Il regista Pedro Costa è stato uno dei protagonisti indiscussi del Festival dei popoli 2023. Insieme a Tatiana Huezo, è stato uno dei nomi ai quali il festival fiorentino di documentari ha dedicato un particolare omaggio riproponendo i suoi titoli nel corso della kermesse. Dai suoi primi titoli a quelli che lo hanno visto trionfare a Locarno per arrivare al più recente cortometraggio, Le figlie del fuoco. Al regista portoghese Pedro Costa abbiamo fatto alcune domande ripercorrendo la sua poetica, il suo stile e la sua filmografia.
Il ritorno dei personaggi nei film del regista Pedro Costa
Un elemento che colpisce delle tue opere è il ritorno dei personaggi che diventano un collegamento tra un’opera e l’altra. Il tuo scopo sembra essere quello di mostrarli nel loro passaggio, nella loro evoluzione e nella loro vita.
Non lo definirei uno scopo. La sceneggiatura e la storia sembrano seguire da vicino le loro vite, cosa dicono, cosa succede. Sono sempre personaggi vivi, non c’è ragione per loro di morire.
Quasi tutti faticano a comprendere questo. Quindi il mio lavoro (e di conseguenza le mie opere) è diverso dagli altri film; nei miei le persone non muoiono. Non c’è questa tentazione di immaginare altre cose oltre le vite stesse delle persone protagoniste.
Nei film di finzione si immagina spesso la morte di qualcuno perché trasforma la storia in un certo modo, a volte rendendola più facile e per permetterle di arrivare a una fine. Io non faccio questo.
Quindi hai ragione, quello che hai detto è corretto. È vero che i personaggi tornano perché è la loro vita. Adesso, per esempio, mi aspettano: domani sarò con loro che sono vivi e forse pronti per altre e nuove cose.
Il problema è sempre cosa fare mentre la vita in generale è così difficile e per loro ancora di più sotto il punto di vista della salute, del lavoro e delle situazioni in generale. È sempre molto difficile, per loro come per me perché sono molto vicino ai protagonisti delle mie opere. Quindi, per concludere, direi che si tratta di un lungo progetto più che di un film. Anche perché potrebbe essere altro, non solo e per forza cinema: li aiuto con altre cose e li filmo.
L’uso dei colori
Ogni immagine nei tuoi film è un’opera d’arte, nessuna ripresa è lasciata al caso. E una cosa che colpisce è indubbiamente l’uso della luce, o meglio del buio. Sembra che una delle tue caratteristiche (e dei tuoi protagonisti) sia il nero in modo da, in parte nascondere i tuoi personaggi, in parte rendere tutto meno definito. In Cavalo Dinheiro, per esempio, l’ospedale è uno dei pochi elementi bianchi/chiari. Ospedale che è al tempo stesso prigione e fabbrica. Il colore che gli dai è usato per annullare il tempo e lo spazio?
In realtà è molto meno complicato. Secondo me gli ospedali e le prigioni sembrano essere più vicine al bianco o comunque sono più cieche, nel senso di assenza del colore che è un modo per raccontare la violenza. E, infatti, si tratta di un luogo violento e puro che, paradossalmente, porta via l’oscurità.
Per quanto riguarda il nero, esso viene dai loro habitat, dalle povere condizioni nelle quali vivono. Queste persone vivono come possono in luoghi dove per noi sarebbe molto difficile vivere.
In generale comunque la società burocratica è legata al bianco (prigioni, ospedali, uffici…). L’esperienza della luce e del giorno è legata al lavoro, non è legata alle emozioni, ma è qualcosa di più semplice. Se queste persone quando sono a casa non lavorano hanno un’esperienza diversa dalla nostra. Ogni volta che vado con uno di loro per aiutarlo e stare con lui o lei è un po’ così. Per contro gli ufficiali sono sempre molto freddi con loro e, quindi, mi sembra che l’unico modo per identificarli e descriverli sia quello di ricorrere al bianco.
In generale è come se mettessi sempre una distanza tra noi spettatori e quello che vediamo nel film. Lo fai, come hai detto, attraverso i colori assenti, ma anche attraverso i luoghi e le persone che ritrai per mostrare un mondo apparentemente lontano da noi, a Capo Verde. Un altro elemento di divisione che mi viene in mente è, per esempio, in Vitalina Varela la scala. Una scala che viene utilizzata come anche una sorta di passaggio, all’inizio e alla fine e che segna la circolarità dell’opera e delle tue opere in generale dove ritornano i personaggi.
Penso che sia più semplice di così. Lei arriva con l’aereo, anche se non la mostriamo in aeroporto (perché era più costoso e non abbiamo volutamente reso con effetti speciali questo fatto) ed è un viaggio; lei arriva da un paese nuovo, straniero e sconosciuto e alla fine se ne va. Anche se alla fine sarebbe potuta rimanere e il film sarebbe finito come una delle tante fiction, ma sarebbe stato ingiusto perché non avrebbe avuto una via di fuga, anche se con l’opportunità di ricominciare sarebbe stata chiusa nel film. In questo modo, invece, lei dà comunque una chance a sé stessa. Anche perché non sono io che scrivo il film. In questo caso è lei che ha preferito far finire il film in questo modo.
Nei film di solito mostro i personaggi e quello che fanno senza dare un giudizio. A volte non sono d’accordo con quello che scelgono perché penso che avrebbero dovuto e potuto fare altro, ma seguo comunque quello che vogliono fare, a prescindere.
In generale lasci parlare le immagini piuttosto che le parole.
Le parole vengono fuori naturalmente, io le organizzo un po’ e basta. Nella vita reale si parla anche troppo, quindi il mio compito è quello di comprimere e condensare quello che viene detto.
Il regista Pedro Costa alle prese con un cortometraggio
Il tuo cortometraggio più recente, Le figlie del fuoco, sembra riassumere in qualche modo quello che hai mostrato nei tuoi lavori precedenti. E lo fa in musica. Ho trovato la triplice divisione dello schermo come un modo per dare voce allo stesso disagio in maniera ancora più amplificata. Come vedere la realtà da più punti di vista. Che è quello che hai fatto con i tuoi precedenti film, analizzando personaggi e riprendendoli nei titoli successivi.
In realtà più che un riassunto è un test per i prossimi film che farò. È come se provassi la macchina da presa per vedere e valutare se va bene. In questo caso avevamo la macchina da presa e un’idea di persone che stavano davanti a essa: tre ragazze che volevo semplicemente vedere per com’erano e come si comportavano perché non avevano mai fatto una cosa del genere.
Abbiamo fatto tre prove e nel momento del montaggio abbiamo visto che potevamo lavorare come split screen insieme unite dal fatto che c’è molta musica.
I tuoi film non raccontano e non mostrano, ma invitano alla riflessione. Ed è forse questo che più di ogni altra cosa viene apprezzato ed è stato apprezzato a Locarno dove sei stato premiato. Cosa significa, quindi, per te avere una sezione dedicata al Festival dei popoli? Considerando che si tratta di un festival di documentari e che i tuoi lavori vanno in questa direzione, ma non completamente.
È sempre bello mostrare i film il più possibile. C’è sempre un po’ di interesse e in generale non dico mai no perché tutti i generi, dai documentari alla finzione, sono importanti allo stesso modo. Non rifiuto niente. Come detto, le cose che faccio sono legate a persone che esistono a differenza delle fiction che sono sempre costruzioni.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli