In occasione della sua presentazione al Italian Film Festival Berlin abbiamo incontrato Giacomo Abbruzzese e con lui abbiamo ripercorso i temi e le forme di un film alieno e perturbante. Disco Boy rivive nelle parole e attraverso lo sguardo del suo regista.
Presentato a Berlino, Disco Boy di Giacomo Abbruzzese si è aggiudicato l’Orso d’argento per il Miglior Contributo Artistico. Disco Boy ha inoltre vinto il premio come miglior film nella rassegna Bimbi Belli di Nanni Moretti dedicata ai migliori esordi del cinema italiano e ancora il premio Mario Verdone alla migliore opera prima italiana. Disco Boy è distribuito da Lucky Red.
Disco Boy di Giacomo Abbruzzese
La prima cosa che colpisce in Disco Boy è la relazione tra realtà e sogno, che è un po’ quella che esiste nella storia tra il giorno e la notte.
In realtà mi interessa non porre barriere tra il visibile e l’invisibile, tra il reale e il virtuale. Mi piacciono i film capaci di far circolare queste cose senza mettere delle etichette troppo pesanti come quando ci sono flashback o sequenze oniriche con connotazioni molto caricate. Questo perché, secondo me, nella vita a volte queste barriere non sono così nette. A volte sogniamo pensando che una certa cosa stia accadendo veramente, poi una volta svegli ci mettiamo un po’ a ritornare vigili e presenti. Talvolta ci accadono delle cose che non riusciamo immediatamente a spiegare e nel film mi interessa esplorare questa dimensione. Disco Boy ha dentro di sé questo tipo di metamorfosi. Tolta la scena d’apertura, che fa un po’ parte a sé, anticipando allo spettatore quello che sarà il senso del viaggio che faremo, la prima parte di Disco Boy procede in una maniera scarna, quasi “ documentaristica”, tipica di un certo cinema dell’est Europa per poi trasformarsi in qualcosa di diverso, un po’ come succede al protagonista. I film per me devono essere organici e vivi e non oggetti immobili.
La sequenza iniziale
La prima sequenza è tanto evocativa quanto funzionale a creare una struttura narrativa che in pratica fa sì che quello che vediamo funzioni su entrambi i piani, quello della realtà e quello del sogno. In più quella sequenza ti serve per creare l’onda emotiva della storia.
Sì, è il motivo per cui quella scena è posta lì.
Peraltro anche quella scena è in bilico tra due mondi perché quello che vediamo potrebbe anche essere l’oltretomba.
La prima volta che vediamo questi corpi abbiamo il dubbio che siano vivi o meno, salvo percepire che stanno respirando, che stanno dormendo. Da qui l’idea del film e della sua dimensione di sogno collettivo. Fare questo tipo di apertura, e in qualche modo annunciare la presenza dell’Africa, era importante per aiutare lo spettatore a entrare nel respiro del film.
Lo scarto tra giorno e notte, con le possibilità di infinito e di magico che quest’ultima porta, mi fanno pensare a Disco Boy come a una favola contemporanea. La sua struttura di certo lo è.
Assolutamente. Molto del mio cinema adotta questo stile di racconto, partire dal documento per andare verso una forma di astrazione che si apre all’utopia, al magico. In tutti i miei corti, da Arcipelago a Fireworks, da Stella Maris a I Santi, la dimensione fiabesca è forse ancora più evidente rispetto a Disco boy.
La panoramica che ci mostra il territorio
Dopo essersi arruolato nella legione straniera e aver raggiunto l’Africa il protagonista viene recuperato da un elicottero al termine della sua missione. La panoramica che ce lo racconta si apre sul territorio nella maniera in cui faceva Francis Ford Coppola in Apocalypse Now. A differenza del film americano a denunciare la rapacità dell’occidente su quelle terre non è il napalm bensì le ciminiere fumanti che compaiono sullo sfondo della lussureggiante foresta africana.
Sì assolutamente. Per tornare alla questione della fiaba, il fatto stesso che il film sia leggermente fuori dalla normale cronologia e abbia una dimensione di astrazione costante ha permesso alla storia di rimanere fuori dal tempo del mondo. Disco Boy è stato pensato più di dieci anni fa e oggi è più attuale che mai.
Il protagonista di Disco Boy di Giacomo Abbruzzese
Apparentemente interlocutoria, la sequenza che introduce il personaggio di Aleksei è invece esplicativa della sua natura più profonda. Il fatto di mostrarcelo in transito da un paese a un altro, dapprima mentre attraversa la dogana polacca, successivamente quando cammina per le vie di Parigi, ci dice della sua propensione a oltrepassare limiti e barriere. Come capita nelle favole Aleksei è una sorta di prescelto. Nessuno più di lui può essere adatto per l’esperienza extra corporea che l’attende. Peraltro in quanto orfano il protagonista si è dovuto confrontare da subito con la morte. C’era da parte tua questa accezione?
Sì certo, lo confermo. Quello che hai appena detto è molto giusto.
Peraltro la doppia A tatuata sul collo assume un valore simbolico, anticipando la doppia natura del protagonista, capace di far convivere dentro di lui più esistenze.
Mi piaceva molto quel tatuaggio non soltanto perché è quello che viene fatto in prigione a chi è orfano. A livello formale, infatti, il tema del doppio introduce la questione della simmetria. Il film è tutto composto da simmetrie sbagliate e in qualche modo rotte: da un lato Aleksei e Mikhail, dall’altro Jomo e Udoka: pensa, per esempio, agli occhi di questi ultimi, ma anche al corpo di Jomo quando nella danza cerimoniale lo vediamo ricoperto dei disegni tradizionali del Niger. Anche quelli riguardano sempre la questione del doppio e delle simmetrie. Disco Boy ne è costantemente attraversato.
Una simmetria rotta
Anche il montaggio che passa di colpo dall’Europa all’Africa individua una simmetria rotta, come la chiami tu. Peraltro in quello stacco si sente ancora di più la differenza tra Aleksei che lascia la propria terra per cercare un’altra vita e Jomo che decide di restare nel luogo natio per cercarlo di liberarlo dalla corruzione del suo governo. Quella è una simmetria rotta per eccellenza.
Assolutamente, Disco Boy è costruito così. Nella ricerca dei finanziamenti ho avuto alcune pressioni per scrivere il film con un montaggio parallelo tra le due storie. Mi sono battuto per non farlo, anche perché oggi mi sembra un linguaggio da serie televisiva, molto inflazionato. Volevo avere il tempo di presentare un mondo e di vivere il trauma di perdere un personaggio: Aleksei si assenta dalla storia in un modo che per lo spettatore risulta violento da vivere. Questo mi dava la possibilità di entrare in un altro mondo, quello del Niger Delta, di illustrarlo, creando poi un movimento di convergenza con quello di Aleksei. Le animazioni che dividono le tre parti del film raccontano questo in maniera puramente astratta: nella prima c’è una costellazione che sembra cristallizzarsi dopo una sorta di Big Bang. Nella seconda animazione invece queste luci si mettono in movimento in maniera magmatica, si mescolano, proprio per evocare l’interazione sommersa che avviene tra il mondo di Aleksei e quello di Jomo nella terza parte del film.
Ritrovarci di colpo di fronte all’Africa mette il nostro sguardo nella condizione di replicare la violenza con cui il mondo occidentale si approccia con quelle terre. È cosi?
Certamente. È per questa ragione che per raccontare l’Africa ho cominciato a farlo con la giornalista e non con Jomo. Il tipo di intervista e il modo in cui si reca dai rivoltosi, a bordo del motoscafo, ci dice di uno sguardo occidentale che rimane superficiale e coloniale.
La scena dell’intervista in Disco Boy di Giacomo Abbruzzese
Per la scena dell’intervista ai ribelli scegli dei colori accesi: la giornalista sfoggia una gonna gialla molto vistosa, i fuorilegge invece si coprono la faccia con dei fazzoletti rosso porpora, il che dà all’intero quadro un carattere più ludico che drammatico.
Spesso in questi casi i ribelli sono dei ragazzi giovanissimi: a un discorso a volte straordinariamente maturo, si aggiunge la dimensione del gioco, una leggerezza che coincide anche con un pizzico di inconsapevolezza sui rischi connessi a quello che stanno facendo. È la generosità della gioventù che li spinge ad andare avanti. Spesso questo tipo di gruppo o di guerriglia viene rappresentata semplicemente da uomini a volto coperto con cui è impossibile stabilire un minimo di empatia. Loro usano i passamontagna per evitare di farsi identificare ma questo a sua volta concorre a creare una distanza profonda. Volevo togliere loro la maschera per far capire che sono anche dei ragazzi giovanissimi, potenti e fragili. E che le loro azioni hanno una legittimità.
Nello specifico il fatto di usare dei colori non convenzionali per questo tipo di situazioni mette in campo un’artificialità tipica di un certo tipo di media, più desiderosi di fare uno scoop che di capire la realtà dei fatti.
I miei film sono costellati da elementi e situazioni che in realtà non sono esattamente come nel nostro mondo. C’è sempre un leggero scarto, una forma di astrazione, perché in realtà quello che trovo interessante nel cinema è costruire un mondo parallelo che risuona con il nostro. Non sono un amante dei fantasy e del linguaggio troppo codificato dei generi, ma amo una certa dimensione di astrazione, perché alla fine credo che comunque la gente voglia vedere un cinema bigger than life. Abbiamo purtroppo lasciato questo concetto a Hollywood, ignorando il desiderio della persone di alzare lo sguardo per trovare qualcosa di diverso rispetto al puro vissuto. Se così non fosse non ci sarebbe bisogno di andare al cinema, basterebbe farsi una passeggiata e osservare la propria vita. Ripeto, a me interessa il cinema capace di costruire uno scarto nella realtà e attraverso quello parlare delle nostre vite.
Le immagini dell’addestramento
Uno scarto visibile anche nel modo in cui costruisci le immagini relative all’addestramento militare di Aleksei, prendendo situazioni viste mille volte al cinema e che però tu rendi nuove per il modo in cui le giri. Mi riferisco per esempio all’uso dei campi lunghi in cui vediamo le reclute arrancare nel fango e arrampicarsi sopra gli ostacoli del percorso di guerra in una maniera più ridicola che vitalissima. L’effetto generale è quella di guardare delle figurine disumanizzate.
Sì, certo, perché l’allenamento e la formazione procedono verso una disumanizzazione in cui il soldato diventa parte di qualcosa in cui la sua volontà viene meno. D’altronde il principio stesso del diventare soldato presuppone l’annullamento della propria volontà, perché tu sei costruito per obbedire a degli ordini.
Disco Boy tra le altre cose racconta anche di giovani che cercano di trovare il proprio posto nel mondo. Tutti i personaggi sono in continuo movimento per riuscire a capire dove andare e da che parte stare. Una dimensione, questa, che appartiene anche a Jomo che pure ha deciso di rimanere nella terra in cui è nato.
Sì, è cosi. Il continuo movimento poi è una cosa che riguarda anche la mia esperienza di vita.
Il rapporto tra i personaggi e l’ambiente
Peraltro è come se Disco Boy raccontasse da una parte il fatto di essere soggiogati da una sovrastruttura molto più grande di noi e dall’altra di come in realtà il mondo sia attraversato da un’energia ancestrale che alla fine, e per fortuna, riesce ad avere la meglio sui condizionamenti esterni. La sequenza finale, con la danza tribale di Aleksei e Judoka in discoteca, rappresenta proprio questo. Il fatto poi che avvenga a Parigi, ovvero nel cuore della vecchia Europa, rende ancora più forte la sensazione dell’energia vitale che riesce a vincere la morte.
Sì, la tua è una chiave giusta.
Penso non sia una coincidenza che i personaggi sono tutti stranieri rispetto al mondo in cui vivono. Era questa una cosa che ti serviva per esprimere con più forza il loro stato di alienazione dallo spazio in cui vivono?
Sì, letteralmente, Disco Boy è composto in questo modo in senso estremo. Nel film nessuno attore recita nella lingua che parla: tutti hanno imparato il proprio testo a memoria foneticamente, volevo che la lingua fosse usata come se fosse musica.
La musica in Disco Boy di Giacomo Abbruzzese
A proposito della musica, la musica e i suoni sono importantissimi nel tuo cinema. In questo caso il sound elettronico per come hai montato il film concorre a creare un ulteriore scarto che a me ha ricordato molto quello presente nel film di Jean-Jacques Beineix e Leos Carax.
Jean-Jacques Beineix è un autore che non conosco mentre Carax è un regista per me importante: penso soprattutto a Holy Motors, a Les amants du Pont- Neuf, al cortometraggio Merde à Tokyo! Tra l’altro nel film c’è una reference involontaria: quando la montatrice di Carax ha visto il film mi ha detto: “non sapevo tu fossi amico di Leos!”. Quando le ho risposto di non conoscerlo lei mi ha fatto notare che Alex Dupont, ovvero il nome che l’istruttore militare assegna ad Aleksei nel corso dell’addestramento, in realtà è quello vero di Carax all’anagrafe. Io l’avevo usato senza saperlo, in Francia dire Alex Dupont è un po’ come in Italia dire Mario Rossi, il nome ricorrente per eccellenza.
Incredibile, ma fino a un certo punto perché, come dicevo, Disco Boy ricorda il cinema del regista francese.
Sì ma è del tutto involontario! Cionondimeno mi permette di fare un piccolo omaggio a un regista che stimo molto.
Diciamo che è un riferimento inconscio.
Oltre l’inconscio. Parlerei piuttosto di segni che vanno oltre noi.
La colonna sonora
Mi piacerebbe sapere qualcosa di più sull’uso narrativo della musica elettronica considerando che, per uso e suoni, è molto simile a quella utilizzata da Carax, Beinex e Besson agli inizi degli anni ottanta.
La colonna sonora è di Vitalic, un compositore francese di musica elettronica leggendario. È sempre stato la mia prima scelta per questo film. I miei corti e la sceneggiatura di Disco Boy gli erano piaciuti molto, quindi ha accettato di collaborare. Lui in generale non è un compositore per il cinema: lo aveva fatto solo una volta per Il ritorno di Kaspar Hauser e se non sbaglio i pezzi erano tutti pre-esistenti, aveva fatto solo degli aggiustamenti. In Disco Boy si trattava invece di comporre interamente la colonna sonora. Gli ho chiesto di creare alcuni pezzi prima che il film iniziasse le riprese e gli ho parlato del tipo di musica che stavo cercando: doveva essere qualcosa di abissale, ma capace di andare verso una verticalità, di accompagnare il percorso in qualche modo ascetico del personaggio, con una nota melancolica e lirica. Gli avevo inviato delle immagini e degli altri pezzi suoi come reference e lui dopo un po’ di tempo mi mandò tre, quattro composizioni originali. Le musiche prodotte erano così pertinenti a quello che stavo cercando che mi sono stupito, quasi commosso da com’è possibile avere una comunione così grande con un altro artista partendo da parole e immagini che si convertono poi in qualcos’altro, in questo caso nell’elaborazione di una musica. I pezzi li ho condivisi con la direttrice della fotografia, con Rogowski e la scenografa perché volevo che il film si impregnasse di queste musiche. In alcuni casi le abbiamo messe anche sul set mentre stavamo girando.
Alla maniera di Wes Anderson in Life Acquatic.
Preferisco dire alla maniera di Kubrick (ride, ndr). Gli altri pezzi sono stati fatti poi mentre montavamo. La creazione del film è stata assolutamente organica a quella delle musiche.
Il risultato è una colonna sonora perturbante e poetica come lo è il tuo cinema in cui ad andare in scena è il rimosso della nostra società.
Credo che la poesia sia mettere in contatto universi che ancora non lo sono, facendo scaturire da questa unione un’emozione sensoriale o intellettuale inedita. Una delle tante scommesse di Disco Boy consisteva nel fare un film di guerra con una musica elettronica di questo tipo.
L’interprete principale
Nella parte del protagonista mi sembra che Franz Rogowski sia l’attore più adatto a riprodurre lo scarto di cui parlavi prima. Il suo non è un corpo da eroe, ma la sua presenza riesce a dare corpo al mistero del film.
Ci tenevo moltissimo ad avere Franz Rogowski. Quando ho pensato per la prima volta a lui come Aleksei non era ancora così conosciuto, parliamo di più di cinque anni fa. Ho dovuto difendere questa scelta perché non era una scelta di cast che portava finanziamenti e – in un contesto dove era già complicato finanziare un film così – rischiava di rendere il montaggio finanziario ancora più difficile. Rogowski non era neanche un attore con la nazionalità di uno dei paesi coproduttori, quindi è stata veramente una scelta soltanto artistica. Disco Boy è stato finanziato esclusivamente sulla base della sceneggiatura e sui miei lavori precedenti.
Tornando a Rogowski, penso sia un attore capace di lavorare pienamente con tutto il corpo. Io ho una direzione d’attore molto fisica e si sposava bene con lui: era possibile fare un lavoro da scultore, concentrarci sulle posture, sul modo di camminare, di sedersi, persino di bere del personaggio. I suoi silenzi erano abitati da una fisicità, da un corpo che sembra già racchiudere in sé delle storie, una memoria. Con un altro attore non sarebbe stato possibile lavorare così di sottrazione.
Il modo di girare, anche oltre Disco Boy di Giacomo Abbruzzese
Prima hai accennato al tuo modo di girare i film. Potresti entrare un po’ più nel dettaglio?
A cominciare dai cortometraggi penso di aver esplorato soggetti diversi con una continuità di figure estetiche e tematiche che sono più che altro gli altri a farmi notare. Per me è in buona parte inconscia.
Per quanto riguarda il linguaggio cinematografico in senso stretto, cerco di avere un uso molto limitato della camera a mano. La uso solo quando è necessaria una rottura importante, altrimenti preferisco movimenti di macchina come i travelling, la steady cam e la camera fissa in cui sono io a dover creare una tensione, un movimento, lavorando di più in maniera coreografica nel rapporto tra attori e macchina da presa. Poi certamente le musiche e i suoni sono molto importanti nel mio cinema. Se ti faccio vedere Disco Boy prima e dopo il montaggio del suono, sembrano due film diversi. Per me il cinema è innanzitutto un’esperienza sensoriale e la costruisco durante le riprese, ma anche tanto in postproduzione. Il lavoro dopo le riprese è sempre molto lungo: abbiamo fatto sette mesi di lavoro per il montaggio immagine di Disco Boy, e poi almeno tre soltanto per il suono. Parliamo di tempi che ormai sono rari. Al contrario durante le riprese ho dovuto correre come un dannato perché avevo solo trentadue giorni, che è nulla per questo tipo di film. Per quanto riguarda i dialoghi, i miei sono spesso abbastanza letterari, non cercano una verosimiglianza assoluta col linguaggio orale di tutti i giorni. È una delle caratteristiche che permette poi di dare un livello di astrazione e costruire questo famoso mondo parallelo di cui parlavamo prima, nel quale ci possiamo specchiare. Il montaggio di un film mi piace che a volte sia di rottura, fatto anche di ellissi violente.
Puoi dire qualcosa di più sulla direzione d’attore?
È sicuramente molto fisica (ride). Un giorno su un set il papà di Gaia Girace – che era ancora minorenne quando interpretò la protagonista del mio corto i Santi – mi disse in napoletano: “Tu non si’ nu reggista, si’ nu preparatore atletico!“. Perché la facevo spesso correre prima dei take, in modo arrivasse a uno stato di sfinimento, di oblio di sé, che era utile secondo me all’interpretazione del personaggio. Cerco di portare gli attori al limite, al punto dove poi succede qualcosa di non previsto. Per arrivarci ogni volta adotto un percorso diverso. Dipende dal film e dal personaggio.
Il cinema di Giacomo Abbruzzese
Volevo chiederti se hai già in mente il tuo prossimo film?
Sì, sto lavorando alla sceneggiatura. Questa volta è un film ambientato in Italia e in qualche modo – se Disco boy è il mio film politico sulla Francia – questo sarà il mio film politico sull’Italia. Sempre che me lo facciano fare. Spero di poter girare all’inizio del 2025.
Parliamo del cinema che ti piace.
Il cinema che mi piace è un cinema che tocca qualcosa di universale. Se devo fare alcuni nomi, in Italia sono molto legato a Antonioni e Pasolini. Del cinema tedesco amo Herzog e Fassbinder, di quello francese Godard. Tra gli asiatici ti dico Tsai Ming-Liang. Tra gli anglosassoni Kubrick e Scorsese.