e i loro fallimenti. Praticamente ci troviamo davanti a Jules Verne, assassinato da Verga a colpi di accetta.
E di più non voglio aggiungere sul film, perché mi viene sonno, solo a ripensarci.
Già che ci sono quindi, continuo ad esplorare l’angolo della vergogna con l’altro film che mi preme stroncare, così mi tolgo il dente e non ci penso più.
Sto parlando di Huesera, produzione messicana/peruviana di Michelle Garza Cervera, anche questo un film fuori contesto, oltre che fuori tempo massimo.
Se lo avessi visto 15-20 anni fa, lo avrei trovato coraggioso, di denuncia e provocatorio, ma oggi è solo una stanca voce che si aggiunge ad un trito coro politicamente corretto. Anche qui infatti l’elemento soprannaturale o presunto tale è solo un pretesto per dire quanto gli uomini (o maschi) siano opprimenti, violenti, pericolosi e nella migliore delle ipotesi inutili e stupidi.
La protagonista del film, una neomamma, è tormentata infatti da uno spettro che poi si rivelerà essere solo la proiezione del suo subconscio che dopo averla perseguitata per giorni e averla quasi portata a compiere due infanticidi, la farà arrivare alla logica conclusione che per essere veramente felice nella vita, una donna non dovrebbe far altro che mollare il proprio bambino al compagno e scappare con la sua amante in una baracca sulle Ande a coltivare patate dolci.
Ora, senza voler dire che per arrivare a questa conclusione la tipa poteva tranquillamente chiedere il divorzio senza scomodare spettri o riti di santeria (ops… l’ho detto!), quello che mi chiedo è se serviva fare un film per spacciare come originale e provocatoria un’idea che, ahimè, da molti anni è funzionale al sistema.
Chi mi conosce sa che non c’è niente a cui sia più lontano della famiglia tradizionale, in più nella mia vita lavorativa sono stato molte volte sottoposto a superiori di sesso femminile senza che per me questo rappresentasse il benché minimo problema (anzi il datore di lavoro con cui mi sono trovato meglio era proprio una donna) e penso che col proprio corpo chiunque possa fare ciò che vuole. Ma vedere l’ennesima menata sul maschio cattivo, solo perché maschio, francamente mi ha annoiato.
Vogliamo fare qualcosa di nuovo? Raccontiamo storie di donne emancipate, dalle grandi capacità che riescono a realizzarsi nel lavoro e ad essere felici nella vita con compagni che ne riconoscano a pieno i meriti e le qualità.
Sono certo che sia possibile raccontare tali storie, anche senza ricorrere al fantastico.
Ok, finita la polemica sui film che meritavano la loro dose di asfalto, torniamo a parlare delle belle pellicole, come La niña de la comunión di Victor Garcia.
Un film che, rapportato ai mezzi a disposizione, molto si avvicina alla perfezione.
Una bellissima storia di fantasmi in salsa spagnola con la sempreverde presenza di bambini demoniaci, topos forse un po’ abusato ma che fa viaggiare sul sicuro chi vuole un paio d’ore di brividi senza cercare troppo sottintesi autoriali.
Intendiamoci, l’autorialità c’è nella tecnica, nella fotografia e negli attori perfettamente calibrati. Ma i contenuti sono volutamente semplici e appropriati a quella che vuole essere una favola oscura che non si pone altro obiettivo se non quello di regalarci qualche piccolo salto sulla sedia.
Se invece il nostro palato è in cerca di pipponi più sofisticati e di impegno allora dobbiamo buttarci nella sezione retrospettiva con Test pilota Pirxa, film polacco/sovietico del 1979 per la regia di Marek Piestrak.
A parte il fatto che per le mie note inclinazioni politiche sono più che soddisfatto nel vedere un film del 1979 attribuito all’URSS e non in maniera imbarazzante all’Ucraina, al Kazakistan o al Vattelapeskistan come successe l’anno scorso, ignorando che nel 1979 tutti questi posti (eccetto il Vattelapeskistan) erano parte di un unico paese chiamato Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche; a parte anche il fatto che sono ancora più che soddisfatto del non dovermi sorbire pellicole come Amulet in cui si glorifichino gruppi neonazisti come Pravij Sector, come è successo sempre l’anno scorso solo perché si sente il bisogno di portare solidarietà ad un governo ucraino che urla all’aggressione, senza però ricordarsi delle popolazioni del Donbass che sono state bombardate ininterrottamente da quello stesso governo negli otto anni precedenti; a parte tutto questo, quando mi avvicino ad un film sovietico, lo faccio sempre con un misto di nostalgia e di paura.
Sulla nostalgia, beh… non ve lo sto a spiegare, tanto il perché se non siete ottusi, o fans di Gramellini, lo avrete capito da soli.
Sulla paura, perché devo riconoscere che i sovietici in particolare, ma tutte le produzioni dell’Est in genere non conoscono le mezze misure. O sono dei capolavori inarrivabili che segnano indelebilmente la storia del cinema, oppure sono delle vaccate pazzesche, per di più talmente lente che lo spettatore rischia di morire di vecchiaia prima che il film finisca.
Per mia fortuna Test pilota Pirxa appartiene alla categoria capolavori.
La lentezza per carità, non manca mai, altrimenti non sarebbe un film sovietico, ma in questo caso è più che giustificata e sostenuta da riflessioni sui pericoli della tecnologia e dell’intelligenza artificiale che per l’epoca erano davvero profetiche.
Con sorpresa, non mancano qua e là momenti di azione e qualche piccolo colpo di scena.
Se dovessi calare il film entro categorie comparative basate su criteri occidentali potrei dire che è uno strano miscuglio tra il raffinato 2001 Odissea nello spazio di Kubrick e lo sgangherato Dark star di Carpenter. Un mix strano che potrebbe sembrare anche contro natura, ma almeno in questo caso devo dire che funziona.
Come dicevo, quest’anno la sezione retrospettiva è stata particolarmente curata, anzi talmente ben fatta che in almeno tre occasioni si è avuta la sala piena.
Persone che conosco come tiepidi amanti del cinema non hanno voluto perdersi l’occasione di poter guardare su grande schermo classici come Lo squalo (peccato che fosse in lingua originale).
Bad Taste del primo, travolgente Peter Jackson, oltre a fare il tutto esaurito in sala, mi ha regalato la soddisfazione di sentir ammettere anche agli anglofili più accaniti quanto il film renda meglio con il doppiaggio italiano.
Sala piena anche per uno strano esperimento come The Curse, film brasiliano di José Mojica Marins che passerà alla storia per aver avuto il tempo di lavorazione più lungo di sempre. Iniziato nel 1982 è stato finalmente completato nel 2021 e per ovvie ragioni anagrafiche alcuni degli attori sono stati sostituiti perché nel frattempo erano diventati troppo vecchi per i loro ruoli e, ironia del destino, lo stesso regista ci ha lasciati nel 2020, poco prima della fine dei lavori.
E mentre mi avvicino alla chiusura di questo lungo reportage, torno alla sezione novità per segnalare due chicche che voglio che restino impresse.
La prima è Cieco sordo muto di Lorenzo Lepori.
Ok, so già cosa diranno molti di voi. Lepori mi sta simpatico e lo difendo a priori anche se fa delle cagate pazzesche.
Ora, a parte che se la definizione “cagate pazzesche” viene da qualcuno che stravede per il panorama del cinema cosiddetto autoriale contemporaneo, allora per me assume in automatico una valenza positiva.
E se a voi piace tanto masturbarvi la mente con storie di quarantenni ex ribelli sfigati, ventenni che ribelli non lo sono mai stati, mai lo saranno e quindi sono sfigati per autogenesi oppure sull’incomunicabilità di coppie neuro-depresse-somato-vegetative cingalesi, sono affari vostri.
Personalmente preferisco passare due ore in allegria e farmi quelle quattro risate che i film di Lepori mi han sempre regalato.
In più stavolta Lorenzo ci sorprende e tenta il gran salto confrontandosi nientemeno che con H. P. Lovecraft in persona. Mica pizza e fichi, se consideriamo che in tutta la letteratura horror e fantastica non c’è autore più difficile da trasporre su grande schermo del solitario di Providence.
Mostri sacri e veterani come Brian Yuzna hanno provato e fallito. Per quel che ne so, solo Carpenter ne Il seme della follia è riuscito a mostrarci per qualche secondo i “grandi antichi” senza cadere nel ridicolo. Ci sarebbero anche alcuni lavori di Ivan Zuccon, certamente dignitosi, ma il cui confronto non regge il peso del genio lovecraftiano.
Quindi onore a Lepori per il suo coraggio e anche per la sua intelligenza che lo ha portato a fare una rilettura libera e concettuale dell’opera di H.P.L. piuttosto che tentare una riduzione filologica.
In ultimo arriviamo alla vera rivelazione di tutto il festival, la perla, il gioiello della corona.
Un film che prudentemente la direzione artistica non ha voluto mettere in concorso perché altrimenti non ci sarebbe stata partita.
L’orafo di Vincenzo Ricchiuto, un film che non esito a definire perfetto.
Non gli manca assolutamente niente.
La cura nei dettagli, la gestione di attori che di loro non sarebbero eccelsi, ma che in forza agli insegnamenti di Hitckock, sono materia neutra che diviene plasmabile nelle mani dell’autore.
Il genere indefinibile che fonde in sé il poliziottesco, l’horror, il thriller in una miscela geniale ed esplosiva degna della miglior tradizione italica.
Gli effetti speciali, usati garbatamente ove necessario, senza invadenza.
E in ultimo la storia che ci propone in maniera fresca e originale, una coppia di anziani di provincia nel ruolo di cattivissimi alchimisti pazzi.
Un film che spero di rivedere distribuito nelle sale, perché merita di essere goduto nella miglior visione possibile, su grande schermo.
Chiudo questo mio lungo, tradizionale reportage dal Fantafestival veramente soddisfatto.
Mi sono divertito a scriverlo, esattamente come mi sono divertito a esserci.
È stato bellissimo rivedere le sale della kermesse piene di appassionati, nuovi e vecchi.
Questo è un merito che bisogna rendere alla direzione artistica, allo staff del cinema Aquila che ha supportato attivamente l’evento e alla testardaggine di tutti coloro che non hanno mollato la presa e hanno insistito perché questo patrimonio collettivo che è il Fantafestival continuasse a vivere per tornare grande.
Complimenti ragazzi, avete fatto il primo passo.
Continuate così!
Colonna sonora: Enter Sandman dei Metallica.