Anno: 2012
Durata: 90′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Israele
Regia: Rama Burshtein
Rama Burshtein, donna e regista israeliana, porta in concorso con Lemale Et Ha’Chalal una riflessione che ha il pregio di produrre stimoli opposti e contraddittori, giungendo a tracciare un credibile tassello di cognizione attorno all’amore e alle sue vie di espressione. Il terreno che alimenta e nel quale sviluppa un’analisi estremamente raffinata di tale sentimento è la ultraconservatrice e ‘barricata’ comunità ebraica di Tel Aviv, nella quale scopriamo sin dalle prime battute la ‘battaglia’ che socialmente si combatte attorno alla solitudine, aberrata-abolita appena la possibilità di annientarla è pronta: giovani ragazze e ragazzi in età da fidanzamento vengono legati-combinati dalle rispettive famiglie in incontri preconfezionati nei quali, senza una reale imposizione, inconsciamente si autoinduce il seme del legame che, specie per le donne, rappresenta l’unica chiave sociale di affermazione e di senso della rispettiva esistenza.
Shira, la 18enne figlia minore di una famiglia ultraortodossa, vive con emozione la scoperta del suo futuro fidanzato non ancora conosciuto, spiato assieme alla madre al supermercato, previa telefonata confermativa della sua identità. Addentrandoci nella comunità religiosa e nella famiglia della piccola donna, veniamo a contatto con le altre figure femminili – prima tra tutte, la bella ed incredibilmente rifiutata zitella, nell’augurio (insieme commiserazione del suo status) rivoltole, ad ogni fidanzamento giunto a destinazione, di poter essere la prossima – che danno una luce contrastante di pienezza e limitatezza, quali esseri unicamente concepiti per creare (nella famiglia e per mezzo dei figli) continuità non solo alla stirpe, ma alla stessa ‘elite religiosa’ e ai suoi riti dal sapore costipato e ‘ossessivo’, che la Burshtein compiace con quadri-stilizzazioni artificiose, specie nei canti e nelle cerimonie-adunate della comunità, parecchio ‘fraintese’ (almeno per me che non condivido quello sguardo) nel riconoscimento implicito che da quell’occhio se ne ricava.
Shira e il suo sogno (astratto) d’amore, troverà la strada sbarrata dal caso: la sorella maggiore Ester, sposata e in attesa, muore improvvisamente, per complicazioni nel parto. In virtù di una necessità sopravvenuta (dare una nuova moglie al marito vedovo Yochay e una mamma al piccolo nipote, evitando che i due lascino Tel Aviv), arriva il calcolo premeditato: unire Shira a Yochay. Ciò che per la giovane donna appare la fine di un sogno, e per Yochay un ‘dovuto’ da soddisfare, sarà il primo sguardo diverso che l’uno rifletterà sull’altro, l’avvio di una reciproca e contrastante attrazione. Le trasversie materiali a tale unione e le opposizioni contraddittorie e inconsce di Shila nel riconoscere il proprio sentimento, nel fargli strada all’interno di se stessa, cedendo soltanto alla fine alla presa d’atto di un legame, generato-alimentato-stimolato da sguardi, parole, confronti capaci di imporsi sopra tutto: ambiente, terzietà umana, differenza anagrafica, paura. L’amore vero spaventa, se ne avverte tutta la sua verità e forza, la capacità di abbandono e di perdita di se stessi che genera, nella meraviglia, troppa, nell’incredulità-terrificante di essere stati toccati da tale pienezza e dal timore di non poterla sostenere.
La Burshteinriesce non solo a renderci palpabile la nascita di un sentimento autentico, ma lo fa sviluppare e vivere di vita propria all’interno di regole che si pongono il cinico obiettivo di pianificare anche l’esistenza emotiva degli individui. In tale capacità si traduce l’atipicità e il merito di attenzione di questa pellicola. Con tale obiezione: l’amore supera sì tali ingabbiamenti, ma la predeterminazione-costipazione-controllo-indirizzamento di gestioni esistenziali deve essere abiurato a prescindere: la Burhstein, invece, pare giustificare quelle regole, dare loro una possibilità di ‘redenzione’ (solo remota e indiretta, in realtà). L’attesa trattenuta dai due innamorati viene saggiamente (ma a scapito del voyeurismo di noi spettatori) risolta fuori campo. Il film si chiude prima. Scelta stilistica che salva un impianto troppo attratto da atmosfere ‘patinate’. Troppo.
Maria Cera