Tutto il cinema di Mario Martone in una conversazione che ne approfondisce forma e temi a partire dagli esordi per arrivare alle opere più recenti, da Morte di un matematico Napoletano a Nostalgia.
Ripercorriamo con una conversazione approfondita tutto il cinema di Mario Martone, regista cinematografico e teatrale e sceneggiatore.
– Foto di copertina: di Mario Spada –
Il cinema di Mario Martone
Se penso alla parola origini riferito alla tua filmografia la prima cosa che mi viene in mente è Napoli, laddove tutto è iniziato. Lì hai girato il tuo film d’esordio, Morte di un matematico napoletano, raccontando la capitale partenopea come una sorta di città fantasma, popolata com’è dai ricordi del protagonista. Il film è importante anche nello stabilire le costanti poetiche di quei luoghi: penso al rapporto di odio e amore e all’adesione alla sua parte più popolare e vitale che a me ha ricordato quella di Pier Paolo Pasolini nei confronti di Roma.
L’origine mi sembra un tema giusto da cui partire perché è chiaro che la città dove sono nato mi ha segnato in maniera decisiva. Anche se vorrei dire che faccio dei film a Napoli, non su Napoli, e che si tratta di lungometraggi molto diversi tra loro. È ovvio che per me il campo d’indagine sull’umano, sulle sensazioni, sulle emozioni si esercita sul tessuto di questa città, perché è dove sono nato e ho vissuto gran parte della mia vita. È lì che i miei pensieri hanno trovato spazio per esprimersi.
Di Renato Caccioppoli, il matematico alla cui figura ho dedicato il mio primo film, ero venuto a conoscenza in maniera indiretta, tramite il racconto di un amico. Su di lui non esisteva niente di scritto: sapevo che era morto nel 1959, l’anno in cui ero nato. Il palazzo del film è quello dove ho abitato per molti anni: la porta di casa sua la guardavo dalla finestra della mia stanza. Lui non c’era già più quando sono venuto a sapere tutto questo dal mio amico ma in quel momento è come se il suo fantasma si fosse presentato. Dunque quando definisci Morte di un matematico napoletano come un film su una città fantasmatica è giusto. Parliamo di una città più mentale che reale. Per contro L’amore molesto è proprio l’opposto. C’è sempre Napoli, però parliamo di un’origine diversa, perché quello è un film di corpi, di sudori, di rumori. Peraltro ne L’amore molesto il suono è importantissimo. Morte di un matematico napoletano è rarefatto quanto L’amore molesto, invece, esplode. Del resto era questo che mi aveva attratto del romanzo di Elena Ferrante.
In questo senso con Nostalgia il racconto di Napoli si arricchisce di altre suggestioni perché tu la descrivi come una città più mediterranea che italiana, direi quasi mediorientale, con il personaggio di Felice, interpretato da Pierfrancesco Favino, che fa trait d’union tra oriente e occidente. Peraltro il film è pieno di suoni, colori e cose che sono testimoni di tale comunione.
Felice viene dall’Egitto e racconta di essere stato anche in Libano, per cui sì, questa cosa che dici è giustissima, anche solo per l’inizio: quando attraversa la Sanità, lui potrebbe essere in una qualunque città araba del mediterraneo. Lo sperdimento che tu cogli per me era uno degli aspetti più importanti del film.
La sensazione di sperdimento
Lo sperdimento presente nei tuoi film deriva anche dal tipo di messinscena utilizzata. In Teatro di Guerra a un certo punto non si capisce più se ciò che avviene ai personaggi appartenga alla finzione scenica o sia il frutto della violenza che si respira nella periferia del quartiere in cui si trova il teatro. Ad acuire questa sensazione contribuisce anche il parallelo tra Napoli e Sarajevo, città eternamente in “guerra”.
Teatro di guerra è un buon esempio per capire che per me la cosa interessante non è trovare il mondo a Napoli, ma guardare il mondo da Napoli, considerare Napoli come una qualsiasi altra città del mondo, collocata nell’area mediterranea e con un rapporto in qualche maniera problematico con l’Italia. Ossia, fuori dalla trappola della autoreferenzialità in cui la vediamo cadere spesso. Poi, ti dico, quando ero ragazzo e facevo il teatro d’avanguardia per me il rapporto privilegiato era tra Napoli e New York, città in cui non ero ancora mai stato. Vedevo Napoli e la mettevo in rapporto con il nuovo cinema americano di quegli anni. Secondo me è importante sentire che la città è fatta anche e soprattutto di periferie. Di Napoli si tende molto a privilegiare il centro, mentre per me è sempre stato importante andare nelle periferie. Il mio rapporto con il teatro Nest a San Giovanni a Teduccio, guidato da Francesco Di Leva con cui ho fatto Il Sindaco del rione Sanità, mi fa dire che Napoli è una città in continuo movimento. Hai ragione a dire che per me è un luogo centrale, un luogo dell’origine, ma voglio sottolineare che per me è anche un territorio dinamico. A volte doloroso, certo dolente, però vitale e dinamico. Se non fosse così non riuscirei a filmarlo.
A proposito della tua attenzione a New York e al cinema americano, in Nostalgia c’è quell’immagine che a me ha ricordato C’era una volta in America. Mi riferisco all’inquadratura in cui il particolare del vicolo è rotto dalla presenza imponente del ponte che lo sovrasta. Del film di Sergio Leone Nostalgia sembra voler riprendere un’iconografia altrettanto simile.
In genere non faccio citazioni, però, così come siamo fatti tutti di quello che mangiamo, noi registi lo siamo dei film che abbiamo visto e amato, e questo vale anche per i critici e per gli spettatori, dunque è inevitabile che si creino questo tipo di accostamenti visivi. Il ponte della Sanità mi fa dire che Nostalgia non è un film ambientato a Napoli, ma in un suo specifico quartiere. Il lungometraggio si svolge tutto nella Sanità, cosa che per me, come regista, costituiva una grande attrazione. L’idea era quella di rappresentarlo come un labirinto, restando sempre lì dentro, perché poi dalla Sanità non si esce mai. Il ponte è un elemento molto forte e simbolico di questo quartiere.
Nostalgia è un film che è stato amato negli stati Uniti, a cominciare da Martin Scorsese. Quando abbiamo aperto la campagna Oscar, alla platea dei giurati dell’Academy a New York lo ha presentato John Turturro. È un film in cui credo si senta il mio amore per il cinema americano degli anni ’70. E tu hai fatto un interessante riferimento perché di C’era una volta in America (che è di fatto il film americano di Sergio Leone) Nostalgia ripropone il tema dell’amicizia tradita.
È stato un rimando molto forte, ma al tempo stesso spontaneo.
Certo, hai ragione, perché poi è chiaro che i segni visivi si intrecciano con i temi narrativi.
Napoli nel cinema di Mario Martone
Napoli definisce anche un’altra caratteristica del tuo modo di fare cinema che è quella del movimento. Fin dal primo film infatti non hai mai smesso di rintracciarne la topografia attraverso i pellegrinaggi dei tuoi personaggi, quasi mai fermi e quasi sempre intenti ad attraversarla, soprattutto a piedi. Un movimento, questo, con cui si traduce il desiderio di aderire alla città: di esserne parte integrante e non solo testimone.
Guarda, intanto è abbastanza incredibile che a distanza di così tanti anni Nostalgia sia una sorta di fratello de L’amore molesto, film uscito nel 1995. Nonostante sia passato tanto tempo la strada percorsa da Felice all’inizio, prima di entrare nella Sanità, via Foria, è la stessa che percorre Delia ne L’amore molesto quando torna a casa dopo il funerale della madre. È come se nella stessa strada, nello stesso formicolio di persone, io prendessi una persona e cominciassi a seguirla con la macchina da presa. Questa persona mi porterà in una parte della città e nel suo passato. Succede così anche con Delia. A un certo punto vedo una donna che cammina per strada, la osservo, incomincio a seguirla e da lì nasce la storia. Tutti i miei film sono fatti “in cammino”. C’è una persona che comincio a pedinare e questa è come se si muovesse su una mappa. Ho fatto così anche con Giacomo Leopardi ne Il giovane favoloso. Nella parte napoletana il film è costruito sul pedinamento del poeta.
Tra L’amore molesto e Nostalgia
A proposito dei collegamenti tra L’amore molesto e Nostalgia, mi ha colpito quello che riguarda i protagonisti, i quali, in modi diversi, si fanno portatori spirituali delle figure materne. Delia a un certo punto diventa Amelia, rivivendone in qualche modo il percorso esistenziale e finendo per spingersi anche laddove la madre non era riuscita; Felice, invece, dopo la morte della madre, deve continuare a portarla dentro di sé, come gli rammenta il prete al termine delle esequie. Tutto questo a testimoniare come sia forte il legame tra i protagonisti di questi film.
Non avevo mai pensato a questa cosa, ma è vero, il legame esiste ed è molto forte. Le due madri sono donne molto diverse, però entrambi i film hanno al centro un rapporto problematico con la figura materna. Dire che la madre può simboleggiare il proprio luogo di origine, e quindi la città, è un passaggio che risulta naturale e chiaro.
La scena di amore filiale in Nostalgia a me ha ricordato i film di Sokurov, Padre e figlio e Madre e figlio. Nel modo in cui Felice si prende cura della propria madre, lavandola e accudendola, ho ritrovato un’altra caratteristica a cui tu hai in qualche modo accennato parlando della presa di distanza dall’auto rappresentazione di Napoli e dei napoletani. Il tuo cinema, anche nelle scene forti, evita il melodrammatico, scegliendo un’asciuttezza e una sobrietà che in ogni momento valorizzano la dignità dell’essere umano.
Sono molto contento che tu mi dica questo, penso ci sia una grande dignità in ogni essere umano che deve essere preservata quando lo si filma, in qualunque posto al mondo tu vada. In una città con tante contraddizioni come Napoli a me sembra importante restituire la sensazione che ho quando incontro le persone per le strade della città. Mi viene naturale attraverso il cinema restituirne l’umanità con lo stesso sguardo che ho nella vita reale. Anche in un personaggio come l’Eduardo Scarpetta di Qui rido io, film in cui gioco con il sopra le righe con la gioia di farlo e dove il dentro e il fuori, il teatro e le case, sono sempre dei palcoscenici, anche in quella esagerazione e in quella spinta comica, comunque ho guardato Scarpetta, i suoi figli e le sue donne come esseri umani. Non c’è stato bisogno di togliere nulla al suo personaggio perché gli eccessi fanno parte del suo carattere ed era comunque un’esagerazione che era parte della sua umanità. Piuttosto è stato bello provare a raccontarli nelle loro pieghe esistenziali: andare dietro le quinte e vederli nelle zone d’ombra.
Non solo cinema per Mario Martone: il teatro
La parola origine riguarda anche il teatro, ambito dal quale tu e molti dei tuoi collaboratori e attori siete partiti, prima di arrivare al cinema e a cui hai dedicato due film come Teatro di Guerra e appunto, Qui rido io. Attraverso le diverse scelte di regia ragioni sul significato di cosa vuol dire fare teatro, distinguendo tra quello militante, che si fa per denunciare e far riflettere, e l’altro, che vive per essere visto e che è tutt’uno con il suo pubblico. Non è un caso dunque che in Teatro di guerra il pubblico non ci sia e che la finzione delle prove si sovrapponga alla realtà della malavita napoletana e alle bombe di Sarajevo. A differenza del secondo, dominato dall’atto del vedere e da un pubblico che, di volta in volta, coincide con il tuo sguardo, con quello di Scarpetta e per ultimo, con quello del piccolo Eduardo De Filippo.
Esattamente, certo, infatti il tema del fare teatro per il pubblico si affaccia anche in Teatro di guerra proprio nel personaggio interpretato da Toni Servillo. Dunque come giustamente dici, così come L’amore molesto e Nostalgia, anche Teatro di guerra e Qui rido io hanno un forte legame: sono due film sul teatro e, soprattutto attraverso il personaggio di Toni, è come se da Teatro di guerra il discorso trasmigrasse in Qui rido io, portandosi dietro tutta una serie di riflessioni.
Se vogliamo la compagnia che prepara lo spettacolo da portare a Sarajevo in Teatro di guerra si pone questioni simili a quelle degli esponenti del teatro d’arte in Qui rido io: parlo di Salvatore Di Giacomo, Fernando Russo e gli altri poeti. Sopra ogni cosa c’è l’idea che comunque l’arte sia una forma di battaglia. Io le do un grande valore, come se fosse qualcosa che appartiene alla vita. In realtà, secondo me, l’arte è la cosa migliore che la specie umana abbia saputo creare. Forse qualcuno potrebbe dire che l’invenzione suprema sia la religione, ma secondo me quella è un’arma a doppio taglio. L’arte invece è un modo per esorcizzare la paura della morte e vivere molto meglio. Molto banalmente pensa a come sarebbe la nostra vita senza la musica, senza le canzoni. Non parlo dal punto di vista culturale, ma semplicemente umano. Avendo a che fare con la vita l’arte è per forza una battaglia. Ecco perché mi piace spesso fare film sugli artisti e calarmi nella temperie delle loro lotte. Con Toni Servillo abbiamo cominciato insieme: avevamo diciassette anni ed eravamo ragazzini nel campo del teatro d’avanguardia: da allora abbiamo avuto una storia lunghissima. Insieme abbiamo creato Teatri uniti e ancora oggi io collaboro, oltre che con Toni, con Andrea Renzi, Pasquale Mari, Cesare Accetta, Iaia Forte, Roberto De Francesco, che erano protagonisti di quell’avventura. Ma anche in Teatri Uniti ci sono state delle battaglie! Quando ho pensato di fare il film su Scarpetta è stato immediato pensare a Toni, non poteva che essere lui. Quello era un film che ci aspettava da quarant’anni.
La libertà nel cinema di Mario Martone
Il tema della libertà, declinata in termini artistici, esistenziali e politici, è qualcosa che appartiene alle vite dei tuoi personaggi in maniera viscerale. In Nostalgia Felice sfida la morte piuttosto che rinunciare a Napoli. Renato Caccioppoli paga il prezzo di essere un comunista eretico, i giovani di Noi credevamo sono dei cospiratori pronti al martirio, mentre per Leopardi libertà significa lasciare Recanati e iniziare a tuffarsi nell’agone della vita. Senza dimenticare che è la supremazia di tale ideale a caratterizzare la comunità di artisti in Capri Revolution.
Forse i personaggi a cui un regista dà vita in un modo o in un altro sono comunque sempre degli autoritratti, perché alla fine si proietta sempre quello che si ha dentro come aspirazione. Io non so se sono sempre stato capace di essere libero. Posso però dirti che la mia anima l’ha sempre desiderato. Da qui la mia passione per le persone in cui riconosco la capacità di esserlo a qualunque costo. Per questo alla fine per me è naturale portare sullo schermo questa sensazione, questa visione delle persone e del mondo.
L’odore del sangue è tra i tuoi film, quello che più mi ha affascinato, soprattutto per il suo essere alieno al resto della tua filmografia. Mi sono fatto l’idea che lì ci sia anche una riflessione sul tuo essere intellettuale in rapporto alla vita.
Guarda, chi ha letto L’odore del sangue di Goffredo Parise e ne è stato colpito, come è capitato a me, è chiaro che sente qualche cosa che in un certo modo gli appartiene. Si sente per forza coinvolto. L’odore del sangue è un film che sicuramente ho fatto in un periodo della vita in cui sentivo il bisogno di affrontare certi temi, e cadeva in un periodo in cui stavo mettendo in scena le opere di Mozart e Da Ponte, che di per sé sono molto perturbanti e dove la questione sessuale nel rapporto uomo-donna è materia incandescente. Basta pensare a Don Giovanni. Però in genere quando si organizzano le retrospettive dei miei film L’odore del sangue in linea di massima non viene nemmeno nominato.
Ingiustamente, secondo me.
Se ti può rincuorare c’è un club di grandissimi sostenitori di questo film! Diciamo che con L’odore del sangue ho voluto mettermi in gioco anche con ciò che riguarda l’inconscio, le sue pulsioni e il rapporto con la sessualità. Anche in relazione al tempo che passa, tema che il romanzo di Goffredo Parise rende interessante mettendo in relazione due persone mature.
Gli interpreti e la parola
Il tuo cinema è interpretato da grandissimi attori dotati di grande personalità e con una formazione di origine teatrale. Di conseguenza i tuoi sono film in cui i corpi, ma anche la drammaturgia della parola hanno importanza primaria.
Certamente. Nei miei film i dialoghi sono molto importanti e a volte anche molto lunghi. Pensa al dialogo finale nell’incontro tra Felice e Oreste in Nostalgia. Dura circa nove minuti: è come se avessi sfidato la lunghezza dei dialoghi di Quentin Tarantino!
In generale per me i dialoghi sono dei momenti centrali perché rivelatori. Spesso le scene dei miei film vi si muovono sinuosamente intorno, come il ragno sulla ragnatela con la preda, fino al momento del loro incontro. Pensarli così significa affermare che la parola sia un fatto importante per noi tutti. Possiamo nascondere tante cose, ma poi arriva un momento in cui la parola esplode e prende il sopravvento, diventando tante cose e persino violenta e disturbante. A proposito dell’enorme importanza che attribuisco ai dialoghi mi ricordo quando con Carlo Degli Esposti si faceva Noi credevamo, film che ci ha impegnato ben sette anni. Non si riusciva a chiuderlo ed è stata un’impresa estenuante però a un certo punto o facevo quel film o morivo. Mi ricordo che ci fu una riunione con i responsabili di Arte’ che per l’ennesima volta volevano rinviare perché i dialoghi erano troppo lunghi. A un certo punto Carlo tagliò corto dicendo: “i film di Mario sono pieni di dialoghi che mi sono sempre piaciuti moltissimo. E dunque non gli chiederò di tagliare un rigo di questi”. Che produttore! Fu talmente risolutivo da chiudere per sempre la faccenda. E cosa sarebbe oggi Noi credevamo senza i suoi dialoghi?
Caratteristica della tua messinscena sono due tipi di immagini: quelle che guardano verso l’alto, generalmente rivolte alla sommità dei palazzi e verso il cielo, quasi a ricercare una via di fuga alla claustrofobia dei vicoli. E le altre, di segno contrario, che dall’alto guardano in basso, come per far sentire la gravità del momento e il peso delle scelte prese dai personaggi. Succedeva per esempio in Morte di un matematico napoletano, nella scena che precede – fuori campo – la sua morte.
Per me il cinema è verticale più che orizzontale e questo forse deriva dal modo in cui mi muovo e guardo Napoli, che secondo me è una città verticale.
Stratificata, cioè costruita sovrapponendo diverse epoche storiche.
Esatto, a Napoli c’è una parte di città che non vedi. È comunque una città verticale e questo spinge la mdp a fare quei movimenti. Esiste sempre un rapporto tra cinema e architettura, tra il cinema e la città. C’è un preciso modo di guardare e ogni inquadratura è il punto di vista di dove ti trovi, da dove stai guardando, del perché stai lì. Sono cose che vengono in maniera istintiva. Non è che io ci pensi più di tanto. Nei film mi viene naturale usare la macchina da presa in questo modo.
Martone come regista e spettatore
Parliamo del cinema che ti piace sia come regista che come spettatore.
Mi piace un cinema fatto di film molto diversi e questo spero si capisca dalle cose che faccio. Come ti dicevo mi sono formato negli anni settanta nel momento in cui il nuovo cinema americano e il nuovo cinema tedesco erano al massimo del loro fulgore. Dunque da un lato amo Altman, Scorsese (il vostro Taxi driver!) e Coppola e dall’altro Herzog, Wenders, Fassbinder. Quelli sono stati riferimenti della mia adolescenza.
Amo Rossellini, Pasolini che per me sono delle stelle polari. Oggi sono contento che abbia vinto il Leone d’oro Lanthimos, regista che stimo molto e che tra l’altro ho contribuito a premiare all’inizio della sua carriera quando ero in giuria a Venezia. Ma insomma, in occasione della mia retrospettiva organizzata lo scorso anno dal festival di Pesaro, i curatori mi hanno chiesto di stilare, per la monografia pubblicata da Marsilio, una classifica dei miei dieci film preferiti. Non sapendo davvero che pesci pigliare ho deciso scherzando di andare in ordine alfabetico, incominciando con quelli che iniziavano con la A. E dunque: Accattone, Amarcord, l’Atalante, Au hasard balthasar, A bout de souffle, After hours, Andrej Rublev, Apocalypse now… Insomma, non è bastata la A a contenerne dieci!