Al Festival dei popoli 2023, all’interno del concorso internazionale prima e al FESCAAAL 2024 poi, è stato presentato il documentario Taxibol di Tommaso Santambrogio. A bordo di un veicolo che percorre le strade de L’Avana, Lav Diaz conversa con un tassista. Il regista filippino parla del suo cinema come una missione, ponendo le basi per un film che possa offrire giustizia al suo popolo: in questo caso, andando alla ricerca di un generale del regime di Marcos apparentemente rifugiato a Cuba. Al regista Tommaso Santambrogio abbiamo fatto alcune domande sul suo film.
Tommaso Santambrogio e l’uso del bianco e nero
La prima domanda che nasce quasi spontanea è perché hai scelto il bianco e nero? Lo hai fatto per concentrarti (e far concentrare anche lo spettatore) sulla storia o per omaggiare Lav Diaz? Tra l’altro, se non sbaglio, anche il tuo precedente lavoro era in bianco e nero.
Io tendenzialmente utilizzerei sempre il bianco e nero per tratteggiare Cuba perché è un paese che dal 1989 (quando c’è stato il crollo del blocco sovietico) ha dovuto reinventarsi a livello socio-economico e ha utilizzato il turismo come leva per poter sopravvivere. E il turismo ha comportato una brandizzazione estetica di Cuba che è diventato il luogo delle macchine d’epoca, dei colori sgargianti, del mojito creando un immaginario collettivo che ha permeato la nostra percezione. In parte è successo anche con le Filippine (conosciute a livello turistico per le isole dove c’è la palma, la spiaggia bianca), ma soprattutto legato a Cuba quello che volevo fare utilizzando il bianco e nero era, in qualche modo, cancellare questo immaginario collettivo introducendo un filtro che riusciva a riconnettersi alla realtà più di quanto facesse l’utilizzo dell’immagine a colori e permettesse di andare dritto alle storie e alle tragedie umane dei personaggi.
Sicuramente il bianco e nero va in questa direzione: raccontare queste società post coloniali utilizzando un filtro che ci permetta di connetterci direttamente con le storie e i luoghi senza utilizzare un’immagine post capitalista e post colonialista.
E, in effetti, nella maggior parte dei casi il bianco e nero aiuta a focalizzare l’attenzione su quello che il film vuole dire, anche perché i colori distrarrebbero.
Più che altro Taxibol lavora molto anche sulla stratificazione temporale perché c’è del materiale d’archivio che torna ai colori; c’è il lavoro sul confine a livello di linguaggio tra funzione e documentario e c’è un lavoro nello spazio (l’eredità della giustizia e di queste società violentate dall’influenza capitalistica, russa, nord americana). Il bianco e nero permette da un lato di avere un’astrazione temporale e dall’altro di pulire la mente da questi preconcetti in quanto spettatore e di concentrarsi di più sul materiale umano, sull’idea e su quello che viene portato avanti.
L’importanza del suono
Per certi versi è un film politico dove lasci parlare le immagini. Forse in questo, ancora di più, il bianco e nero aiuta. A parte il lungo prologo non ci sono dialoghi o parole perché sono sufficienti le immagini a evocare nello spettatore determinate sensazioni. Anzi la sensazione è quasi di disturbo e disgusto. Ascoltare in silenzio quei determinati suoni arriva a essere fastidioso.
Il suono è stato molto importante. Abbiamo lavorato sul loop, sull’idea di questa ciclicità e ripetitività che crea quasi una claustrofobia tramite il suono e la ricchezza sonora nella seconda parte.
In Taxibol c’è l’arricchimento sonoro grazie all’attenzione del sound designer che ha lavorato anche a livello di incubi con la crepa che si apre nell’inconscio del personaggio.
Ed era interessante anche all’interno delle due sezioni perché la prima parte è sovra dialogata ed è basata sullo scambio anche a livello di linguaggio (dal piano al contropiano), la seconda parte invece è costruita tutta sul loop e sull’assenza di dialogo come se fosse un documentario osservazionale. Anche dal punto di vista sonoro è molto stratificato, molto ricco, molto vivo.
La prima parte ha un livello che è il dialogo sonoro e poi ha la spazializzazione di tutto ciò che avviene all’esterno della macchina quasi come un ambiente che si muove anche se questo movimento poi non porta da nessuna parte (che è anche una metafora sulla quale abbiamo lavorato). Non si capisce dove va la macchina che rappresenta, in parte, la giustizia che dovrebbe arrivare. Quello che succede, però, è che la giustizia, almeno in questi paesi, non arriva a un compimento ed è questo il discorso politico. Spesso nelle società post colonialistiche non si arriva veramente a quella che noi consideriamo giustizia e cos’è la giustizia oggi. Addirittura adesso nella nostra società stiamo assistendo a una crisi in relazione alla giustizia.
I due capitoli di Taxibol di Tommaso Santambrogio
A proposito dello scorrere delle immagini intorno al taxi, esse fanno da contraltare, anche se in maniera statica, alla ciclicità che dicevi del personaggio. Quindi, in qualche modo, le due parti sono l’una la spiegazione dell’altra, o meglio sia un’anticipazione che una spiegazione perché è come se fossero due capitoli della storia.
Sì, sono proprio due sezioni che sono più unite di quello che sembra.
La cosa interessante è che quella che fa da preambolo è come se venisse dopo a livello temporale perché è la motivazione che spinge al dialogo. Il preambolo viene prima a livello narrativo e cinematografico, ma è la conseguenza di quello che vediamo nella seconda parte. Quindi è anche un ragionamento spaziale, temporale e a me ha divertito molto realizzarlo per questo film. Mi sono sentito libero dal punto di vista cinematografico.
Quale parte è nata prima?
La prima parte. È nata dal documentario, dall’incontro con Lav e Gustavo. Li ho conosciuti separatamente e ho notato che avevano dei punti in comune, a livello umano, di empatia e riguardo la propria identità culturale e mi piaceva l’idea di farli comunicare.
Poi si sono conosciuti, hanno cominciato a parlare, abbiamo fatto dei giri insieme e siamo andati a filmare senza avere nessuna sceneggiatura, solo documentaristica. Volevo osservare questo incontro con dei punti che avevamo definito di andare a toccare. Da quella parte lì ho montato.
Il progetto è iniziato nel 2019 anno in cui ho girato la prima parte, poi l’ho montato nel 2020/2021, durante la pandemia. Nell’estate 2021 ho girato la seconda parte e poi c’è stata la post produzione. Al lavoro sul suono abbiamo dedicato 5 mesi che è un privilegio e un lusso. Ci siamo dedicati molto a questa parte perché l’idea era uscire dai canoni classici a livello linguistico, di durata, di attenzione e di pensiero nei confronti del sonoro che spesso, per esigenze produttive, viene sacrificato nel nome della distribuzione, dell’uscita in sala, del festival, ma che, invece, ha un’importanza speciale soprattutto per la sala. Anche perché lo schermo è bidimensionale e il suono ti circonda, sei immerso nel suono.
La seconda parte è stata girata dopo aver montato la prima, quindi avendo già un’idea di quella che era la struttura generale. Si può dire che l’idea era realizzare la prima parte documentaria, che si basa su dei canoni linguistici propri del cinema di finzione (piano contropiano). La seconda, invece, che è finzione, è caratterizzata da uno stile osservazionale tipico del più classico del cinema documentario che osserva la quotidianità di questo demone che si aggira.
Lav Diaz
Quanto è stata importante l’influenza di Lav Diaz per il tuo lavoro, a parte il fatto che è presente fisicamente?
La cosa che mi ha insegnato è liberarmi di tutte le strutture e i preconcetti cinematografici.
Il primo lavoro che ho girato nella mia vita era tutto camera fissa. Ho questo istinto alla lente grandangolare, una presa di posizione osservazionale nei confronti della realtà come fosse un palcoscenico.
Quando l’ho incontrato era un momento della mia vita in cui ero ancora in formazione e mi ha aiutato molto questo incontro perché mi ha dato molta libertà e questa attitudine di trattare l’arte filmica come un’esigenza, personale, socio politica. Mi ha aiutato a poter esprimere me stesso alla massima potenza e trovare la mia urgenza e il mio linguaggio. Su questo è stato fondamentale.
In questo film, poi, Lav Diaz ha portato avanti il dialogo della prima parte, dove lui è uno dei due personaggi. La cosa bella è che lui non era interessato a intervenire prima, ha visto il materiale finito nonostante ci siano stati due anni di tempo tra il girato e il montaggio. Da questo punto di vista io non mi sento in una posizione debitoria, ma anzi di liberazione grazie alla possibilità che mi ha dato. Avere un maestro come lui che esce dal seminato ti aiuta a liberarti e essere te stesso, nel bene e nel male.
Anzi ha messo in pratica in tutti i sensi questo fatto della totale libertà.
Sì e poi non ti dà un parere. Al limite quando è finito tutto ti dice se gli può piacere o meno.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli