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Oliver Stone, coscienza critica dell’America a stelle e strisce

Ripercorriamo la ricca filmografia del regista statunitense Oliver Stone

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Scomodo, pungente, combattivo: lo statunitense Oliver Stone appartiene a quella schiera di cineasti per i quali la settima arte rappresenta uno strumento di denuncia e coscienza critica.

Nato a New York nel 1946, il celebre regista è autore libero e anarchico che fa del racconto dell’America contemporanea e dei suoi lati più oscuri e discussi l’elemento centrale della propria filmografia.

Si tratta di uno sguardo costante attraverso il quale vengono denunciati gli intrighi di potere, l’imperialismo cinico, l’ambiguità dei mass-media, la violenza strisciante, l’orrore della guerra. Quella guerra da lui vissuta in prima persona in Vietnam che di certo ha contribuito alla sua presa di coscienza e alle successive scelte artistiche. Scelte che lo hanno condotto a un cinema dai toni duri e diretti che non temono il contraddittorio, ma che anzi cercano di stimolarlo in funzione della conoscenza di verità spesso scomode e disturbanti.

L’esordio horror di Stone e la vittoria dell’Oscar come sceneggiatore

L’esordio di Oliver Stone come regista di lungometraggi fiction avviene nel 1974 con Seizure, horror dalle venature psicologiche che, mescolando sogno e realtà, mette in scena, tra camera a mano nervosa e suggestivi fish-eye, un racconto incentrato sul personaggio di Edmund Blackstone (Jonathan Frid), uno scrittore che d’un tratto vede tre personaggi della sua fantasia prendere corpo e trascinare lui, la sua famiglia e i suoi amici in un crudele gioco al massacro.

Per l’opera seconda del cineasta statunitense occorre aspettare il 1981, anno in cui esce nelle sale La mano, inquietante horror movie che, tra black-out mentali, amnesie e analisi dell’inconscio, narra le vicende di Jonathan Lansdale (Michael Caine), un famoso fumettista che, a causa di un incidente d’auto, perde la mano destra. Quest’ultima, rianimatasi, prende vita a sé e inizia ad uccidere tutti coloro che suscitano l’ira dello stesso protagonista.

Nel frattempo, Stone ha già avuto modo di raccogliere il suo primo successo professionale grazie alla vittoria dell’Oscar 1978 per la sceneggiatura di Fuga di mezzanotte, solido dramma carcerario diretto da Alan Parker, in cui viene raccontata la vera storia di William “Billy” Hayes (Brad Davis), un ragazzo statunitense in vacanza ad Istanbul, che, trovato in possesso di hascisc, viene condannato all’ergastolo (poi ridotto a trent’anni) ed è rinchiuso in una squallida prigione.

1986, l’anno dei primi successi di Oliver Stone come regista: Salvador e Platoon

Per l’affermazione come regista, l’autore americano deve invece attendere ancora qualche tempo. Esattamente il 1986, anno in cui esce nelle sale Salvador, appassionante pellicola imperniata sulla figura Richard Boyle (James Woods), un giornalista sulla via dell’autodistruzione che, accompagnato dall’amico Rock (James Belushi), si reca in El Salvador per raccontare la guerra civile in atto tra il Fronte democratico e la giunta militare sostenuta dagli Usa. Una volta qui, l’uomo – sino ad allora indifferente ai fatti in causa -, resosi conto della brutalità e delle ingiustizie perpetrate dal regime militare nei confronti della povera gente, decide di schierarsi dalla parte di quest’ultima.

Basato sul meccanismo dell’acquisizione di consapevolezza del protagonista Richard, Salvador – tratto da una storia vera – rappresenta la svolta artistica del cineasta statunitense. Stone, infatti, abbandona il genere horror per virare in maniera convincente verso quel cinema politico destinato a diventare emblema della sua stessa filmografia.

Il regista americano muove un’accusa profonda e dettagliata all’imperialismo reaganiano optando per una messinscena che lascia emergere in tutta la sua realistica drammaticità il contesto di degrado, morte e violenza in cui si svolge l’azione. Il ricorso al montaggio serrato e all’uso concitato della camera a mano (destinati a costituire cifra estetica dell’intero cinema stoniano) conferiscono tensione e pathos alle scene di lotta e agitazione. Mentre la grande prova recitativa di James Woods corona una pellicola che, nonostante la freddezza del botteghino, incontra il forte plauso della critica e apre la strada a Stone verso il successo mondiale.

Un successo che arriva nello stesso 1986 con Platoon, durissimo war-movie in cui il cineasta, adottando il punto di vista dell’ingenuo soldato Chris Taylor (Charlie Sheen) – volontario di buona famiglia proveniente dal college -, racconta le vicende umane e militari di un plotone di soldati statunitensi impegnati nella guerra del Vietnam.

Il film ha chiari rimandi autobiografici: era stato lo stesso Stone – come già detto – a prestare servizio come volontario nel medesimo conflitto venendo ferito due volte. Un’esperienza, questa, già ripercorsa dal regista nel corto Last year in Viet Nam (1971), e qui raccontata attraverso il proprio alter ego Chris.

È alla sua voice off che Stone affida le considerazioni più profonde e amare. Come per il Richard di Salvador, la sua presa di coscienza è l’elemento rivelatore della verità: la guerra combattuta per gli ideali di democrazia e libertà non è altro che una spietata carneficina, una crudele discesa agli inferi che pone ognuno dinanzi alla propria ferocia.

Stone denuncia senza mezzi termini le violenze dell’esercito americano nei confronti della popolazione civile. È la scena della distruzione del villaggio di contadini, con tutto il portato di violenze gratuite, a costituire la tragica quintessenza della resa alla follia e alla bestialità.

Per il regista newyorkese si tratta, dunque, di lottare non soltanto contro il nemico, ma anche contro se stessi; contro quell’abbrutimento che strappa l’anima. Un conflitto, questo, plasticamente rappresentato dal contrasto tra i sergenti Elias (Willem Dafoe) e Barnes (Tom Berenger), metafora dell’antinomia bene/male, ma anche tragica raffigurazione di un’umanità ineluttabilmente destinata alla sconfitta. Una sconfitta incarnata nell’iconica immagine dello stesso Elias che, morente, tende le braccia e il volto al cielo.

Intenso, vigoroso racconto antimilitarista, Platoon ottiene un grande successo di critica e pubblico che lo porta a fare incetta di riconoscimenti. La pellicola infatti riporta a casa, tra gli altri, quattro statuette (miglior film, miglior regia, miglior montaggio e miglior sonoro) agli Oscar 1987 e il premio per la miglior regia al Festival di Berlino 1987.

Wall Street, il mondo dell’alta finanza visto da Oliver Stone

Smaltita l’ebbrezza del successo di Platoon, Oliver Stone torna nelle sale con Wall Street (1987), avvincente pellicola in cui si narrano le vicende di Bud Fox (Charlie Sheen), un giovane broker che culmina il suo sogno di lavorare per Gordon Gekko (Michael Douglas), uno spietato operatore dell’alta finanza. Dopo essersi arricchito anche grazie ad una serie di mosse scorrette poste in essere assieme allo stesso Gekko, Bud viene a sapere che quest’ultimo progetta di far fallire con una manovra speculativa l’azienda dove lavora suo padre Carl (Martin Sheen). Il ragazzo, perciò, resosi finalmente conto delle tremende conseguenze del suo “lavoro” nel mondo reale, decide di intervenire anche a costo della propria libertà.

Sullo sfondo di una riflessione tra etica e profitto, Stone propone uno spaccato del mondo cinico e avido dell’alta finanza muovendo una profonda critica a quel capitalismo rampante anni ’80 emblema dell’amministrazione Reagan.

Come in Salvador e Platoon, la struttura del racconto è costruita attorno all’awareness del giovane protagonista, qui alle prese con un vero e proprio percorso di redenzione. Una redenzione che certo non riguarda l’avido Gekko, nel cui personaggio il regista statunitense individua l’autentica incarnazione di quel vuoto valoriale aggrappato al mito fatuo della ricchezza e del denaro facile. L’interpreta uno straordinario Douglas – giustamente premiato agli Oscar 1988 come miglior attore protagonista – a cui Stone affida un impietoso monologo destinato a diventare un cult del cinema dell’epoca.

Talk Radio, sottovalutato racconto sulla violenza strisciante

L’anno seguente il regista statunitense realizza Talk Radio (1988), intrigante, sottovalutata pellicola che ruota intorno alla figura di Barry Champlain (Eric Bogosian), un conduttore radiofonico ebreo dalle idee liberali che ogni sera raccoglie nel suo programma le voci degli americani. Dinanzi alle loro paure e difficoltà, Barry, arguto e dal brillante eloquio, dispensa consigli schierandosi sempre dalla parte dei più deboli. L’uomo ricorre spesso a dei toni taglienti e impetuosi. Ed è ciò che finisce per attirare le “attenzioni” di alcuni haters, tra cui un sedicente gruppo neonazista che lo minaccia di morte. La situazione, purtroppo, sarà destinata ad una tragica evoluzione.

Rifacendosi alla vera storia del conduttore radiofonico Alan Berg – assassinato nel 1984 a Denver da alcuni neonazisti – e traendo ispirazione sia dal libro di Stephen SingularTalked to death: the life and murder of Alan Berg’, che dall’adattamento teatrale di quest’ultimo realizzata dallo stesso Bogosian (qui anche co-sceneggiatore della pellicola), Stone imbastisce un racconto teso e impietoso attraverso cui lascia emergere in tutta la propria brutalità la violenza strisciante che pervade la società americana.

Lo stile adottato dal regista è come sempre aspro e diretto. Talk Radio è giocato su ritmo e dialoghi serrati, ed è affidato ad un impianto teatrale che dà risalto, in funzione allusivamente oppressiva, all’isolamento del protagonista Barry. L’interpreta un impeccabile Eric Bogosian, meritatamente premiato al Festival del cinema di Berlino 1989 con l’Orso d’argento per il miglior contributo singolo. Da segnalare anche l’eccellente doppiaggio italiano di Roberto Chevalier, vincitore del Nastro d’argento 1990.

Il secondo capitolo della trilogia del Vietnam: Nato il quattro luglio 

Nel 1989, Oliver Stone torna ad affrontare il tema della guerra del Vietnam con Nato il quattro luglio, commovente pellicola tratta dall’omonimo libro autobiografico di Ron Kovac.

Suggestionato dalla retorica patriottica e bellicista, il giovane Ron (interpretato da un intenso, convincente Tom Cruise, qui candidato all’Oscar come miglior attore protagonista) parte volontario per il Vietnam per combattere i comunisti. Tuttavia, trascorsi pochi mesi, il ragazzo, dopo essere stato messo dinanzi all’orrore della guerra, subisce una ferita alla spina dorsale che ne provoca la paralisi.

Tornato in patria pensando di essere accolto da eroe, Kovac è chiamato a fare i conti non soltanto con l’assenza delle istituzioni e l’indifferenza della gente comune, ma anche con i fantasmi degli innocenti morti durante i combattimenti. A ciò si aggiungono i sensi di colpa per l’involontaria uccisione del compagno d’armi William Wilson (Michael Compotaro).

Sentendosi ingannato, incompreso e abbandonato, Ron dà inizio ad un doloroso confronto con i propri demoni che lo porta alle soglie dell’autodistruzione. Ne riemergerà soltanto quando, presa coscienza dell’assurdità della guerra e chiesto perdono alla famiglia dello stesso Wilson, saprà dare un senso alla propria esperienza aderendo con convinzione alla causa pacifista.

Sulla scia di Platoon, Stone porta avanti la sua narrazione antimilitarista mettendo in scena un vibrante e indignato racconto che dalla foresta infernale del soldato Chris si sposta nell’inferno esistenziale del reduce Ron. Non è solo il suo corpo a mostrare i segni della guerra, ma anche la sua anima. Un’anima lacerata da ciò che ha visto laggiù, in quella guerra prospettatagli come giusta e necessaria, e che d’un tratto scopre essere considerata come lontana, incomprensibile e sbagliata. Sbagliato anche lui, dunque, scomodo emblema da allontanare, da nascondere se possibile.

Lasciatemi così, come una cosa posata in un angolo e dimenticata”, scriveva Ungaretti in una struggente poesia. Posato in un angolo e dimenticato anche Kovac, buttato nel fondo di un fatiscente ospedale (a cui il governo ha tagliato i fondi) dove vengono raccolti come rottami i reduci feriti. È attraverso la penombra di morte in cui viene presentata questa sorta di girone dantesco lurido e claustrofobico – dove i topi scorrazzano tra i letti e gli escrementi riempiono i pavimenti – che Stone mostra l’ipocrisia di quell’America che usa i suoi figli dapprima attirandoli con un patriottismo tronfio e quindi abbandonandoli al proprio destino.

È quel che accade anche a Kovac, alla cui presa di coscienza il cineasta affida, come già nei suoi precedenti lungometraggi, il compito di svelare la verità nascosta dietro narrazioni ipocrite e propagandistiche.

L’amarezza per l’inganno (“Sono andato in Vietnam per fermare il comunismo, e abbiamo massacrato donne e bambini!”) si somma così al dolore per le ferite al fronte, finendo per trasformare il protagonista nell’emblema di una generazione perduta, ma anche in un simbolo di lotta e rinascita. Ed è proprio in questa valenza paradigmatica che Nato il quattro luglio trova la sua forza comunicativa. Una forza che nel 1990 lo porta a vincere, tra gli altri, quattro Golden Globe e due Oscar per la miglior regia ed il miglior montaggio.

Da The Doors al film-inchiesta JFK – Un caso ancora aperto

Nel 1991, dopo aver girato The Doors, film che ripercorre la storia della mitica rock band e del suo carismatico leader Jim Morrison (impersonato da Val Kilmer), Oliver Stone torna ad aprire una delle pagine più nere della storia americana con JFK – Un caso ancora aperto, pellicola legata all’omicidio del presidente John Fitzgerald Kennedy, avvenuto a Dallas il 22 novembre 1963.

Riprendendo le indagini svolte da Jim Garrison (qui interpretato da Kevin Costner), procuratore distrettuale di New Orleans, Stone propone la tesi secondo la quale l’omicidio dello stesso Kennedy, lungi dall’essere stata opera del solo Lee Harvey Oswald (Gary Oldman) – così come dichiarato dalla Commissione Warren, all’epoca incaricata di far luce sul caso -, sarebbe stato il risultato di una ben più ampia cospirazione frutto di un intricato coacervo di interessi che, a partire dai servizi segreti, sarebbe giunto sino alle più alte istituzioni governative.

In JFK la perversione del potere raccontata dal regista newyorkese nelle sue precedenti pellicole sembra toccare il suo punto più alto. Per Stone l’attentato a Kennedy è l’attentato al sogno americano. Ed è per questo che il cineasta parla apertamente di colpo di Stato puntando forte il dito contro l’establishment. Lo fa con un racconto di più di tre ore che fila diritto senza un attimo di respiro. Flashback, ricostruzioni dettagliate e immagini di repertorio si susseguono incessantemente grazie ad un montaggio ultradinamico che cattura lo spettatore sino alla fine. Musiche e fotografia concorrono efficacemente alla creazione di un’atmosfera emotivamente coinvolgente.

JFK riesce nell’intento di risvegliare l’opinione pubblica sull’argomento, suscitando polemiche e dibattiti che culminano nel 1992 nella nomina da parte del Congresso americano di una commissione incaricata di rivedere i documenti relativi al caso Kennedy.

Quanto all’aspetto strettamente cinematografico, JFK riscuote un successo dirompente che trova un ottimo riscontro al botteghino e agli Oscar 1992, dove ottiene due statuette per la migliore fotografia ed il miglior montaggio. Oliver Stone, da par suo, viene premiato per la miglior regia ai Golden Globe 1992.

JFK, ad oggi, può considerarsi una delle vette cinematografiche del regista statunitense.

Tra cielo e terra, ultimo atto della trilogia del Vietnam

Incassato il grande successo di JFK, nel 1993 Oliver Stone torna per l’ennesima volta al conflitto vietnamita con Tra cielo e terra, complesso, struggente lungometraggio dalle venature melodrammatiche tratto dalla vera storia di Le Ly Hayslip, autrice delle due autobiografie ‘Quando cielo e terra cambiarono posto’ (1989) e ‘Figlia della guerra, donna di pace’ (1993).

Le Ly (qui interpretata da Hiep Thi Le) è una giovane vietnamita che vive in un ameno villaggio rurale dove si coltiva il riso e si seguono gli insegnamenti buddisti. Allo scoppio della guerra, la ragazza decide di schierarsi con i vietcong, ma dopo essere stata catturata e torturata dai soldati sudvietnamiti, viene creduta una loro collaborazionista. Per tale ragione, Le Ly, dopo essere stata stuprata da due soldati vietcong, si trova costretta ad abbandonare il suo villaggio.

Trasferitasi a Saigon con la madre (Joan Chen), la ragazza inizia a lavorare come domestica per un ricco uomo sposato del quale resta incinta. Cacciata dall’abitazione di quest’ultimo e spedita a Da Nang, Le Ly, dopo aver dato alla luce un bambino, si barcamena tra contrabbando e prostituzione. Qui conosce il marine Steve Butler (un ottimo Tommy Lee Jones) che la sposa e la porta con sé a San Diego. Ma dopo un iniziale periodo di felicità, il matrimonio va in crisi a causa dei fantasmi della guerra che perseguitano l’uomo. Le Ly, perciò, sarà costretta ad affrontare nuovi dolori.

Oliver Stone realizza la sua trilogia del Vietnam con un racconto che invertendo i punti di vista dei precedenti Platoon e Nato il quattro luglio, si pone nella prospettiva vietnamita attraverso le vicende della protagonista.

È attraverso la sua parabola esistenziale che il cineasta rappresenta lo smarrimento di un popolo travolto dalla guerra e diviso dalla mano forestiera.

Lo sguardo di Stone è impietoso. A finire sotto la sua lente d’ingrandimento sono le violenze e i soprusi di tutte le parti in campo: americani, sudvietnamiti, vietcong.

È in questo caos che si muove Le Ly, strappata alla pace del suo villaggio (“il villaggio più bello del mondo”) e scaraventata in un inferno di solitudine e sfruttamento; impegnata in una continua lotta per la sopravvivenza da affrontare restando sempre più sospesa – a metà tra cielo e terra – tra la sua cultura d’origine e quella “importata” dalle forze straniere.

Si tratta di un contrappunto crescente che, partendo dal lontano Vietnam, finisce per arrivare in quei supermarket di San Diego, dove lo straniamento della protagonista funge da punto d’incrocio tra materialismo occidentale e spiritualità orientale. Quella spiritualità declinata nella dottrina buddista a cui Stone affida il suo messaggio di pace e perdono.

Il tutto all’interno di un’opera esteticamente risaltata dall’eccellente fotografia di Robert Richardson – impeccabile nel cogliere i cromatismi saturi dei paesaggi rurali (si tratta della campagna thailandese) – e dalle musiche delicate ed eleganti di Kitarō, qui vincitore del Golden Globe 1994 per la migliore colonna sonora originale.

Mass-media e violenza: Assassini nati – Natural Born Killer

Nel 1994 Oliver Stone esce nelle sale con Assassini nati – Natural Born Killer, esplicito, convulso lungometraggio imperniato su Mickey (Woody Harrelson) e Mallory (Juliette Lewis), una coppia di serial killer che, scorrazzando con la propria auto nell’America rurale, fa fuori più di cinquanta persone in tre settimane. Catturati e messi in prigione, i due vengono contattati dal cinico giornalista Wayne Gale (Robert Downey Jr.) che fa di loro delle autentiche star televisive.

Basato su una sceneggiatura scritta da Quentin Tarantino – ampiamente modificata, non senza strascichi polemici, dallo stesso Stone -, Assassini nati costituisce un’allucinata, delirante riflessione sul rapporto tra violenza e media, messa in scena con un voluto, straniante tono satirico.

Il regista statunitense ricorre, sotto l’aspetto formale, ad uno stile sperimentale che unisce vari registri (dalla sit-com ai cartoons) e si affida – estremizzando il discorso intrapreso con JFK – ad un montaggio velocissimo che mescola vorticosamente – sfiorando soglie subliminali – immagini dai formati diversi.

Ne scaturisce un frenetico, disturbante racconto che, tra mitopoiesi mediatica e fascinazione del male, sembra voler richiamare lo spettatore ad una sorta di responsabilizzazione dello sguardo.

Quasi inevitabilmente, Assassini nati finisce con lo scatenare critiche e polemiche. Ciò, tuttavia, non impedisce alla pellicola di ottenere un buon riscontro di pubblico e di vincere al Festival di Venezia 1994 il Leone d’argento – Gran premio della giuria a Oliver Stone e il Premio Pasinetti a Juliette Lewis.

Il secondo capitolo della trilogia dei presidenti americani: Gli intrighi del potere – Nixon

Nel 1995, a quattro anni di distanza da JFK, Oliver Stone torna ad occuparsi della figura di un presidente americano con Gli intrighi del potere – Nixon, biopic sul discusso Richard Nixon (qui interpretato da Anthony Hopkins).

Il regista ripercorre le tappe più importanti della vita del 37esimo presidente Usa ricorrendo ad una serie di flashback. Parte dalla sua giovinezza – segnata dalla morte di due fratelli – per arrivare alle dimissioni legate allo scandalo Watergate. Interseca le controverse vicende politiche con la dimensione privata. Media l’esercizio di potere col ricorso all’introspezione. Contempera in questa maniera il suo tipico j’accuse col ritratto di un uomo tormentato. Un uomo che finisce per assumere i tragici connotati di un personaggio shakespeariano.

Il risultato è un sorprendente, intrigante racconto sospeso tra analisi storica e venature intimiste che certamente avrebbe meritato maggior fortuna. Ciò nonostante, Gli intrighi del potere – Nixon ottiene quattro nomination agli Oscar 1996, tra cui quella per il miglior attore protagonista ad Anthony Hopkins.

Oliver Stone e il noir: U Turn – Inversione di marcia

Nel 1997 Stone si cimenta in un noir dalle tinte pulp realizzando U Turn – Inversione di marcia, pellicola tratta dal romanzo ‘Come cani randagi’ di John Ridley, in cui mette in scena un racconto giocato sulla diade avidità/violenza e basato sulle grottesche vicende dello sbandato Bobby Cooper (Sean Penn).

Mentre si trova in viaggio verso Los Angeles per saldare un debito col terribile mister Arcadij (Valery Nikolaev), l’uomo è costretto da un guasto all’auto a fermarsi a Superior, un paesino sperduto nel deserto dell’Arizona. Qui s’imbatte in una serie di personaggi singolari, tra cui l’avvenente Grace (Jennifer Lopez) e il suo ricco marito Jake (Nick Nolte). Quando quest’ultimo propone a Bobby di uccidere Grace, l’uomo accetta suo malgrado. Ma al momento dell’esecuzione si fa convincere dalla stessa Grace a far fuori Jake. Per Bobby è solo l’inizio di una serie di guai sempre più grossi.

Ogni maledetta domenica – Any Given Sunday, la parabola sportiva di Oliver Stone

A distanza di due anni da U Turn, Oliver Stone realizza Ogni maledetta domenica – Any Given Sunday (1999), pellicola che gravita intorno al personaggio di Tony D’Amato (Al Pacino), leggendario allenatore della squadra di football americano dei Miami Sharks.

Dopo la morte dell’anziano proprietario, il team attraversa una crisi di risultati che rischia di escluderlo dai play-off. Ciò è causa degli attriti tra lo stesso Tony – ritenuto ormai superato – e Christina (Cameron Diaz), la nuova manager che ha ereditato la squadra dal padre. Come se ciò non bastasse, il coach deve fronteggiare alcuni problemi di spogliatoio, tra cui l’infortunio della stella della squadra, ‘Cap’ Rooney (Dennis Quaid), e l’esuberanza del giovane Willie Beamen (Jamie Foxx), un giocatore tanto talentuoso quanto indisciplinato.

Con Ogni maledetta domenica, Oliver Stone mette in scena una parabola sportiva dall’evidente valenza allegorica: partite che assumono toni da battaglia, stadi trasfigurati in campi di combattimento.

È tra queste immagini di lotta, sangue e sudore che l’autore imbastisce una storia in cui va in scena la crisi personale di Tony D’Amato. Una crisi che sembra sovrapporsi a quella della squadra da lui diretta, e che pare risaltarsi nell’incrocio generazionale tra lo stesso coach e alcuni giovani personaggi. Perché se nella contrapposizione con l’avida e cinica Christina emerge quella concezione affaristica che tutto riduce a business e profitto (Miami Sharks compresi), è nel confronto col riluttante Willie (paradigma di una più diffusa cultura individualista) che il mondo di D’Amato – fatto di valori che sembrano essere non più condivisi – rischia d’implodere. Il divismo, il mito della ricchezza e la rincorsa al successo, infatti, paiono aver snaturato la visione dello sport come emblema di dedizione e solidarietà.

Insomma, per l’esperto allenatore sembra giunta l’ora di farsi da parte. Eppure non sarà così. Perché, proprio grazie al burrascoso rapporto col giovane quarterback, D’Amato troverà nuove motivazioni. Quelle stesse motivazioni che aiuteranno Willie “a fare squadra” e a comprendere finalmente l’importanza dell’altruismo e del sacrificio.

Oliver Stone realizza una pellicola coinvolgente e appassionante, sospesa tra critica sociale (su tutti l’egoismo e la superficialità dilaganti) e racconto di formazione. Il film – affidato ad un montaggio frenetico che si esalta nelle sequenze agonistiche – si carica di pathos grazie ad una colonna sonora vigorosa e incalzante. Ma è nel commovente discorso rivolto da D’Amato ai suoi uomini prima del match più importante che il lungometraggio racchiude il suo momento più iconico.

È tutto ciò che contribuisce in maniera decisiva al grande successo commerciale di Ogni maledetta domenica – Any Given Sunday, pellicola ormai assurta ad autentico cult del cinema sportivo.

Tra fiction e documentari: il terzo millennio di Oliver Stone

L’entrata nel terzo millennio coincide con un arricchimento delle attività di Oliver Stone che affianca al suo lavoro di regista di cinema fiction, quello di autore di documentari. Tra questi, alcuni sono incentrati su dei leader politici stranieri lontani dalle politiche di Washington.

Stone comincia nel 2003 con Comandante, interessante docufilm ricavato da una lunga, amichevole conversazione da lui stesso intrattenuta con il mitico leader cubano Fidel Castro. Nello stesso anno, il cineasta statunitense realizza Persona non grata, opera con cui, dopo essersi recato sui luoghi del conflitto ed aver incontrato i rappresentanti politici delle parti opposte, offre il proprio punto di vista sulla questione israelo-palestinese.

Nel 2004, dopo aver realizzato il documentario Looking for Fidel – una sorta di sequel del già citato Comandante -, Stone torna al cinema di finzione con Alexander, ambizioso e magniloquente kolossal in cui si narrano le gesta e i tormenti interiori di Alessandro Magno (Colin Farrell), il leggendario condottiero macedone vissuto tra il 356 a.C. e il 323 a.C..

World Trade Center: l’omaggio ai caduti e agli eroi dell’11 settembre 2001

Due anni più tardi, il regista statunitense abbandona i toni polemici a lui soliti per realizzare World Trade Center (2006), pellicola imperniata sull’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.

Il regista statunitense rende omaggio alle vittime e agli eroi di quel terribile evento con un lungometraggio basato su di una storia vera. È quella del sergente John McLoughlin (Nicolas Cage) e dei suoi colleghi Will Jimeno (Michael Peña) Dominick Pezzulo (Jay Hernandez), tre poliziotti newyorkesi che, accorsi con la propria squadra sul luogo della tragedia, rimangono imprigionati tra le macerie del crollo della prima delle Torri Gemelle. Dopo che Pezzulo rimane ucciso dal crollo della seconda torre, McLoughlin e Jimeno sono costretti a trascorrere delle lunghe, interminabili ore tra i detriti, giungendo allo stremo delle forze. Quando le speranze sembrano ormai perse, i due vengono miracolosamente ritrovati e messi in salvo da una squadra di soccorso guidata da Dave Karnes (Michael Shannon).

John McLoughlin e Will Jimeno faranno parte di quelle sole venti persone estratte vive dalle rovine del World Trade Center.

W., l’ultimo capitolo della trilogia dei presidenti americani

A distanza di due anni da World Trade Center, Stone compie la sua trilogia dei presidenti americani (i primi due erano stati JFK e Richard Nixon) realizzando W. (2008), biopic di George W. Bush (Josh Brolin), controverso capo della Casa Bianca dal 2001 al 2009.

Giocando nuovamente tra montaggio frenetico e dialoghi serrati, ed imperniando il racconto intorno alle decisioni legate alla guerra in Iraq del 2003, il regista ripercorre con una serie di flashback alcuni episodi della vita del protagonista mettendone in evidenza fragilità e dipendenze. Ne emerge una figura debole e inadeguata, in costante competizione col fratello Jeb (Jason Ritter) e afflitta da un senso d’inferiorità nei confronti del padre George Bush senior (James Cromwell). Quel padre, già presidente degli USA dal 1989 al 1993, che avrebbe preferito vedere lo stesso Jeb occupare il suo posto all’interno dello Studio Ovale.

Da A sud del confine a Wall Street – Il denaro non dorme mai

L’anno seguente esce A sud del confine, interessante documentario con cui Stone, prendendo le mosse dal Venezuela bolivariano del presidente Hugo Chavez – di cui viene proposto un attento ritratto in netta contrapposizione alla narrazione dei media filo-statunitensi -, esplora quell’America Latina interessata dalla nascita di vari governi di stampo socialista. Nell’occasione il regista, oltre allo stesso Chavez, incontra vari leader sudamericani, tra cui gli allora presidenti di Argentina e Brasile, Cristina Kirchner e Luiz Inacio Lula da Silva.

Presentato fuori concorso alla 66esima Mostra del cinema di Venezia, A sud del confine, viene distribuito in Italia successivamente alla morte di Hugo Chavez col titolo Chávez – L’ultimo comandante.

Nel 2010 Stone realizza Wall Street – Il denaro non dorme mai, film con cui attualizza quelle profonde critiche al capitalismo finanziario già mosse nel 1987 con il suo Wall Street, concentrandosi questa volta sul mondo delle banche d’affari.

Per questo interessante sequel, il regista ripesca l’ambigua figura di Gordon Gekko, affidandosi nuovamente al volto del sempre efficace Michael Douglas. Lo affianca un convincente Shia LaBeouf, che qui veste i panni dello sveglio Jacob “Jake” Moore, un giovane broker – fidanzato di Winnie (Carey Mulligan), figlia dello stesso Gekko – che, sullo sfondo della crisi finanziaria del 2008/2009, si muove in un ambiente infestato da avidi speculatori per cercare di portare avanti il suo progetto d’investimento legato allo sviluppo di alcune fonti d’energia alternativa. Il ragazzo, perciò, sarà chiamato a percorrere una strada decisamente in salita e disseminata di insidiosi trabocchetti.

Da Le belve a Snowden, passando per Oliver Stone – USA, la storia mai raccontata

Dopo essere uscito nelle sale nel 2012 con Le belve, turbinoso action thriller che vede come protagonisti Chon (Taylor Kitsch) e Ben (Aaron Taylor-Johnson), una coppia di coltivatori di marijuana alle prese con un pericoloso cartello della droga guidato da Elena Sanchez (Salma Hayek), il regista americano realizza la docu-serie Oliver Stone – USA, la storia mai raccontata (2012/2013), in cui, attraverso dieci episodi – più un prequel in due puntate relative al periodo 1900-1940 -, ripercorre criticamente la storia del suo Paese a partire dalla Seconda Guerra Mondiale sino all’era di George W. Bush e Barack Obama.

Nel 2016 il cineasta americano torna sul grande schermo con Snowden, intrigante biopic dalle venature thriller basato sulla vera storia dell’ex collaboratore di CIA e NSA, Edward Snowden (qui impersonato da un convincente Joseph Gordon-Levitt), e sulle sue clamorose rivelazioni in ordine ad un illegittimo sistema sorveglianza di massa realizzato da parte del governo statunitense. Per il regista è l’occasione per denunciare nuovamente gli intrighi e le perversioni di un potere che nulla ha a che vedere con gli interessi della gente comune.

Tratto dai libri ‘The Snowden Files’ di Luke Harding e ‘Time of the Octopus’ di Anatoly Kucherna, Snowden rappresenta ad oggi l’ultimo lungometraggio fiction del regista statunitense, il quale negli anni seguenti si dedica esclusivamente all’attività documentaristica.

I documentari del periodo più recente: The Putin Interviews, JFK Revisited e Nuclear Now

Stone, infatti, realizza nel 2017 la miniserie televisiva di quattro puntate The Putin Interviews – in cui si lascia andare ad un lungo colloquio-intervista con il presidente russo Vladimir Putin -, a cui segue quattro anni più tardi JFK Revisited: Through the Looking Glass (2021), una sorta di opera di chiusura del discorso intrapreso trent’anni prima con JFK – Un caso ancora aperto, con cui rafforza la tesi della cospirazione arricchendola di testimonianze e documenti desecretati, acquisiti successivamente al film del 1991.

L’ultimo lavoro di Oliver Stone risale al 2022 ed è intitolato Nuclear Now, documentario focalizzato sulle qualità e i benefici dell’energia nucleare.

Ripercorrendone la storia e cercando di fugare i dubbi e timori legati alla sua cattiva reputazione, il regista fornisce dati, statistiche e pareri degli esperti per dimostrare come questa rappresenti una via davvero pulita, economica e sicura per emanciparsi dai combustili fossili ed invertire i catastrofici effetti del cambiamento climatico.

 

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