fbpx
Connect with us

Conversation

‘Palazzina Laf’ conversazione con Michele Riondino

Palazzina Laf racconta la disumanizzazione della classe operaia con un'opera che sorprende per l'originalità del suo sguardo. Di Palazzina Laf abbiamo parlato con Michele Riondino

Pubblicato

il

Per il suo esordio alla regia Michele Riondino sceglie di tornare alle origini per raccontare la condizione della classe operaia alle prese con la rapacità di un capitalismo disumano. Di Palazzina Laf abbiamo parlato con Michele Riondino alla vigilia dell’uscita del film.

Dopo essere stato presentato alla Festa del cinema di Roma Palazzina Laf di Michele Riondino arriva nelle sale distribuito da BiM Distribuzione.

Palazzina Laf di Michele Riondino

Volevo partire dalle immagini sulle quali scorrono i titoli di testa. Mi sembra che quella apertura dia a Palazzina Laf un’altra possibilità di lettura a parte quella relativa ai fatti raccontati. I disegni dell’affresco presente nella chiesa in cui si sta svolgendo il funerale mostrano al centro della scena il Cristo e sotto di lui alcune figure di operai vestiti con abiti moderni. La riscrittura di un vangelo laico secondo me inizia dall’equiparazione dei lavoratori a “poveri cristi” e si completa poco dopo dalla scelta di introdurre a parte la figura di Lamanna. Il fatto di separarlo dagli altri pur facendo anch’egli lo stesso mestiere fa il paio con un’altra scena a sfondo religioso in cui lo vediamo baciare il volto della statua di Gesù. Il richiamo a Giuda, certificato dal tradimento compiuto da Lamanna nei confronti dei propri compagni, mi sembra coerente con questo tipo di lettura. 

Mi fa piacere tu abbia notato questi accostamenti perché in effetti gli elementi cristologici per me sono un segno molto evidente della “passione” che i tarantini, e in particolare gli operai di Taranto, vivono costantemente. Il mosaico a cui si riferiscono le immagini è tristemente noto perché appartiene alla chiesa più vicina al siderurgico. L’affresco intitolato Gesù Divin Lavoratore raffigura Gesù che dall’alto dei cieli benedice la fabbrica, gli operai e la città di Taranto. Si tratta di un’opera incredibile per il messaggio che lancia. Come dici tu, più che discepoli io li vedo come dei poveri cristi, simili a quelli accorsi al capezzale del collega scomparso. La prima scena denuncia l’ipocrisia che esiste dentro e fuori la chiesa perché il mosaico rappresenta la benedizione di qualcosa che avrebbe dovuto portare grandi benefici e che invece ha finito per avvelenare la gente. Ipocrita è Basile, il personaggio interpretato da Elio Germano, presente al funerale solo perché a Taranto bisogna farlo quando muore un operaio. In Chiesa accorrono tutti: dai colleghi ai dirigenti ai sindacati. Il sindacato che dovrebbe difendere il lavoratore dalla morte sul lavoro sovverte il proprio statuto e all’Ilva di Taranto riesce solo a nominarsi parte civile nel processo che ne segue la scomparsa, finendo, e questo è paradossale, a incassare perfino un risarcimento, in caso di vittoria della causa.

La prima battuta pronunciata da Caterino Lamanna è fondamentale perché evidenzia come, alla morte di un operaio, la prima cosa che si fa è cercare di capire la negligenza che gli è stata fatale. Caterino dice che chi non è capace a lavorare deve stare a casa, addossando da subito la colpa al morto. Quello che racconta il film è un circo di ipocrisia.

Una rappresentazione della comunità e una riflessione

A proposito di circo, la sequenza del funerale è anche fondativa di ciò che racconta il film perché nella liturgia del rito funebre è possibile ritrovare una rappresentazione perfetta di quella comunità, ognuno con il proprio ruolo e collocazione. 

La storia di Caterino è quella di un uomo disposto a tutto pur di avere un ruolo all’interno della fabbrica. Il suo è lo stesso percorso compiuto da Basile. Prima di occupare un posto di rilievo è probabile che anche lui sia partito dal basso, cercando in ogni modo di guadagnare spazio prevaricando gli altri all’interno di un sistema azienda che dopo il passaggio dal pubblico al privato non si fa più garante delle disparità. Con l’arrivo della famiglia Riva c’è stata una scalata sociale tale che i posti di potere li conquistava chi era privo di scrupoli, arrivando alla delazione e al tradimento dei propri colleghi. Antipatie e vendette si consumavano all’interno dell’azienda senza che il resto del mondo lo sapesse. Mio padre, che dell’Ilva è stato operaio, non raccontava mai quello che accadeva là dentro. Io l’ho capito attraverso le mie ricerche e dopo aver ascoltato i racconti degli altri operai.

Il fatto che nel film preti e vescovi, pur presenti, rimangono fuori campo lascia intuire che anche la Chiesa si sia girata dall’altra parte lasciando i lavoratori al loro destino. 

Il discorso sulla chiesa è molto particolare. Rispetto alla questione dell’Ilva quest’ultima è stata sempre molto ambigua, ma io non mi sono permesso, e non lo faccio neanche adesso parlando con te, di assegnarle delle responsabilità. È fuor di dubbio che la curia tarantina non ha visto cose in realtà molto evidenti. Nel film succede qualcosa di simile quando il vescovo non si accorge di quello che sta accadendo davanti a lui. Noi vediamo la lavoratrice mentre cerca di consegnargli la lettera, con Basile dietro di lei che cerca di dissuaderla mentre la soggettiva che il prelato ha sui fatti non sembra sufficiente a metterlo in allarme. Ecco, per me era importante sottolineare questo aspetto, e cioè il non essere stati in grado di capire e vedere il disagio. Che poi questa sia una responsabilità non sta a me dirlo perché sarebbe solo un’illazione. Io mi sono preso quella di raccontare una suggestione che ho avuto.

L’universalità in Palazzina Laf di Michele Riondino?

Nella sequenza iniziale dell’operaio morto non sappiamo nulla. Questo fa di lui una sorta di milite ignoto che regala alle vicende del film un significato universale parlando della condizione degli operai di tutto il mondo e non solo dell’Ilva.

Ma sai, la questione dei reparti lager non nasce con la palazzina Laf. Io e Maurizio Braucci abbiamo attinto molto dall’opera di Alessandro Leogrande, e dal reportage che fece per L’Internazionale dove raccontò la strategia che c’era dietro la costituzione di questi reparti, il primo dei quali dovrebbe essere stato istituito negli anni cinquanta nella Fiat di Torino. In tali luoghi venivano reclusi i lavoratori problematici, quelli che avrebbero potuto creare problemi al sistema aziendale. Nella Palazzina Laf così come in quella creata sempre dalla Fiat a Nola nel 2005 abbiamo a che fare con una strategia molto precisa che è quella di costringere il lavoratore al licenziamento. Prima esisteva l’articolo 18, poi abrogato da Renzi, che impediva di licenziare il lavoratore senza giusta causa. Per aggirare l’ostacolo a suo tempo si pensò di mettere il lavoratore nelle peggiori condizioni possibili in modo da indurlo a sbagliare e persino a licenziarsi. La Palazzina Laf era esattamente questo. Quando Riva è arrivato a Taranto decise che c’erano troppi impiegati. Da subito disse che non ne aveva bisogno al contrario degli operai, dunque sì, per lui si creò il problema di come licenziarli. Per farlo ha costruito questo stratagemma che però già esisteva. I reparti lager vengono ancora utilizzati solo che oramai abbiamo l’abitudine a non farci domande e dunque finiamo per ignorare cosa succede all’interno delle aziende.

Subito dopo le sequenze di cui abbiamo parlato c’è una carrellata che accompagna il ritorno a casa di Lamanna. Il paesaggio che attraversa ci mostra una campagna desolata e abbandonata. La stessa sensazione si ha guardando la masserizia in disuso in cui abita l’uomo e questo restituisce bene la trasformazione del territorio e la sensazione di un mondo vampirizzato dalla presenza della fabbrica.

Raccontando la storia della palazzina Laf mi sono ispirato a una storia del 1997,  scegliendo di non raccontare eventi recenti della vertenza Taranto. Ciò detto ho voluto riempire il film con una serie di piccoli indizi che potessero riportarci alla questione contemporanea. Mi riferisco, per esempio, alla scritta Ilva is a killer sulla pensilina della fermata dell’autobus, oppure alla masseria stessa a cui facevi riferimento. Come dici quella in cui vive Caterino è fagocitata dalla fabbrica e quello è un chiaro segnale dell’oggi. La masseria in questione è famosa perchè nel 2012 vi sono stati abbattuti oltre quattrocento capi di bestiame che avevano la diossina nel latte. A porre sotto sequestro gli impianti dell’Ilva fu il giudice Todisco ed è per omaggiare lei che ho immaginato il personaggio interpretato da Anna Ferruzzo mentre in realtà l’avvio del processo contro i reparti Lager fu fatta da Franco Sebastio, lo stesso sostituto procuratore che ho intervistato e che mi ha fornito molto del materiale su cui sono costruiti i fatti del film. Anche la scena della pecora che muore è un altro chiaro messaggio ai giorni nostri. Raccontando una storia degli anni novanta mi sono “divertito” a inserire tanti elementi che in realtà il pubblico più attento e a conoscenza dei fatti riconoscerà come elementi di contemporaneità.

La messa in scena

Mi ha colpito il fatto che nonostante il film sia ambientato in una fabbrica ad alta tecnologia – l’Ilva era famosa in tutta Europa -, in realtà ad andare in scena è un mondo arcaico in cui gli uomini riuniti in tribù si incontrano e si scontrano per una guerra di mera sopravvivenza. Quello che metti in scena è un mondo darwiniano regolato da un rapporto di causa effetto dove non c’è nulla di spirituale.

Infatti non c’è nulla; neanche la capacità di leggere gli eventi che si susseguono. Caterino secondo me è il ricettore di tutti questi aspetti arcaici e se vogliamo anche ultra contemporanei e antropologicamente caratterizzanti della popolazione operaia tarantina. Lui è un operaio e un lavoratore che non ha gli strumenti intellettivi per capire la gravità dei fatti. Piuttosto che riconoscere il suo cambiamento – perché nel corso del film comincia a manifestare una coscienza-, rinuncia a schierarsi con le vittime parteggiando per i carnefici a costo di accollarsi il crimine e la colpa di qualcosa che non lo rappresenta. Preferisce stare dalla parte dei forti piuttosto che da quella delle vittime, che poi è quello che succede oggi a Taranto. Quando si parla di salute o lavoro meglio morire di tumore o di fame piuttosto che andare contro a quell’idea di impiego che i più sostengono artefice della loro sopravvivenza. In tal senso Caterino rappresenta la mia critica feroce verso Taranto e i tarantini, colpevoli di essersi accontentati di un piatto di minestra alla diossina.

I colori di Palazzina Laf di Michele Riondino

Dal punto di vista della pura messa in scena e rispetto a quello che hai detto, la direzione della fotografia dà l’idea di questa malattia con la rappresentazione del sole che dispensa una luce malata. Anche i marroni desaturati intercettano lo stesso concetto riprendendo il colore della ruggine presente nell’edilizia della fabbrica. Il fatto di rifletterli sui corpi dei personaggi ci dice del male che li avvelena.

Esatto, hai fatto giustamente riferimento al color ruggine. Con il direttore della fotografia Claudio Cofrancesco abbiamo lavorato molto sulla saturazione dei colori, soprattutto sulla differenza tra il mondo interno ed esterno alla fabbrica, ove per il primo intendo sia la palazzina ma anche le strade dove Caterino cammina, l’autobus e tutto quello che, pur al di fuori della fabbrica, è una sua emanazione. Nel dettaglio c’è stata una ricerca su una palette di colori che potesse restituire soprattutto l’artificio perché a Taranto abbiamo dei tramonti splendidi, con colori pazzeschi, ma anche quelli sono condizionati dai fumi. Al calar del sole la rifrazione della luce attraverso i fumi dell’acciaieria regala degli spettacoli incredibili che abbiamo cercato di ricreare con l’artificiosità dei colori.

Anche il look di Caterino un poco alla volta si colora con quello dell’ambiente. Con il passare dei minuti lo vediamo sempre più decadente. I vestiti raffazzonati, i denti ingialliti, i capelli spettinati rendono bene l’idea di una fabbrica che consuma. Il malessere è presente anche nelle scenografie e nei costumi.

Sì, soprattutto anche dei muri. Se ci fai caso abbiamo sempre cercato di avere della materia, con le pareti piene di scrostature e screpolature. È stata una ricerca facile perché a Taranto alcuni sono ancora come li ho lasciati. Siamo stati attenti che anche la casa di Caterino risultasse allo stesso modo e che dunque fosse poco accogliente. In particolare vorrei citare il trucco di Eva Nestori e il parrucco di Claudia Pallotta. Il loro reparto mi ha dato una grossa mano a creare delle maschere sia con Caterino, aggiungendo denti e occhi neri finti e tutto quel posticcio che mi hanno permesso di caratterizzarne la camminata e la gestualità, sia con il resto dei personaggi e cioè con Basile e gli occupanti della palazzina.

La scenografia, tra città, mare e fabbrica

A proposito di scenografie, non sfugge il fatto che la città non si vede mai così come il mare. A dominare è un senso di claustrofobica incombenza che permane anche nelle sequenze in esterni.

Questo mi fa piacere che tu lo dica perché Palazzina Laf non è un film su Taranto bensì sulla fabbrica. Non è un film sulla città perché non vuole mostrarne le bellezze. Non vuole esserlo perché se avessi voluto fare un film su Taranto avrei fatto vedere tutt’altro e di certo non avrei mostrato la fabbrica. Sbagliando perché quest’ultima è parte della città.

Per come la rappresenti, con gli operai in divisa e le angherie degli aguzzini, la fabbrica sembra davvero un lager.

Ma lo è. Ho fatto fatica a rendere credibile l’incredibile. Nel film ho raccolto le testimonianze di chi c’è stato dentro: ho studiato e riportato le carte processuali e racconti a cui si fatica a credere, con lavoratori reclusi che urlano e gridano, che giocano a mosca cieca, che pregano e con i vigilantes preposti a scortarli all’interno dell’azienda. È tutto vero e il mio lavoro è stato quello di rendere credibile l’incredibile. Ad aiutarmi è stato l’uso del grottesco, usando personaggi che restituissero questo registro. Il mio riferimento principale è stato Fantozzi, poi certo, c’erano Petri, GermiRosi, Scola, ma c’era soprattutto il personaggio creato da Paolo Villaggio.

Richiami e riferimenti

C’è anche Luigi Zampa e l’Oreste Celletti de Il vigile, citato nella scena della pernacchia. Anche a lui, come al personaggio di Sordi, l potere dà alla testa impedendogli di vedere la realtà dimenticandosi da dove viene.

Sì, ci sono tutti quelli, compreso il Monicelli de I Compagni, che hanno rappresentato un mondo operaio fatto di maschere e di sfumature clowneristiche.

Peraltro ho trovato strepitosa la trovata di affiancare la commedia grottesca a una trama da thriller cospirativo in cui sembri guardare addirittura al cinema della nuova Hollywood.

In effetti hai ragione, abbiamo voluto dare un taglio al film che va anche in quella direzione, salvo poi rientrare nella psicologia dei personaggi. In particolare è stato il montatore del film, Julien Panzarasa, ad avere questa intuizione, ovvero di delineare i momenti in cui Lamanna mette nel mirino Morra con un linguaggio più poliziesco attraverso sottolineature musicali e con piccole zoommate utilizzate per esempio quando Basile, senza che lo spettatore lo senta, propone a Caterino la sua strategia.

 

Primi piani e personaggi di Palazzina Laf di Michele Riondino

Palazzina Laf è anche un film di corpi e di facce a cui dai spazio con una regia di primi piani e piani americani capaci di raccontarli.

Alcuni ruoli sono stati scritti pensando a quel tipo di attori, e mi riferisco a Vanessa Scalera, a Michele Sinisi, a Giordano Agrusta. Essendo il primo lavoro da regista e avendo fatto parecchio teatro, sia come attore che come regista, per me è stato fondamentale crearmi una sorta di compagnia teatrale. Le scelte di Elio GermanoPaolo Pierobon, di Fulvio Pepe e Gianni D’addario sono state fatte, oltre che sulle facce, anche sulla modalità di lavoro. Ho avuto solo cinque settimane per girare. Ne ho ottenuto una sesta per provare le scene all’interno delle location realizzando una vera e propria prova teatrale delle scene. Per quanto riguarda le inquadrature, sì per me era fondamentale lavorare sulle facce e questo rientra un po’ nel tema che abbiamo affrontato prima riguardo alla caratteristica materica del film. Tutto lo doveva essere: i muri, le luci, i costumi dovevano essere tridimensionali, quindi ho scelto anche delle comparse locali che nella vita sono operai. Li ho fatti venire con noi a Piombino dove c’era la fabbrica in cui abbiamo girato.

Io, per esempio, ho trovato bravissima Marina Limosani che nel ruolo della segretaria di Basile dà vita a un personaggio diverso da quelli presenti nel film. In generale hai trovato il modo di far convivere la recitazione naturalistica all’interno di un registro grottesco reso manifesto nel ghigno che deforma le facce dei protagonisti.

Per quanto riguarda i ghigni e le facce, ma anche costumi e scenografie, per me era importante restituire il mio ricordo della Taranto degli anni novanta che lì erano diversi da quelli romani. Con Elio per esempio abbiamo cercato riferimenti specifici andando a vedere filmati e foto dell’epoca su YouTube. Abbiamo trovato materiali relativi a cortei, manifestazioni, telegiornali, ai politici locali e da lì abbiamo lavorato sulle maschere e sul grottesco, sempre ragionando su una rappresentazione allegorica e non realistica. Poi sai, asciugando molto la maschera teatrale diventa reale e verosimile e da questo abbiamo ottenuto il risultato a cui accennavi. Per quanto riguarda il ruolo della segretaria, interpretata da Marina Limosani, si trattava di una sorta di anti signorina Silvani. Quella era una maschera con un certo ghigno mentre lei è il manifesto della purezza, della bellezza, della limpidezza.

Michele Riondino oltre Palazzina Laf

Parliamo del cinema che ami.

È un po’ quello che abbiamo detto. Io non riesco a fare a meno della nostra storia del cinema legata agli anni settanta e ottanta e quindi a Petri, Rosi, Germi, Scola, Monicelli. È il cinema che amo e che continua a influenzarmi.

Scrivere in una rivista di cinema. Il tuo momento é adesso!
Candidati per provare a entrare nel nostro Global Team scrivendo a direzione@taxidrivers.it Oggetto: Candidatura Taxi drivers

Palazzina Laf di Michele Riondino

  • Anno: 2023
  • Durata: 99'
  • Distribuzione: BIM
  • Genere: drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Michele Riondino
  • Data di uscita: 30-November-2023