Con Lubo Giorgio Diritti realizza il suo film più classico per raccontare la storia di un uomo costretto a rinunciare a se stesso per sfuggire all’iniquità sociale del proprio tempo. Di Lubo abbiamo parlato con il regista del film.
Lubo, il film diretto da Giorgio Diritti e presentato in concorso a Venezia, è adesso al cinema con 01 Distribution.

Giorgio Diritti e il suo Lubo
Lubo esplora temi cari al tuo cinema come quello relativo a persone che vivono all’interno di una comunità in condizioni di svantaggio. Così erano gli Indios di Un giorno devi andare; lo era Ligabue in Volevo nascondermi così come Philippe ne Il vento fa il suo giro. La storia di Lubo e della sua famiglia, Janish perseguitati a causa dello loro etnia nell’Europa dell’Eurogenetica, conferma il tuo interesse per questo presupposto.
Sono tutti film con punti di contatto tra di loro. Evidentemente è una tematica che mi è particolarmente cara anche se poi le singole storie si accentrano su percorsi diversi. In alcuni casi la scelta delle persone deriva da motivi personali mentre in altri, dall’interesse per i fatti della Storia e come succede in Lubo, per le leggi sbagliate che la Svizzera ha imposto ai Jenish.
L’impatto della Storia nella vita di Lubo Moser è simile a quello che capita ai protagonisti de L’uomo che verrà. Anche in Lubo il privato di una famiglia viene disintegrato dalla tracotanza dell’uomo in guerra contro i propri simili.
Sì, anche qui ci sono punti di contatto. Ne L’uomo che verrà c’è la dimensione della guerra che ruba la vita a migliaia di persone. Le cronache di quest’ultimo anno confermano la dimensione di assurdità presente nei conflitti bellici. In Lubo la particolarità della situazione è data anche dalla scelta a priori di leggi discriminatorie per andare a modificare l’esistenza della persone condizionandola fortemente. Dunque mi sembrava interessante approfondire questo aspetto alla luce di come un’azione negativa rischi di sviluppare una catena del male destinata ad andare avanti nel tempo generandone dell’altro.

Lubo di Giorgio Diritti e la sua contemporaneità
La contemporaneità di una storia come quella di Lubo è quella di mostrare come, partendo da principi condivisibili come quello di educare le persone più svantaggiate, si arrivi a calpestare la dignità degli esseri umani. La vicenda del film chiama in causa episodi della storia recente. Penso, per esempio, al concetto di esportazione della democrazia e alle tragedie che ha provocato.
Assolutamente, condivido in toto questa analisi. È come se nella valutazione a tavolino di leggi e principi ci dimenticassimo che ci sono dietro delle persone e delle vite. È come se tutto diventasse asettico. Il giudizio sull’altro lo trasforma non in un essere umano uguale a noi ma quasi in un oggetto o in un problema da risolvere.

Lubo racconta come un principio, di per sé giusto, diventi il pretesto per compiere qualsiasi tipo di nefandezza. Nel corso della storia l’esposizione del programma educativo nei confronti dei bambini Jenish è messa sempre a confronto con la riprovevolezza dei risultati.
Sì, la dimensione è quella lì. Anche noi siamo stati bambini eppure ci dimentichiamo che questi saranno i cittadini del futuro. Tanto più la loro vita sarà umiliata e ferita tanto più saranno seminatori di male e protagonisti di grandi sofferenze. Parliamo di una tragica dimensione che nel percorso dell’umanità è purtroppo difficile da modificare.
Un’altra costante presente anche in questo film è quella di raccontare una storia lontana nello spazio e nel tempo che tu utilizzi per avere una migliore prospettiva per parlare dell’oggi ricordandoci da dove veniamo.
Diciamo che la distanza di luogo e di tempo è una buona occasione per raccontare il presente. Spesso nelle scelte delle storie che ho raccontato c’è l’intenzione di capire un presente in cui siamo distratti dalla nostra quotidianità. Guardare al passato, guardare ad altri territori, ad altre etnie, diventa un po’ come offrire una possibilità di sguardo differente, quello relativo a un punto di vista che rilancia tematiche come se fossimo noi stessi a guardarci da una posizione diversa dal solito. Farlo senza staccarci dalla nostra quotidianità rischia di non farci capire delle cose a causa dell’assuefazione al tempo presente.

Non solo Lubo: i film di Giorgio Diritti sono delle scoperte
Peraltro questo ti permette di esplorare nuove geografie umane e territoriali. In questo senso i tuoi film sono delle vere e proprie scoperte.
Sì, è vero. Nuovi territori e con essi nuove storie ed esperienze umane. Queste ultime si assomigliano molto, ma al tempo stesso nella loro diversità risultano sempre un’occasione per conoscere meglio l’umanità in generale e noi stessi in particolare. Tutte queste storie probabilmente sono anche lo specchio del mio bisogno di capire con maggiore profondità l’assurdità della guerra, il senso dell’educazione e perché delle differenze presenti nell’umanità non si colga più il vantaggio e il bene trasformando sovente il tutto in paura verso l’altro. Parlo dei temi che poi nelle letture, nelle ricerche, nelle storie che mi ispirano, muovono in me la voglia di riproporle agli altri in una dimensione che è quella dell’emozione. Perché poi il cinema ha questa grande capacità e bellezza, quella di essere un’occasione in cui ci si immerge in storie, tempi e luoghi differenti con sguardo conoscitivo, ma anche con una tensione emotiva di partecipazione. Portandoci a identificarci con il protagonista, con gli altri personaggi, con un determinato momento storico e con quelle che sono le vicende della nostra vita.

La prima sequenza
Ho trovato molto poetica e altrettanto profetica la prima sequenza del film in cui vediamo Lubo e la famiglia esibirsi nella piazza del paese. Nella messinscena vediamo il protagonista venire fuori dalla pancia dell’orso dispensando sorrisi e gentilezza. Nella realtà invece succederà il contrario perché la morte trasformerà la mitezza del protagonista in una voglia di vendetta che non si farà scrupoli della vita dei suoi avversari.
L’intenzione era questa perché rende ancora più evidente come un uomo che viveva felicemente la sua quotidianità, essendo felice anche con poco, sia costretto a entrare dentro un meccanismo in cui si ribaltano le situazioni e la sua dimensione di serenità viene mutata anche in termini visivi con l’acquisizione di una nuova identità. Quella scena mi serviva come premessa per restituire quanto fosse stato snaturato il senso dell’esistenza di Lubo.
Le due versioni di Lubo nel film di Giorgio Diritti
La scrittura e il montaggio rendono molto bene questo scarto facendoci sentire la violenza del cambiamento. Da una parte c’è l’artista di strada abituato a creare mondi, dall’altra la vita militare alla quale Lubo viene di colpo obbligato e dunque la costrizione a subire il mondo creato dagli altri.

È così. È molto giusta questa osservazione. La tua considerazione coincide con la mia intenzione di ragionare su come e quanto siamo realmente liberi nella società attuale. Quanto siamo noi stessi nella realizzazione dei nostri sogni e quanto poi le pressioni del mondo diventano qualcosa che trasforma la nostra identità facendoci diventare automi di un sistema che nel caso di Lubo porta a percorsi negativi.
Da questo punto di vista e facendo un balzo in avanti che ci porta alla fine della storia, ho trovato molto significativa la sequenza conclusiva che in qualche modo ristabilisce le condizioni iniziali, con Lubo che torna a suonare seppure all’interno della prigione e con i carcerati che a un certo punto iniziano a ballare tutti insieme.
Lo è anche per la capacità di farli sentire liberi nonostante di fatto non lo siano perché comunque sono detenuti in carcere. Nella sequenza c’è comunque una dimensione di spazialità, di musica e di sogno che deriva anche dal senso di libertà che si ha quando si realizza qualcosa per gli altri e non per se stessi.

La lingua e il rigore
Rispetto a un film come Ferrari di Michael Mann, interpretato da attori stranieri e parlato in un lingua diversa da quella dei personaggi reali, Lubo si pone agli antipodi. Come hai sempre fatto, tu scegli sempre attori provenienti dalla stessa cultura dei personaggi anche per quanto riguarda il parlato. In Lubo si parla in svizzero tedesco e in italiano a seconda dei cantoni in cui di volta in volta è ambientata la vicenda.
Questo perché mi piace una sensazione generale di verità. Non si tratta di essere relegati a un realismo in senso freddo e come scelta concettuale. Credo che la diversità delle lingue rispetto a storie come questa sia un elemento che ci fa capire la complessità del mondo. Nello specifico a come culture diverse entrino in contatto dovendo fare i conti con divergenze linguistiche che li allontanano e li avvicinano anche dal punto di vista emotivo. Per Lubo un conto è relazionarsi all’interno della comunità Jenish, un conto è farlo con il mondo esterno dove parlano lo svizzero tedesco. Anche se siamo sempre all’interno della stessa nazione si tratta di universi e culture differenti. Farlo percepire allo spettatore esprime l’idea di come Lubo sia altro da quel mondo lì e di come per lui sia un salto mortale infilarsi in quella società e in quella cultura.
A proposito di rigore, i primi quaranta minuti, quelli che raccontano la discesa all’inferno del personaggio, sono girati di notte e dunque spesso al buio. Così lo è la scena dell’omicidio, realizzata in campo lungo e in maniera che lo spettatore non veda l’efferatezza che Lubo sta compiendo. In generale scegli di lasciare la violenza fuori campo.
Sì, ho uno sguardo da lontano. Nella sequenza specifica mi sembrava sufficiente raccontare una sensazione senza entrare nei dettagli. Anche perché la percezione di oscurità e l’alternarsi di luci e ombre bastavano a restituire un senso di negatività e di paura. Inoltre sono convinto che l’utilizzazione del suono abbia avuto nel film una forza più significante ed emotivamente più funzionale rispetto alla componente visiva.

Lubo di Giorgio Diritti: un film classico?
Ho definito Lubo come il tuo film più classico anche e soprattutto dal punto di vista formale. Ragionando su questa scelta mi sono risposto che fosse lo stile più appropriato per raccontare una verità acclarata. Se avessi optato per uno sguardo interno al protagonista – come capitava in Volevo nascondermi – c’era il rischio di restituire i fatti attraverso una prospettiva personale che in qualche modo li rendeva meno oggettivi. È una spiegazione corretta o mi sono spinto troppo in là?
Lubo è lo specchio di una storia ampia quindi sono d’accordo con te. Mi è venuto naturale camminare in questa dimensione per far capire da un lato la specificità della persona e della sua storia, avendo però sempre un riferimento il più ampio possibile a quella che era la dimensione di un affresco anche storico, capace di dare a quell’esperienza un riflesso che si allargava al resto del mondo. Come hai giustamente detto, stare solo su di lui, dal punto di vista stilistico, voleva dire raccontare una storia personale mentre qui era importante sentire sempre che c’era qualcosa di più grande, ovvero le reazioni del mondo attorno in cui Lubo si inserisce.

Si può dire che come Scorsese in Killers of the Flowers Moon anche da parte tua c’è in Lubo la voglia di incontrare lo spettatore nella dimensione del racconto e della sua messinscena?
Sicuramente sì. Sono d’accordo con questa cosa anche se spero contemporaneamente che si tratti di un piacere misurato e non di un compiacimento. È importante che ci sia una dimensione di racconto, ma mi auguro che non vi sia un eccessivo compiacimento verso una precisa forma stilistica.
Prima parlavi della capacità della musica di suscitare emozioni. Quella che commenta le facce dei bambini rivolte alla mdp è come se fosse uno schiaffo in faccia allo spettatore. Non a caso arriva subito dopo la scoperta delle brutture subite nei collegi e nelle famiglie a cui i piccoli erano stati affidati.
È così, è voluta. Oltre a uno schiaffo, con Marco Biscarini, autore delle musiche, abbiamo voluto rendere un suono primordiale che ci mette nella condizione di renderci conto di quello che è successo. È una forma di responsabilità rivolta a tutti noi.