Inizia dalle basi, letteralmente, un po’ come i suoi personaggi, sa cosa vuol dire fare un certo tipo di lavoro, perché uno dei mestieri da lui intrapresi, è proprio quello del muratore. Oggi però, Kaurismäki è lassù, nella parte alta, é fra quelle personalità riconosciute come geniali, a lui vengono associate le accezioni di artista, umanista. Il regista finlandese però non dimentica, e non rimane in silenzio, ma anzi, dedica la sua arte a rappresentare il vissuto di tutti, per tutti.
È una filmografia (a oggi disponibile parzialmente su MUBI) che racconta di quella parte bassa della società, di figure perdenti e solitarie dedite all’alcool e al fumo. Si avvale di uno stile freddo, surreale, eppure, paradossalmente, ed è questa la cosa che più lo rende speciale, tremendamente sensibile, vero e caldo.
Gli inizi, Mika e Dostoevskij
Prima di scrivere e dirigere i suoi film, Kaurismäki partecipa alla realizzazione delle pellicole del fratello maggiore, Mika Kaurismäki, in veste d’attore e di sceneggiatore, sarà appunto protagonista del film The liar del 1981. Sempre con il fratello, lancia nel 1986 la prima edizione del Midnight film festival, evento che si svolge in cinque giorni, 24 ore su 24, con la proiezione di diverse retrospettive dedicate ai registi ospiti ogni anno.
Ma la sua carriera da regista inizia invece qualche anno prima, più precisamente nel 1984, con l’adattamento di Delitto e castigo, romanzo del noto scrittore russo Fedor Dostoevskij.
“Hitchcock said ‘I would never dare to touch that book, it’s too difficult’ and I said ‘I show you old man’… And it was too difficult.”
La poetica dei perdenti: “La trilogia del proletariato”
Due anni dopo l’esordio alla regia di un lungometraggio, arriva quello che è considerato essere il primo capitolo della trilogia del proletariato: Ombre nel paradiso. Kaurismäki con il film del 1986 porta lo spettatore in una Helsinki vista come luogo da cui scappare, i personaggi principali infatti sognano, dopo essersi conosciuti, una fuga d’amore verso la Florida.
La Florida di Ombre nel paradiso, è per la filmografia di Kaurismäki, uno di quegli elementi che funge da faro, da carburante per alimentare la speranza di riuscire a vedere un orizzonte migliore. Un tema che viene ripreso spesso in questi film che, sostanzialmente, sono avvolti da un’apparente aura pessimistica, in realtà infatti, Kaurismäki mette molto l’accento verso la possibilità dell’esistenza di una luce in fondo al tunnel della sofferenza.
Nella disperazione messa in scena dal regista finlandese, c’è costantemente la presenza dell’altro lato della medaglia, un lato forse meno appariscente ma presente, su cui si fonda quell’umanismo per cui si fanno apprezzare i film del regista. È così che le pellicole di questa trilogia (e non solo) come Ariel e La fiammiferaia, rispettivamente del 1988 e del 1990, riescono a sfociare in una delicatezza che, in un certo senso, annulla lo stile asettico del regista che apre a derive anche comiche.
I perdenti e i lavoratori di Kaurismäki, appartenenti al gradino più basso della scala sociale, sono al mondo con l’unica funzione di subire la stanchezza, la fatica, le umiliazioni e le delusioni, eppure sognano, non possono farne a meno, e tramite il loro sognare un mitico altrove, o l’amore di un’altra persona, si riesce a empatizzare sia con il loro dolore che con la loro speranza.
La figura di un auteur
Ai tempi in cui François Truffaut scriveva sul Cahiers du cinéma, il regista francese parlava di una determinata figura, che nella realizzazione di un film, riuscisse a mettere la sua firma su ogni elemento. Qualcuno che riuscisse a far emergere da ogni inquadratura la propria presenza rendendola inconfondibile, che avesse controllo totale sulla propria opera cinematografica, per esprimere una sua personale poetica.
Indubbiamente, Aki Kaurismäki è una di queste figure, un auteur a tutto tondo. I suoi film sono indistinguibili nella loro freddezza, nel loro avere un clima così asettico, gestito da questa telecamera prevalentemente fissa. Gli interni e i costumi sono impersonali, comunissimi, senza nulla di particolarmente caratteristico. L’unica cosa che riesce ad emergere sono i colori, è possibile infatti individuare l’arancione acceso di una poltrona o il verde chiaro di una tenda, colori che servono da decorazione a elementi che subiscono tutta la stanchezza d’esistere in un film del regista finlandese.
Uno stile che vede un punto cardine anche nelle interpretazioni dei suoi attori, che si prestano a prove attoriali volutamente asciutte, ad enfatizzare ancora di più un senso di estraniamento e miseria, come ad esempio nel film Le luci della sera (2006) capitolo finale della trilogia sulla Finlandia (composta anche da Nuvole in viaggio, del 1996 e L’uomo senza passato, del 2002) uno dei film più cupi del regista.
Quello di Kaurismäki è un universo che si rifà a un’estetica precisa, guardando la sua filmografia, alla fine non si può fare a meno di pensare a delle sigarette, giacche di pelle, e a qualche bottiglia di alcool da bere in un bar, ascoltando, in solitudine, della musica.
La musica, la comicità
Proprio la musica, nella filmografia di Kaurismäki, ricopre un ruolo fondamentale, i suoi personaggi infatti si ritrovano spesso ad ascoltare melodie di vario genere, dalle ballate folk al rock’n’roll. Basti pensare a Leningrad Cowboys Go America (1989) per capire quanto il regista sia legato a tale mondo, tant’è che addirittura, per lo stesso gruppo protagonista del film, dirigerà diversi videoclip.
La musica nei film di Kaurismäki entra come se fosse un oggetto estraneo, un colore particolarmente sgargiante su un quadro di sole tonalità scure. Sicuramente c’è la possibilità che a un primo approccio, questo colore possa risultare come un pugno in un occhio, ma è un’impressione che dura solo mezzo secondo, perché immediatamente l’immagine e la musica si complementano.
Ne risulta a volte, un’amplificazione della dimensione tragica e solitaria dei personaggi, altre volte invece, si ottiene una sorta di contrasto, che rende la situazione in un certo senso comica. È innegabile infatti, che i film di Kaurismäki presentino una spiccata componente umoristica. È un umorismo, si potrebbe dire inconsapevole, il film di per sé è immerso nel suo pessimismo, eppure c’è occasionalmente una battuta, un gesto, un’espressione, un’inquadratura, che sa di troppo, che fa eccedere quella dimensione drammatica in uno spettro che ha come estremi, una comicità leggera e il black-humor.
Tutto ciò, come se il regista stesse dicendo allo spettatore, che nonostante tutto, vada bene ridere, anche alle spalle del film stesso. In linea con la sua persona, da grande umanista, Kaurismäki utilizza il riso non come forma di derisione, il suo è un riso amaro, di compassione, che non fa altro che elevare ancora di più il grado di empatia e tenerezza che i suoi film riescono a suscitare.
Il più grande sentimentale
Alla proiezione di Ariel al festival di Locarno nel 1989, qualcuno ha definito Kaurismäki un cinico, ciò è stato fatto presente al regista il giorno successivo, tramite un’intervista, e alla domanda su come risponderebbe a questa persona, Kaurismäki reagisce in questo modo:
“Gli chiederei se è mai stato così sentimentale da seppellire un fiammifero. È quello che ho fatto io da bambino. Ho provato compassione per un fiammifero che si trovava sulla strada. Quindi l’ho preso e l’ho seppellito in un bel posto nel bosco, non chiamerei una persona così, un cinico.”
“Quindi è un sentimentale?”
“Il più grande sentimentale che ci sia mai stato.”
Quella di Kaurismäki è una voce che esorta alla compassione, alla tenerezza e all’empatia. I suoi film esistono per mostrare quei momenti, in cui il piccolo dettaglio diventa un inno alla vita, anche a quella vita misera, anzi, soprattutto alla vita misera, che addirittura non sembra voler essere nient’altro oltre che rifiuto di ogni cosa. Perché in realtà anche questi mondi e questi personaggi, che fanno della loro fatiscenza il loro nucleo, sono vivi e pulsanti.
Proprio alcuni degli ultimi film del regista, sono esempi lampanti di un tipo di sentimentalismo, volto alla gentilezza e alla solidarietà, trattando anche temi delicati come l’immigrazione, avviene ciò precisamente in Miracolo a Le Havre (2011) e L’altro volto della speranza (2017).
Amare la sofferenza
Per chiudere il cerchio, tornando a Fedor Dostoevskij, lo scrittore russo diceva: “a volte l’uomo è straordinariamente innamorato della sofferenza”. Amare la sofferenza è un’espressione dal significato molteplice, d’altronde si può amare la sofferenza in sè, perché parte della vita, si può amare chi soffre, oppure, si può amare la sofferenza, perché senza di essa la gioia avrebbe tutt’altro valore.
Ancora oggi Kaurismäki continua ad amare la sofferenza, basti citare il recente Foglie al vento, che rappresenta un simbolico ritorno ai film della trilogia del proletariato. Una storia che torna a essere ambientata a Helsinki per parlare ovviamente di due perdenti, un operaio e una cassiera. Due solitudini che possono insegnare ancora una volta a noi spettatori, quanto sia bello amare questa nostra sofferenza, per poi magari anche riderne.