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Approfondimenti

Le forme della paura: uno sguardo sul cinema di Mike Flanagan

Dopo 'La caduta della casa degli Usher' torniamo a Mike Flanagan e al suo approccio unico al genere horror per uno sguardo più approfondito

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Che Mike Flanagan fosse, con buona pace dei detrattori, uno degli autori horror più importanti della sua generazione era già cosa nota. Che costituisse anche un unicum all’interno di quel panorama per capirlo basterebbe guardare il trattamento che Netflix gli ha riservato in questi anni, dandogli carta bianca per costruire un universo – cinematografico e, soprattutto, seriale – estremamente coerente e uniforme, tanto sul piano tematico quanto su quello espressivo.

La caduta della casa degli Usher, ambizioso affresco corale ed ennesima prova della capacità di Flanagan di confrontarsi con celebri opere letterarie reinventandole senza stravolgerle, è indubbiamente il punto di arrivo di questo percorso. Il vertice della produzione di un autore ormai perfettamente a suo agio con le piattaforme streaming (dopo Netflix la prossima collaborazione è prevista con Prime Video) ma non per questo meno attento a un approccio fortemente personale.

Fuori dal coro

Nato a Salem, Massachusetts, e, forse, anche per questo inevitabilmente legato a doppio filo all’horror, Flanagan è un autore che non si serve semplicemente del genere ma lo calza come una seconda pelle. Un approccio, il suo, unico nel panorama contemporaneo, a metà strada tra le due macrotendenze dei nostri tempi, quella smaccatamente commerciale portata avanti da Jason Blum e dalla sua Blumhouse (con cui Flanagan pur aveva collaborato con titoli quali Oculus – Il riflesso del male, Ouija – Le origini del male e Hush) e quella così detta “elevated”, tipica dei prodotti platealmente autoriali ed estetizzanti di una casa di produzione come la A24.

In bilico tra autorialità e spettacolo Flanagan si fa così portatore di un sentire decisamente più classico, dove la parola diventa centrale (“siamo tutti storie, alla fine”, viene detto in The Haunting of Hill House). Una dimensione lontana tanto dalla composizione compiaciuta dell’inquadratura quanto dai facili jumpscares, tanto dal gusto adrenalinico e infantile per lo spavento gratuito quanto dall’orrore come esplicita metafora politica e sociale.

Case, fantasmi e affetti famigliari

Ecco allora che il regista trova un naturale alleato nella pagina letteraria, in storie spesso corali con al centro personaggi complessi e figure archetipiche. È proprio servendosi di queste storie che Flanagan veicola e definisce il suo universo tematico. Dalla casa nella sua doppia accezione di luogo fisico e costrutto sociale all’idea di famiglia che da questa deriva e da cui tutto il resto consegue, siano essi traumi, dipendenze o lutti impossibili da elaborare. Temi centrali sin dall’esordio di Absentia (2011) che esplodono definitivamente con il successo di Oculus, finendo col mischiarsi a un’altra fondamentale figura dell’immaginario collettivo, quella del fantasma inteso sia come forma del rimosso che come rappresentazione di ciò che è inesorabilmente Altro.

Il mostro e la soglia

Confrontandosi con Shirley Jackson e poi con Henry James nel dittico seriale di Hill House, Flanagan mette così definitivamente a punto la sua idea di cinema. Un cinema profondamente umanista dove a essere riportato al centro è ancora l’orrore in sé, il mostro in quanto tale. Un orrore fuor di metafora, non semplicemente allegorico ma insito nel senso stesso dei traumi che mette in scena, degli affetti traditi e di un passato ritornante nelle forme e nei modi tipici del gotico.

È proprio dalla concretizzazione del lutto e del rimosso, del resto, che Flanagan costruisce un cinema stratificato e corale come i romanzi con cui spesso si confronta. Un mondo fatto di fantasmi con cui bisogna inevitabilmente scendere a patti o imparare a tenere a bada (come farà il Danny Torrance di Doctor Sleep) e colmo di ossessioni da sviscerare, in cerca di quell’orrore pronto a emergere ad ogni inquadratura e a mettere in discussione lo statuto ontologico stesso del reale. Perché il mondo soprannaturale, nell’opera di Flanagan, è sempre contiguo al nostro, in cerca di varchi o spiragli (la galleria di Absentia, lo specchio di Oculus, la tavoletta di Ouija, il mondo onirico di Somnia, e così via) per entrare e sovvertirlo definitivamente.

Il potere delle parole

Aspetti, questi, che trovano una forza inedita proprio attraverso la pratica dell’adattamento e il connubio con un autore fondamentale per Flanagan come Stephen King. Tra questi lavori il più impegnativo, fondamentale e non poco criticato nella carriera del regista, non poteva allora che essere proprio Doctor Sleep. Una doppia rielaborazione capace di confrontarsi tanto con un classico della letteratura horror (e con il suo non memorabile sequel) quanto con un capolavoro della storia del cinema. Il sequel di Shining è infatti da una parte la conferma di quanto Flanagan, dopo l’apparentemente “infilmabile” Il gioco di Gerald, sia un autore capace di capire profondamente e fare proprio l’universo del Re del Brivido, e, dall’altra, un atto d’amore per un cinema inarrivabile ma con cui dialogare e confrontarsi, al di là di inevitabili omaggi o strizzate d’occhio.

Siamo fatti di storie

Eppure, l’essenza della poetica di Flanagan sopravvive anche oltre il fondamentale rapporto con la pagina scritta, al di là di riletture e riadattamenti. Un nucleo di senso che finirà con l’esplodere nell’opera forse più personale del regista, un horror umanista nerissimo e doloroso dove fede, amore e morte si mischiano in un incubo collettivo, toccando temi e riflessioni abissali per una produzione seriale. Nata, forse non a caso, da un suo stesso soggetto, Midnight Mass si fa così l’opera perfetta per riassumere il mondo del regista. Una miniserie horror che parte da una premessa inevitabilmente kinghiana per poi esplodere in una pessimistica riflessione su rapporti famigliari, senso di colpa, fede e paura.

Perché al centro di tutto, per Flanagan, restano sempre le storie e l’importanza di raccontarle, siano queste monologhi o racconti per ingannare la morte, come quelli che si scambiano i protagonisti tormentati di Midnight Mass o gli adolescenti malati terminali della serie The Midnight Club, o i resoconti che formano il puzzle de La caduta della casa degli Usher e che raccontano, ancora una volta, di padri e figli, di colpe ereditarie e di qualcosa al di là di tutto questo. Qualcosa che non possiamo e non potremo mai conoscere ma a cui non ci stancheremo mai di pensare finché qualcuno saprà raccontarcelo.

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