In una breve conversazione il regista francese spiega il senso di un film a suo modo empatico e rivoluzionario, diretto a costruire un nuovo approccio verso l'ambiente e gli esseri viventi
Thomas Cailley, regista francese di talento e sguardi lungimiranti, imprime il suo pensiero in un film visionario e allo stesso tempo ben ancorato nella nostra realtà quotidiana. Le Règne Animal , dotato di una componenete poetica molto forte, che dona all’intero impianto narrativo una notevole attitudine emozionale, è un film destinato a essere custodito nella memoria del futuro come una sorta di esortazione collettiva. Avvolto in una cappa di mirabili effetti speciali, conserva la sua natura realistica sorretto da interpretazioni eccellenti e da una macchina da presa dedita a forgiare intensi primi piani. In un nostro fugace incontro in occasione della quarantunesima edizione del Torino Film Festival, con la pellicola presente fuori concorso nella sezione Crazies, l’autore de Les Combattantesha ben riassunto il pensiero di questo suo secondo lungometraggio.
Le Règne Animal, le barriere
Il suo film sembra una specie di fiaba nella quale il protagonista, in realtà, non è né l’uomo e né l’animale ma l’antropomorfo, la creatura metà uomo e metà animale, quasi una metafora politica che prefigura un’apertura, una visione, che non riguarda solo la condizione ambientale ma tutti gli essere umani indistintamente.
A mia conoscenza l’essere umano è la sola specie che ha deciso di uscire dal resto e di tracciare una sorta di linea di demarcazione tra sé e tutto il vivente, considerando quest’ultimo come qualcosa che si può distruggere, sfruttare e abolire. L’idea di questo film era quindi basata sulla possibilità di bruciare questa frontiera tra l’umanità e il resto del vivente, di farla sparire. Per ricordarci che forse condividiamo un’ancestralità comune. Evidentemente il progetto fondante del film, la questione, è proprio questa, quella dell’armonia. Io credo che quella che chiamiamo biodiversità è in fondo una maniera di parlare della Democrazia, come arriviamo a convivere insieme con le nostre differenze.
La paura
La paura per la diversità, quello che è differente, non la troviamo solo nel rapporto uomo/animale, ma anche nella relazione inversa, quella animale/uomo; in questo senso il film sembra essere una specie di viaggio alla ricerca di un punto di equilibrio.
In Francia sono stato per molto tempo in tour per mostrare il film e discuterne con il pubblico. Ricordo che una volta una spettatrice mi ha detto che all’inizio del film aveva paura delle creature ma alla fine cominciava ad aver paura dell’uomo. Penso che questo sia probabilmente il miglior pitch di questo film. Lo sguardo che poniamo su queste creature cambia, così come cambia il film, ci si abitua a loro e si entra in una trama di complicità. Verso la fine del film c’è questa sequenza nella quale Emile cammina nella foresta e ce ne sono tante, di creature; lui si guarda attorno, le osserva e lo stesso fanno loro con lui. È uno sguardo comune verso il differente. Per contro, per esempio, noi siamo nella sala di un cinema con tante persone che non conosciamo, che non abbiamo mai visto e questo non ci pone alcun problema.
In fondo è nella natura umana avere paura della diversità?
Sì, penso di sì. Abbiamo paura di quello che non conosciamo, che ci risulta differente.