In occasione dell’uscita di Nuovo Olimpo, Netflix propone una retrospettiva sul regista turco Ferzan Özpetek che include Le fate ignoranti. Il film, del 2001, ha dato la notorietà al regista turco, il quale aveva già realizzato altri due film: Il bagno turco (1997) e Harem Suare (1999). Nel 2022, Disney+ ha commissionato la serie tratta dal film, sempre con Özpetek regista e con protagonisti Cristina Capotondi, Eduardo Scarpetta e Luca Argentero.
Che cosa racconta Le fate ignoranti
La storia è quella di Antonia, interpretata da Margherita Buy, che si ritrova vedova a seguito di un incidente occorso al marito Massimo, ruolo ricoperto da Andrea Renzi. A seguito di una dedica scritta su un quadro conservato dal marito, la donna scopre la presenza di un’amante. Decisa ad affrontare la rivale, Antonia scopre che, in realtà, l’amante è Michele, portato sullo schermo da Stefano Accorsi.
Il giovane vive a Testaccio e la sua casa è sempre frequentata da un gruppo eterogeneo di amici. Inoltre, Michele ospita Ernesto, interpretato da Gabriel Garko, malato di AIDS conclamato e per questa ragione allettato. Antonia inizia a frequentare la casa, tra la voglia di scoprire quella parte del marito che le manca e la fascinazione che il gruppo ha su di lei. Michele e Antonia passano dalla rivalità a un’ interna complicità. Questo spinge la donna a decidere di allontanarsi definitivamente dall’uomo e dai suoi amici.
La rivoluzione omosessuale nel cinema italiano
Le fate ignoranti non è stato il primo film di Özpetek ad affrontare la tematica dell’omosessualità celata. Già ne Il bagno turco il protagonista, interpretato da Alessandro Gassmann, era la rappresentazione del closeted. La novità del film del 2001 era la sua connotazione fortemente politica, riscontrabile dalla data di uscita volutamente legata al Giubileo romano, avvenuto l’anno precedente.
Quando si entra in contatto con il gruppo di Michele, la percezione è quella di vedere una realtà che, fino a quel momento e con rarissime eccezioni, non si era mai vista nel cinema italiano. Questa modalità non era legata solo agli atteggiamenti, bensì anche al mondo lgbtqi+ che ne faceva parte. Un personaggio transessuale che racconta la sua difficoltà a farsi accettare in famiglia è stata una emancipazione. Stesso discorso vale per la protezione rivolta dagli amici ad Ernesto, malato di AIDS, in un periodo in cui c’era ancora molta paura e ignoranza legate al virus.
Anche la rappresentazione di una famiglia queer ebbe la sua importanza: composta da persone non necessariamente legate da vincoli parentali o legali bensì da affetto sincero. Il loro ritrovo a tavola e la convivialità sono rimandabili ai pasti familiari, unico momento che era dedicato esclusivamente al rifocillamento, soprattutto emotivo.
Il cinema di Özpetek tra finzione e realtà
Özpetek presenta questo mondo con il suo stile, inserendo anche l’ esperienza autobiografica. Il punto di forza è proprio la vicinanza alla realtà queer di quegli anni, fatta di amori nascosti ma anche di trasgressioni e di discriminazioni. Il regista non gioca solo con l’uso della telecamera ma coinvolge l’ambiente romano a tutto tondo. Testaccio diventa il set: le strade trafficate della città, il Tevere dove Ernesto cerca rifugio, i portoni sotto cui ripararsi durante la pioggia, il Gazometro che si vede in lontananza.
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Le fate ignoranti – Gabriel Garko
Özpetek, rispetto ad altri registi, gioca meno sulla chiave ironica e mette in mostra sfumature sentimentali, andando a colpire lo spettatore su più fronti. La fotografia di Pasquale Mari sublima i diversi momenti della narrazione, così come il montaggio di Patrizio Marone che ne cattura le essenzialità. Tutto è ben proporzionato, senza eccessi, come le scenografie di Bruno Cesari o i costumi di Katia Dottori, i quali possono apparire miseri ma, in realtà, sostengono in pieno il dramma. E anche la musica di Andrea Guerra ha un ruolo significativo in questo progetto: sottolinea momenti emotivi senza sovrastarli.
Quando gli attori vengono ben guidati
In questo meccanismo, rasente la perfezione, si incastrano magnificamente anche gli interpreti. Margherita Buy, con la sua solita aria trasognata, riesce a farci vivere le emozioni di una donna che vuole recuperare quella parte del marito che ritiene di aver perso. La sua interpretazione composta, anche nel dolore, mette in risalto tutte le altre sfaccettature, inclusa quella di Michele, interpretato da un giovane Stefano Accorsi. Accorsi riesce a donare la dignità a un personaggio che sarebbe stato facile rendere stereotipato o, peggio ancora, melodrammatico. Persino nella scena che prelude a un threesome, l’attore riesce a trasmettere allo spettatore il dolore della sua vedovanza.
La morte del consorte è ciò che, in quel momento, lega anche Antonia a sua madre, con la quale ha pessimi rapporti. Erika Blanc è magistrale nella sua innocenza, quando confessa la propria relazione extraconiugale a una figlia ancora sofferente per il tradimento subito. Gabriel Garko è quello che sorprende più di tutti: se è vero che, per certi versi, è più facile rendere un personaggio fortemente caratterizzato, in questo caso l’attore riesce ad andare oltre le aspettative. Riesce a evitare di cadere nel macchiettismo, regalando a Ernesto momenti di intensità emotiva elevati.
Ma funziona anche tutto il resto della famiglia queer che frequenta la casa di Michele: Serra Yilmaz, Filippo Nigro, Maurizio Romoli, Rosaria De Cicco, Ivan Bianchi, Luca Calvani, Carmine Recano, Lucrezia Valia, Koray Candemir. Nessuno di loro scade, perfetti nelle loro imperfezioni, tutti guidati da una visibile e ferma mano registica che li ha portati verso la verità.
Le fate ignoranti come modello per il cinema queer italiano
Il film del regista turco ha il merito di aver aperto le porte del cinema italiano alla tematica queer, tanto che, dal 2001 in poi, le pellicole attinenti alla comunità lgbtqi+, non macchiettistiche, sono notevolmente aumentate.
Inoltre, Le fate ignoranti di Özpetek ha aperto un fronte di studio e molti ricercatori di cinema queer hanno preso il regista turco come spunto per la creazione di nuovi topos rappresentativi omosessuali: il gay, il supergay e i gay normati. La terza categoria viene identificata successivamente, a partire da Saturno contro (2007), mentre le prime due appartengono a Özpetek fin da subito.
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Le fate ignoranti – Stefano Accorsi e Margherita Buy in una scena
La rappresentazione dell’omosessualità ne Le fate ignoranti esula dal resto del suo lavoro, passato e futuro. In questo film riusciamo a trovare un alto grado di verità raffigurativa che non è riscontrabile nelle altre sue pellicole. Negli altri suoi film i toni vengono decisamente smorzati, con l’uso di velature – più o meno evidenti – o di momenti che sono più vicini al high queer baiting che alla realtà – come in Nuovo Olimpo.
È per questa ragione che il suo lavoro del 2001 risulta così importante, senza omonormatività, anche se non esente da qualche perplessità. Fra queste, l’avvicinamento fisico che avviene fra Antonia e Michele, rapporto che culmina con un bacio. Se alcuni ci vedono il precorrere i tempi della fluidità, altri la riportano a una forma di rassicurazione per il mondo eteronormato.
La presenza della figura della donna cisgender eterosessuale è già, di per sé, un modo per svicolare dalla tematica omosessuale. La possibilità che Antonia e Michele si avvicinino più per una normalizzazione che per altre ragioni è riscontrabile nelle pellicole successive di Özpetek, inclusa la più recente. E se risulta facile giustificare tali scelte con eventi “che possono accadere”, è pur vero che tale fluidità è sempre negata dal resto della pellicola, sia essa La dea fortuna (2010) piuttosto che Mine vaganti (2019).
Per una visione consapevole e appagante
Le fate ignoranti è un film che, per molti versi, fa parte della storia del cinema contemporaneo. Risulta un capostipite per un certo tipo di rappresentazione oltre che una pellicola decisamente ben fatta e ben interpretata. Difficilmente si arriverà delusi alla fine della visione del film, ma occorre lo sforzo di contestualizzarlo nell’epoca. Abituati a una omorappresentatività sempre più dilagante, soprattutto grazie alla serialità televisiva, si corre il rischio di banalizzare un lavoro che ha dato tanto, culturalmente e politicamente oltre che artisticamente.