Chiamato a interpretare un eroe d’altri tempi Pierfrancesco Favino incarna la storia di Salvatore Todaro irrorandola della pietas che fu del suo personaggio. Del nuovo film di Edoardo De Angelis e del suo protagonista abbiamo parlato con Pierfrancesco Favino.
In occasione dell’uscita in sala di Comandante, film di Edoardo De Angelis che ha aperto Venezia, ecco una conversazione con Pierfrancesco Favino. Il film è distribuito da 01 Distribution.

Pierfrancesco Favino in Comandante
Per iniziare a parlare di Comandante parto dalla frase che compare nei titoli di testa in cui a emergere è un concetto di compassione che ricorda la famosa pietas latina. Non so se sei d’accordo, ma per me quello è il grande tema del film.
Se per Pietas si intende la capacità di mettersi nei panni di una persona inerme, senza dubbio lo è. Sto leggendo il libro di Aldo Cazzullo, Quando eravamo i padroni del mondo, in cui a colpirmi è il fatto che Roma sceglie come eroe fondatore la figura di uno sconfitto. Se pensi alla storia della nostra letteratura ma anche al cinema gli eroi sono sempre degli sconfitti che in qualche modo trovano all’interno del loro percorso, quasi sorprendentemente, una forza etica compassionevole che li spinge a fare gesti positivi, destinati a essere ricordati per sempre. Comandate parla anche di questo perché in fondo il cinema racconta di esseri umani che hanno nelle loro emozioni e nella capacità di agire il loro punto di forza. Per fortuna nel caso del nostro film si parla di azioni positive.
Parlando di emozioni e di essere umani la tua è un’interpretazione umanista come lo è la vicenda del protagonista. Mentre preparavo l’intervista ho trovato una frase di Boccaccio dedicata alle donne in cui si dice che “l’umana cosa è avere passione degli afflitti”. In questo senso in Comandante ricostruisci una personalità, quella di Salvatore Todaro, in cui gli aspetti legati alla mascolinità, propri della professione militare, convivono con una dolcezza che potrebbe essere quella del padre verso i propri figli. Nel “tuo” esercizio del comando maschile e femminile diventano una sola cosa.
Boccaccio è il primo che mette le donne al centro della sua produzione. Comandante è un film in cui c’è una “sonora” assenza delle donne. Mi sono sempre chiesto se quello che succede in Comandante sarebbe accaduto se ci fossero state loro. Sicuramente la forza della femminilità è molto presente nelle lettere scritte da Todaro alla propria moglie. Essere Comandante implica anche essere solo. Le responsabilità che un uomo prende quando è al comando di una missione nascono dalla consapevolezza dell’individualità delle sue scelte e dal fatto di non poter mostrare all’equipaggio le possibili indecisioni. Al contrario in Comandante il costante riferimento alle lettere realmente scritte da Todaro alla moglie Rina, – che peraltro ho anche letto -, permette di vedere ciò che nel film non trova spazio, ovvero il dubbio e l’incertezza che alberga in ciascuno di noi quando dobbiamo prendere decisioni importanti. Nel suo caso lo sono ancora di più perché la guerra le mette in relazione con questioni di vita o di morte.

Il rapporto tra marito e moglie nel film
Mi ha colpito nella primissima parte, quella relativa al rapporto con la moglie, la sequenza in cui Silvia D’Amico gli dice di provare a essere felice nonostante la salute lo tenga lontano dal suo lavoro. In quel frangente è l’energia dei tuoi occhi a supplire alla debolezza del corpo, facendoci sentire la ribellione del personaggio rispetto a quella condizione.
C’è una frase da lui pronunciata che se penso all’oggi è davvero fuori dal tempo. Todaro afferma: “La felicità, Rinuccia mia, non la pretendo, è un sentimento compiuto”. Si tratta di parole che adesso nessuno direbbe più perché tutti vogliono essere felici. Se ci pensi, infatti, la nostra società è immobile, convinta com’è che la nostra massima ambizione è essere felici, salvo poi guardarsi intorno e vedere che quasi nessuno lo è veramente. Dunque sono state più di tutto quelle parole a darmi il senso dell’epoca: quella in cui un uomo ha il coraggio di dire no a una moglie che pure gli prospetta una realtà serena, fatta di vicinanza e comodità.
Quella frase ha continuato a risuonarmi dentro durante la lavorazione del film, restituendomi il senso dello spirito di quest’uomo che sembra quasi un eroe greco. Questo per dire che dovremmo avere una visione della guerra letteraria come di una delle forze che ha agitato da sempre gli esseri umani.
A proposito di eroi greci, in Todaro c’è lo stesso rispetto verso il nemico che avevano i soldati degli eserciti elleni, i quali, per non deturpare il corpo degli avversari, si dotavano di lance che, a differenza del gladio romano, avevano una punta finissima, capace di uccidere senza sfigurare i corpi.
Sì, tanto è vero che sia nella letteratura, sia nella mitologia, alcune guerre scoppiavano nel momento in cui i corpi non venivano trovati o restituiti. In qualche modo ritorniamo alla pietas. La mia fatica è stata quella di comprendere un uomo che dice: “La mia vittoria è la battaglia”. Forse per far sì che non ce ne siano più dobbiamo considerare che esiste una fascinazione della guerra. Abbiamo paura a dirlo, ma ci sono persone che realizzano sé stesse nello scontro. È un sentimento che alberga dentro di noi in una maniera naturale e primigenia. Noi giustamente guardiamo le guerre come un orrore sociale e pure, soprattutto in questo momento, ne siamo circondati in una maniera orribile. Credo che ne faremmo molte di meno se riconoscessimo il fascino che queste ancora esercitano dentro di noi.

Il modo di agire del personaggio di Pierfrancesco Favino in Comandante
All’inizio del film Todaro sembra una sorta di “cuore di tenebra” e in questo mi ha fatto ricordare il Conrad dell’omonimo romanzo. Rispetto a quello il tuo personaggio compie il cammino opposto: mentre l’opera di Conrad e la sua versione filmica (Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, ndr) raccontavano l’inabissarsi dell’animo umano di fronte alla visione del male, in Comandante succede l’esatto opposto perché al manifestarsi della tenebra Todaro vi si contrappone con misericordia e compassione.
Sì, è vero. C’è un altro racconto di Conrad, mi pare si intitolasse L’ospite segreto che parla di un inconscio sommerso. In Comandante per fortuna questo torna in superficie con la sua capacità di poter disubbidire alle consegne per far trionfare il bene. Il protagonista mette davanti a tutto la vita dell’uomo, qualsiasi siano gli ordini ricevuti.
Come attore interpretare Salvatore Todaro richiedeva una forte implicazione psicologica, sollecitata dal fatto che sia lui, sia i suoi uomini, in quanto sommergibilisti, combattevano contro un nemico che non aveva né faccia né nome. In più, il fatto di essere immersi tutto il tempo nell’acqua ti chiedeva di evocare la parte più ancestrale del tuo essere.
Quella del sottomarino è un’esperienza cieca e soprattutto uditiva. Se parli a qualsiasi sommergibilista ti dirà che è in grado di riconoscere i movimenti dei sottomarini grazie al loro suono. Questo porta il corpo dell’essere umano in una condizione del tutto diversa. Aggiungici che l’occhio al periscopio è solo quello del Comandante, mentre gli altri sono immersi nel mare senza accorgersene perché non c’è un oblò. Non è come nello spazio dove tu hai la possibilità di misurare la distanza da qualcosa. Non è possibile neanche con le tecnologie attuali, figurati all’epoca. Oggi ci sono i sonar, un tempo c’era l’idrofono, con i marinai che si esercitavano per conoscere di quante pale fosse fatta un’elica, al fine di capire che tipo di natante avessero di fronte. Pensa che a un certo punto le imbarcazioni nemiche incominciarono ad avere meno eliche proprio per ingannare il sottomarino. I sommergibilisti procedevano per intuizione, tanto è vero che ancora adesso non c’è mai come indicazione da parte del microfonista la certezza di avere di fronte una determinata imbarcazione. Si ragiona in termini di probabilità, facendo delle ipotesi. Dunque la decisione che devi prendere come Comandante è legata a un margine di errore di cui non si può fare a meno. Una volta giù sei veramente lasciato al tuo destino quasi come se fossi Ulisse. Ancora di più nel momento in cui, come Todaro, sai che stai compiendo un gesto di disobbedienza.

Immergersi nel personaggio
In Comandante racconti la storia di Salvatore Todaro ma, come suggerisce il titolo, anche cosa voglia dire comandare. In tale ottica la frase che precede l’inizio del film è molto forte e indicativa dell’importanza delle distanze fisiche e psicologiche tra gli uomini. Il comandante del sommergibile, e quindi il tuo personaggio, a differenza di altri condottieri, è costretto a vivere con i propri soldati in un luogo stretto e circoscritto per cui nel suo ruolo di guida non può mai bluffare, né mostrarsi debole. I soldati se ne sarebbero accorti subito.
Non solo non può bluffare, ma c’è una cosa meravigliosa del sottomarino che esiste per necessità. Parlo di una gerarchia legata ai compiti di ciascuno. Se tu guardi un’esercitazione dei sommergibilisti è come assistere a un passaggio velocissimo di informazioni verso chi deve prendere le decisioni finali. In quel momento ti accorgi che, in ultima analisi, c’è una squadra in cui le gerarchie hanno a che fare con l’impiego di ciascun elemento e con le responsabilità delle decisioni da prendere.
È davvero straordinario come nel rapporto che c’è all’interno di un battello questo ordine di gradi scompaia per creare una squadra simile a certe compagini sportive. Si tratta di una famiglia che a ogni missione deve essere ricreata. Basta sentire i racconti dei sommergibilisti per capire il senso di appartenenza e anche il voluto mistero rispetto a quello che è la loro esperienza.
Senso di appartenenza a cui si appella il tuo personaggio quando lo vediamo marciare in testa ai suoi uomini, in un crescendo canoro che esorcizza la morte e rilancia lo spirito di corpo.
Sì, tra l’altro è una scelta bellissima quella di Edoardo De Angelis e Sandro Veronesi: quella di lanciare questa marcia non con un inno militare, ma con una canzone pop, Un’ora sola ti vorrei, che trovo molto rappresentativa dell’italianità. Che la marzialità non sia per forza legata a quello che ci aspettiamo, ma che l’inizio di un percorso simile al rapporto tra un padre, anche severo, e i propri figli, nasca da una canzone ascoltata su un disco la trovo una grandissima intuizione.

Responsabilità e vicinanza
Parlando di responsabilità e vicinanza, nel film c’è quella bellissima scena in cui decidi di far salire i naufraghi contravvenendo alle consegne ricevute. Il comandante è innanzitutto chi valuta e decide il da farsi prendendosene la responsabilità in prima persona. Lì la vicinanza dei corpi viene trasfigurata dalla tua voce che diventa dominante proprio per trasmettere quella convinzione ai commilitoni che in quel momento stanno rischiando anche la loro vita.
Non solo stanno rischiando anche loro, ma non tutti sono d’accordo, e quella è una delle poche occasioni in cui si vede. Peraltro siamo di fronte a un uomo come Todaro, vittima del dolore fisico, e dunque costretto a fare uso di morfina. Quindi, forse in quell’attimo agli occhi del suo equipaggio può risultare non così affidabile come ci si aspetterebbe. D’altronde lui fa una cosa contro tutti, compresi alcuni uomini del suo equipaggio. Prende una decisione contraria alle regole, consapevole delle conseguenze che questo può avere sulla sua carriera militare, ma soprattutto sulle vite degli altri e sulla sua. Questo aumenta il senso eroico, ma anche la profonda convinzione in quello che fa.

Pierfrancesco Favino oltre Comandante
Pensando alla tua carriera volevo proporti tre passaggi significativi. Il primo riguarda l’incontro con Judi Dench che ti consiglia di imparare per bene l’inglese. Rispetto al seguito della tua vita artistica è stato un consiglio importante. Parliamo di una peculiarità, quella dell’attenzione verso il parlato, che oggi è diventata una caratteristica prioritaria del cinema anglosassone.
Sarebbe stata una caratteristica anche nostra. Se pensi a Volontè, a Giannini alla scrittura di Scola, a Gassman e Tognazzi, tutti hanno spessissimo usato l’inflessione. Sicuramente nel mondo anglosassone questa è la regola. Noi con il doppiaggio siamo abituati a non riconoscere le differenze. Se guardiamo oltre i confini nazionali, quando John Osborne scrive Ricordo con rabbia, finalmente anche nel mondo della scena inglese, così come nel cinema, si fa largo il modo di parlare della gente reale e non la convenzione teatrale e letteraria che esisteva prima. Peraltro trovo che lo strato culturale del nostro paese sia fatto proprio di questo: come dice il film, parlando di “bordello meraviglioso e putrido che è l’Italia”. Non era solo una cosa di allora. Se oggi tu fai un film in calabrese, a Milano lo vogliono doppiato o sottotitolato, quindi vuol dire che nella nostra realtà continuano a esistere le particolarità linguistiche. In Comandante ci sono. Gli unici che parlavano italiano erano gli ufficiali perché solo questi avevano un titolo di studio. Tornando all’incontro con Judi Dench, posso dirti che è stato meraviglioso. Tra l’altro mi stai facendo ricordare una cosa bizzarra perché due giorni fa ho trovato due foto che lei mi aveva inviato.
Ne Le chiavi di casa hai un ruolo di pochi minuti, ma l’intensità drammatica della tua interpretazione basta per farti restare impresso nella memoria dello spettatore. De L’industriale di Giuliano Montaldo sei invece protagonista assoluto. Non solo si tratta del film di una grande autore, ma anche di un ruolo complesso che ti permette di mettere in mostra grande ecletticità.
Mi fa piacere che mi ricordi questi film. Le chiavi di casa è stato di sicuro l’ingresso in un cinema importante. Non avrebbe avuto il clamore che ebbe per me quella partecipazione se non fosse stato per la bravura di Gianni Amelio. Quindi è chiaro che prendere parte a un suo film, nonostante avessi già fatto ruoli un pochino più grandi, ha significato essere visto, ma non solo. Ha significato essere nelle mani di un autore che rende cento volte più importante quello che fai. Ad Amelio devo quei famosi quattro minuti, sapendo che sono cesellati in un certo modo perché nelle mani di un grandissimo autore come lui.
L’industriale è stato un incontro meraviglioso con un signore del nostro cinema che purtroppo non c’è più, e che mi ha fatto desiderare di fare questo mestiere attraverso le sue opere e per gli attori con cui ha lavorato. Per me è stato un onore poter avere nella mia filmografia un lungometraggio firmato da Montaldo e un ruolo sicuramente complesso in un film che guardava oltre, perché poi la vicenda del protagonista rifletteva ciò che stava iniziando in quel momento in Italia, ma che poi è diventato sempre più visibile e presente rispetto a quando Giuliano l’ha raccontato.