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‘Spaccaossa’ Intervista al regista Vincenzo Pirrotta

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Spaccaossa è la prima opera cinematografica da regista dell’attore Vincenzo Pirrotta, qui impegnato anche nel ruolo di protagonista. Realizzato nel 2022, il film dell’autore palermitano conta la prestigiosa partecipazione alle Giornate degli Autori della 79ª Mostra del cinema di Venezia.

La sceneggiatura presenta inoltre la firma del duo comico e artistico Salvo Ficarra e Valentino Picone, mentre per la fotografia è stato impiegato tutto l’affermato e storico talento di Daniele Ciprì, conosciuto dai più per aver diretto Totò che visse due volte.

In occasione della proiezione di Spaccaossa all’Italian Film Festival di Berlino, avvenuta proprio ieri, 7 novembre, abbiamo avuto il piacere di intervistare Vincenzo, grazie al quale è nata una conversazione ricca di spunti riflessivi e creativi. Di seguito riportiamo l’intervista completa.

Spaccaossa: l’intervista a Vincenzo Pirrotta

Spaccaossa è il suo primo lavoro da regista cinematografico. Dopo innumerevoli presenze da attore sul set, che cosa significa per Lei mettersi dietro alla cinepresa? E come sta vivendo l’emozione di essere uno dei rappresentanti dell’Italia a Berlino accanto a storici autori come Marco Bellocchio e Pupi Avati?

Vengo da oltre sessanta regie teatrali tra prosa e svariate opere liriche, infatti questo lavoro era nato inizialmente come testo teatrale. Poi, man mano che scrivevo, la storia che ho scelto mi portava verso il cinema. È stato un percorso naturale, nonché faticosissimo in quanto dovevo gestire simultaneamente la macchina da presa e la mia performance come protagonista stesso del film. Spaccaossa è sicuramente uno squarcio nella mia tela professionale, che non avrei mai pensato di realizzare secondo queste modalità.

Rappresentare l’Italia a Berlino è certamente un onore; qui ritrovo anche Marco Bellocchio, con cui da attore ho girato L’imprenditore. Questo risultato è senza dubbio un motivo di orgoglio professionale, ma si tratta anche della conseguenza di una profonda consapevolezza, ossia di aver raccontato una storia che era necessario divulgare. Parlo di una storia ammantata di disperazione, e nel mondo di oggi questo senso di frustrazione emotiva, nonché esistenziale, ci è molto vicino: nella migliore delle ipotesi non ce ne accorgiamo, mentre, nella peggiore, preferiamo girare la testa dall’altra parte per non vederla affatto.

La necessità di porsi domande

La storia di Spaccaossa è tratta da un caso di cronaca, da cui Lei ha saputo tirare fuori l’essenziale per descrivere una profonda perdizione umanitaria. Nella sua dichiarazione d’intenti, c’è solo la volontà di denunciare un fatto terribile o c’è qualcos’altro, che gli spettatori più accorti devono tenere bene a mente?

C’è molto di più della semplice denuncia: io voglio consegnare agli spettatori una domanda. Personalmente ho vissuto questa vicenda, che interessa purtroppo la mia terra natìa, la Sicilia, come un pugno allo stomaco. C’è una doppia miseria in questa narrazione: quella di chi si maschera dietro a un comportamento cinico e indifferente, e quella di chi invece si è prostrato di fronte a una vita colma di dolori e sofferenze. Seguendo una mia prospettiva filosofica e morale, vorrei davvero che gli spettatori arrivassero a chiedersi “Che cosa ognuno di noi è disposto a farsi mutilare per ottenere qualcosa in cambio?”

Il mattatoio

Collaborazioni prestigiose

La sceneggiatura di Spaccaossa vanta il contributo creativo di Salvo Ficarra e di Valentino Picone, mentre il direttore della fotografia è stato niente poco di meno che Daniele Ciprì, anche lui autore influente e di grandissimo spessore. Da un punto di vista meramente personale, com’è stato collaborare con questi grandi artisti? E quanto la loro presenza ha influenzato il Suo lavoro sia come regista che come attore?

Non parlerei di influenza. Salvo e Valentino mi hanno espressamente chiesto di considerarli come “un’oasi di libertà”, in cui sentirmi totalmente libero di raccontare la mia storia. Abbiamo avuto l’occasione di discutere ampiamente sulla costruzione narrativa dell’opera, ma entrambi hanno sempre mostrato il massimo riserbo per ciò che volevo esprimere. La loro compostezza si è percepita anche quando sono venuti direttamente sul set a visionare il lavoro, e di questo non posso che essere infinitamente grato a tutti e due. Ho dunque avuto la straordinaria opportunità di mettere in scena il film esattamente come l’avevo pensato. Tra l’altro, sottolineo che mi è stato concesso anche il final cut, che per le opere prime è un evento più unico che raro: in questi casi è sempre la produzione ad avere l’ultima parola.

Con Daniele invece si tratta di un rapporto nato dalla sua curiosità per il mio lavoro a teatro: era presente quasi ad ogni spettacolo che dirigevo o in cui recitavo. E ogni volta mi diceva “Vincenzo tu hai sicuramente una storia nel cassetto che diventerà un film. Non me la nascondere!”, promettendomi poi che avrebbe curato la fotografia della mia futura opera prima. Ed effettivamente ci aveva visto lungo! Non appena ho avuto la certezza di girare Spaccaossa, l’ho chiamato e ha risposto subito “presente!” Anche con lui ho avuto un lungo dialogo costruttivo, grazie al quale ho accolto molte delle sue suggestioni per ricreare una Palermo cupa, secondo una precisa immagine che ho nella testa fin da quando ero ragazzino.

Analizziamo ‘Spaccaossa’ assieme a Vincenzo

La questione del dialetto

E partendo da questa suggestione, propongo adesso di iniziare a parlare più approfonditamente del film. Spaccaossa è stato interpretato per tutta la sua durata in dialetto siciliano. Personalmente, credo che nel Suo lavoro la funzione del linguaggio vernacolare non sia soltanto mimetica. È possibile che qui il dialetto abbia un significato ulteriore, di matrice identitaria, e che racchiuda in se stesso qualcosa di negativo?

Assolutamente sì. Noi abbiamo tentato fin dalla scrittura di restituire una realtà ben precisa. Inizialmente avevamo pensato di scrivere il film in italiano, ma poi è stata la storia stessa a confidarci la necessità di attingere alla lingua della mia terra. Il siciliano è fondamentale in quanto descrive dei mostri, che possono parlare e raccontarsi solo utilizzando dei fonemi crudi e taglienti, aspri. Una parlata così stretta è tipica di alcune borgate palermitane, dunque si tratta della connotazione di una comunità ben precisa, a cui fa da contraltare il dialetto usato da Luisa.

Lei usa un vernacolo campagnolo, più dolce, che ha della poesia. Diventa perciò fondamentale evidenziare una certa distanza non solo fisica e ideologica, ma altrettanto linguistica: sono i retroterra culturali dei personaggi a consentire uno sviluppo puntuale e significativo delle loro personalità. E l’educazione delle persone si rivede anche nei modi espressivi che esse utilizzano quotidianamente.

La femminilità di Spaccaossa

Luisa è un personaggio singolare, a cui vorrei arrivare progressivamente. Anzitutto, volevo riflettere per un istante sulle due femminilità opposte e complementari che Lei ha saputo costruire lungo tutto l’arco narrativo. Parlo della madre del protagonista, Giovanna, e di Maria, moglie del personaggio interpretato da Ninni Bruschetta. C’è una forte contrapposizione di caratteri tra questi personaggi, ma entrambi sapranno essere determinanti. Che cosa ci vogliono dire?

Ho deciso di descrivere Giovanna seguendo una parabola visiva ben precisa: sono partito dalla leggiadria dei dipinti di Raffaello, per poi approdare al tetro risvolto delle tele di Bosch. Si trasforma progressivamente in un mostro, che è solo apparentemente vestito di dolcezza. Si tratta di una meschinità molto difficile da individuare, ma che purtroppo convive apertamente con noi, soprattutto all’interno delle nostre famiglie. Come già ribadito precedentemente, la culla di certi mostri spesso sono le radici da cui fioriamo. Giovanna vuole rappresentare fino in fondo l’animo nero del cinismo di chi spacca le ossa.

Maria invece è un germe di bontà che viene tragicamente schiacciato dalla violenza che la circonda. Tuttavia, lei dimostra di essere abbastanza forte da ribellarsi, e lo fa con un piccolo atto rivoluzionario. Mi riferisco alla scena in cui decide di far scappare Luisa dal sanatorio, prendendosi sulle spalle tutto il peso delle tremende conseguenze, che in quel momento non sembrano affatto intaccare la sua purezza. Si tratta di un gesto catartico, specialmente nei riguardi di tutte quelle donne che purtroppo sono costrette a una vita violenta dai propri compagni.

E Luisa invece?

Luisa svolge un altro tipo di percorso, di matrice cristologica. Lei affronta una vera e propria Via Crucis, le cui diverse stazioni sono rappresentate soprattutto dalle varie stanze che il personaggio finisce per abitare lungo la narrazione. Si tratta di un personaggio la cui essenziale bontà viene pregiudicata da una vita misera e degradante. Si può dire che racchiuda in se stessa il senso di una società trucidata dal morbo della violenza e dell’indifferenza portate dalla malavita. Per Luisa, infatti, la felicità è solo una lontana parvenza, a cui segue la lancia scagliatale nel costato proprio da chi credeva potesse redimerla.

Un autoritratto di Vincenzo

E invece che cosa può dirci di Vincenzo, il personaggio interpretato proprio da Lei? Mi pare che il protagonista abbia dimostrato a più riprese di avere una riflessività, un’umanità che lo distanzia irrimediabilmente dal cinismo in cui sono avvolti i suoi colleghi…

Vincenzo è un personaggio di matrice letteraria: l’ho pensato e costruito basandomi sul protagonista de L’uomo senza qualità di Robert Musil. In Sicilia quelli come lui li chiamiamo cosa inutile, ossia una persona incapace di prendere posizione. Lui ha inizialmente tutte le qualità necessarie per diventare il nostro eroe. E questo lo evidenzio significativamente nella scena in cui deve decidere se accettare o meno i soldi offertigli da Michele, il capo della banda. È una scena di chiara ascendenza western, che vuole segnalare una tappa importante nell’evoluzione etica del personaggio. Perciò è significativo che lui esiti dinanzi al denaro del suo collega criminale. È quello il momento in cui Vincenzo potrebbe diventare effettivamente un esempio di integrità morale, ma alla fine non prende una decisione auspicabile. Accetta di sottostare alle regole di quel sottobosco malavitoso: non sa riscattarsi, rimane succube degli eventi.

Vincenzo e Luisa

L’antro del dolore

Gli intervalli tra i blocchi narrativi sono scanditi da gruppi di inquadrature dedicate esclusivamente al “mattatoio” quando non è operativo: un luogo asettico e inospitale. Visto che il tempo della storia è scandito così strutturalmente da questo spazio, si può dire allora che la vita dell’intera società, rappresentata per sineddoche dai personaggi, è fortemente dominata dalla corruzione che ha scelto di descrivere?

È esattamente questo! Il tempo è proprio scandito da quello che nella sceneggiatura ho definito “antro del dolore”, dove alle volte si possono sentire solo delle mosche persistenti o si può soltanto vedere una luce tagliente e sgradita. Si tratta di un luogo angosciante e solitario. Una sorta di ventre materno capace di partorire solo atrocità: non è più quel posto sicuro in cui tutti noi vorremmo spesso rifugiarci. E ciò che fa più male è il senso di attesa che anticipa il destino di chi vi si avventura. Noi spettatori possiamo sentire sulla nostra pelle l’eco delle urla di chi è dentro, e l’odore del sangue che sgorga incontrollato da quelle fratture.

Un piccolo spoiler?

Un’ultimissima domanda! C’è in cantiere un progetto che, riprendendo la poetica e i valori di Spaccaossa, possa invece indulgere in un finale diverso, concedendo una soluzione costruttiva per il futuro e dei nuovi orizzonti?

Sarà certamente così! Ho già pronto un secondo film da girare, che spero possa unirsi a Spaccaossa per costruire un dittico morale: anche qui parlerò di demoni reconditi della nostra società. Gli intenti saranno simili, ma i risultati decisamente nuovi e inaspettati! Non vi spoilero altro…

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