L’inizio di Kalak di Isabella Eklöf, presentato in concorso al 41° Torino Film Festival, è quanto di più disturbante ci possa essere: un padre avvicina il figlio ventenne addormentato sul divano per praticargli una fellatio dopo avergli accarezzato il membro in erezione, chiedendosi come possa esserci qualcosa di così duro e morbido allo stesso tempo.
Successivamente, con una ellissi temporale, vediamo lo stesso figlio, Jan (Emil Johnsen), una quindicina di anni più tardi, a una lezione di danza groenlandese pitturarsi il volto con i colori sacri della nazione Inuit. Il rosso, simboleggiante il sangue e la vita, il nero il regno delle tenebre e il bianco a ricordare gli antenati.
Fuggire da se stessi per scrollarsi di dosso il fardello del passato
Jan, infatti, si è costruito una famiglia, fa l’infermiere presso un ospedale e si è trasferito dalla natia Copenaghen a vivere con la moglie Lærke (Asta Kamma August) e i due figlioletti in Groenlandia, lontano dal padre e da quella violenza subita in giovane età. Il suo desiderio è quello di scrollarsi di dosso un passato che rappresenta, per lui, un fardello troppo pesante da portare, provando a integrarsi nella nuova realtà, imparando la lingua, mangiando carne di foca e di balena e immergendosi completamente nella cultura locale. Vuole diventare a tutti gli effetti un “kalak”, termine ambiguo che ha due accezioni, una positiva, cioè “vero” groenlandese e una negativa che sta per “sporco” groenlandese.
Jan ama la moglie e i figli, ma il suo passato gli ha procurato ferite difficili da rimarginare. Cerca di trovare conforto in avventure extraconiugali con tre donne del posto, ma il giorno in cui riceve una lettera del padre che gli comunica di avere poco da vivere a causa di un cancro alla gola, entra in crisi perdendo, complice anche un grave incidente occorso alla figlia più piccola, ogni certezza. Sprofonda così in uno stato di sofferenza mentale che cerca di alleviare con la droga sottratta sul posto di lavoro.
Una gabbia in cui si muovono i vari personaggi intrisi di dolore e solitudine
Kalak, tratto dal libro autobiografico del danese Kim Leine, è un’opera che parla di dolore ma, soprattutto, di solitudine. Quella che Jan cerca disperatamente di colmare con i rapporti con le quattro donne. Quello con la moglie è il più stabile e sicuro: una compagna ma, soprattutto, un’amica che comprende e attende. I legami con le donne native rappresentano, invece, tre diversi aspetti della natura che l’uomo deve colmare.
Il primo, quello con Karina (Berda Larsen) è un rapporto passionale, colmo di quella violenza sentimentale di cui Jan è intriso a causa del suo trauma. Al contrario, con la collega infermiera non c’è sesso ma una complicità derivante dal fatto che la donna, a conoscenza del progressivo degrado psicofisico di Jan, tenta di aiutarlo. Infine il rapporto con Nikolina, una giovanissima madre traumatizzata e impaurita, il cui dolore è così grande che viene rifiutato dallo stesso Jan, consapevole di non essere in grado di aiutare la ragazza e che la sua sofferenza impallidisce a confronto di quella di lei.
Isabella Eklöf, insieme a Kim Leine e a Sissel Dalsgaard Thomsen, con i quali ha curato la sceneggiatura, è brava a descrivere i vari personaggi, raccontandone le ferite interiori e la loro solitudine, accentuata dal paesaggio groenlandese, innevato e freddo, che rappresenta quasi una gabbia in cui si muovono, come fantasmi, i protagonisti.
Quella prigione della quale Jan riuscirà forse a liberarsi risolvendo definitivamente il rapporto devastante con il padre e assaporando sul viso la brezza primaverile della sua Copenaghen.
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