Takeshi Kitano con Kubi ritorna al Jidai-geki cioè il dramma storico giapponese, dopo la precedente esperienza del celebre Zatōichi di vent’anni fa.
Il Giappone feudale secondo Kitano
Nell’ultimo lavoro, Kitano mette in scena il periodo della caduta di Odu Nobunaga, uno dei più potenti signori feudali nel XVI secolo durante il periodo Sengoku o degli “Stati belligeranti”. In questi anni il paese è diviso in tanti feudi governati dai daymio a capo di clan di samurai in continua lotta tra di loro per la conquista di terre e potere.
Kubi narra degli ultimi giorni del governo Nobunaga che sogna di unificare il Giappone, del tradimento di Akechi Mitsuhide e del complotto dietro le quinte di Hashiba Hideyoshi. Hideyoshi (interpretato dallo stesso regista) prima inganna Nobunaga e lo induce al suicidio durante l’attacco al tempio di Honnō-ji. Poi sconfigge l’esercito di Mitsuhide nella battaglia di Yamazaki.
Hideyoshi diventa protagonista nell’ultimo scorcio del periodo Sengoku dell’unificazione del Giappone, attraverso anni di battaglie e conquiste di altri feudi.
Kitano si ispira al suo omonimo romanzo, da cui il film è tratto, scrivendo una sceneggiatura in cui privilegia sia l’interpretazione intimista degli eventi sia la rappresentazione plastica delle grandi battaglie.
Kubi tra grandi battaglie e complotti politici di palazzo
Così, da un lato abbiamo una dettagliata linea narrativa suddivisa per scene consequenziali che rivelano gli scontri, le invidie, la sete di potere, gli amori omossessuali tra samurai. Un intreccio composto da un montaggio alternato equilibrato, compiuto dallo stesso Kitano, che evidenzia tutte le azioni dei personaggi.
Il regista nipponico utilizza anche un paio di flashback con una fotografia dai colori desaturati verso una palette che li priva di brillantezza per dare una forma estetica separata alla memoria dei ricordi dei personaggi. In queste scene la macchina da presa predilige i totali ed è posizionata in basso durante i consigli politici di Nobunaga con i suoi vassalli.
Dall’altro lato, Kubi è anche composto da scene di battaglie molto movimentate in cui la macchina da presa è dinamica e il flusso delle inquadrature è valorizzato da un montaggio intensivo. Kitano utilizza inquadrature in campo largo dall’alto, con plongée che forniscono immediatamente allo spettatore una visione di insieme dell’azione.
Tra omaggio a Kurosawa e conferma del proprio stile
In particolare, in queste sequenze, come ad esempio durante la ripresa della battaglia di Yamazaki nella parte finale del film, la lezione di Kurosawa è ben presente. Kitano omaggia sia Kagemusha sia Ran.
Dove il maestro era geometrico, Kitano cerca il caos nella messa in scena del conflitto. Dove i colori avevano una funzione drammaturgica ed emozionale con toni accesi e brillanti, in Kubi hanno solo una funzione descrittiva in una rappresentazione il più verosimile possibile.
Kitano non si esime nel far esprimere i suoi personaggi in modo violento. I rapporti tra Nobunaga e i suoi vassalli e tra questi e i loro samurai o generali sono sempre improntati alla violenza fisica, verbale e psicologica. Anche il sesso imposto da Nobunaga al suo giovane samurai è un esercizio di potere e possesso.
In tutto questo, i gesti estremi punteggiano tutto Kubi. Spade che tagliano teste, lance che penetrano corpi, coltelli che aprono ventri. Il sangue scorre spesso in un periodo storico in cui il linguaggio della violenza e dell’eliminazione dell’altro è una prassi del sistema. E se kubi vuol dire “collo”, le spade dei samurai di Kitano decollano parecchie teste dai corpi di uomini e donne.
Kubi ha partecipato nella sezione del fuori concorso al Quarantunesimo Torino Film Festival, dopo essere stato presentato al 76° Festival di Cannes e già distribuito nelle sale cinematografiche giapponesi.