In concorso ad Alice nella città, Clenched Fist (Les poings serrés, 2023) di Vivian Goffette, al suo secondo lungometraggio, è un funzionale dramma familiare, che vediamo attraverso gli occhi del protagonista Lucien.
Una vicenda che il regista belga ci fa scoprire lentamente, e in cui uno dei punti di forza è la straordinaria interpretazione del piccolo Yanis Frisch. Ne abbiamo parlato con Goffette, che ci ha messo al corrente su come ha realizzato, a pugni chiusi, questo suo secondo lungometraggio.
L’intervista
Come è nata l’idea del film?
Ho un padre scrittore, abbastanza famoso [Guy Goffette], e quando ero piccolo mi chiedevano “Ma tu sei il figlio di…”. Era molto divertente, mi piaceva la cosa. Però questa notorietà può diventare anche un po’ fastidiosa. Quindi mi sono messo all’opposto. Mi sono chiesto cosa accadrebbe se uno avesse un padre altrettanto importante, ma con una personalità negativa.
Come mai questo lungo lasso di tempo tra la realizzazione di Yam Dam, tuo primo lungometraggio, e Clenched Fist?
Su questo film si sono abbattuti tutti i possibili problemi che si potevano avere. Tutto era pronto: la sceneggiatura, la scenografia, gli attori… poi c’è stato il Covid. Terminato il Covid, c’è stato il problema delle vacanze, perché girando con dei bambini, non dovevamo sovrapporci con la scuola.
Quando abbiamo ricominciato a girare, perché il Covid era finito, dovevamo preparare di nuovo il film. I bambini erano cresciuti, e quindi bisognava rifare il casting. Chi aveva creato le scenografie non poteva continuare, perché la falegnameria aveva chiuso e quindi non potevamo più appoggiarci ad essa.
Quindi dovevamo rifare la squadra, perché alcune persone erano impegnate in altri lavori. Quando poi abbiamo iniziato a girare, in estate c’è stata una specie d’inondazione a Liegi, e praticamente abbiamo dovuto interrompere la realizzazione.
E prima di tutto questo, il soggetto che avevamo scelto veniva sistematicamente rifiutato, perché faceva paura a tutte le produzioni.
Uno dei punti forti del film è l’interpretazione di Yanis Frisch. Come lo ha trovato? Quanto è durato il casting?
Ho fatto il casting completamente da solo. Nella prima fase è durato più o meno un anno e mezzo, e ho visto 350 bambini. La seconda fase ha preso un altro anno, e ho selezionato altri 150 bambini.
Yanis è stato l’unico che, nonostante i due casting a distanza di tempo, è rimasto come prima scelta, perché aveva delle caratteristiche fisiche giuste. Era minuto, quindi poteva rientrare nel ruolo anche se erano passati tre anni ormai. Mentre gli altri erano cresciuti fisicamente.
La parte complicata è stata un’altra. Yanis, quando aveva fatto il primo casting, aveva una personalità molto fragile, era ancora un bambino. Passati quasi tre anni, era diventato adolescente, e quindi non voleva più mostrare quei sentimenti, quella fragilità.
Durante le riprese eravamo un po’ perplessi con il produttore, perché non capivamo se riuscivamo a ottenere da Yanis quello che volevamo inizialmente. Poi abbiamo deciso che quello che ci sembrava all’inizio un difetto, invece era un vantaggio.
Il personaggio di Lucien è un personaggio molto intimista, molto chiuso su se stesso. Quindi questo atteggiamento di non voler esprimere i sentimenti, non lasciarsi andare, poteva rappresentarlo perfettamente.
Yanis lo avete messo subito al corrente su chi è realmente suo padre, oppure lo avete lasciato all’oscuro fino al momento della scoperta?
Conosceva la storia, ma non gli spiegavo preventivamente quale era la scena. Gli chiedevo d’imparare quel pezzo che serviva in quel momento, però non sapeva tutto lo svolgimento della scena, che sarebbe successo o cosa avrebbe fatto il padre.
L’ambientazione in una piccola cittadina, la mostruosità che si nasconde dietro un personaggio anonimo, la verità che affiora poco a poco. Sono elementi che fanno tornare in mente alcune pellicole di Claude Chabrol.
Veramente non ho pensato a Chabrol, il mio idolo è Bergman.
Il punto focale del film è come Lucien vede il padre. Per lui comunque quello è suo padre, e quindi bisognava restare su quella linea, senza mai scavalcare né da una parte né dall’altra, cercando di lasciare lo spettatore sempre dubbioso.
La prima volta che ho ripreso il padre è stata nella scena del cimitero, quando lui esce dalla macchina della polizia. Dopo il casting, non avevo molto preparato questa scena, e quando l’ho visto uscire per la prima volta dalla macchina, sembrava Hannibal Lecter. Invece per me doveva rappresentare un personaggio fragile, un padre. Quindi con Laurent Capelluto ci abbiamo lavorato, per giungere a quel risultato.
Tra l’altro, l’attore che abbiamo scelto lo si vede spesso nei film francesi e belgi, ed è uno molto simpatico. Quando gli abbiamo proposto la parte, era abbastanza inquieto per questo ruolo. Mi scrisse una mail, esternando queste sue perplessità, ma gli ho risposto che, proprio perché aveva paura, doveva farlo.
Il titolo “I pugni chiusi” rievoca I pugni in tasca di Bellocchio.
Si, c’ho pensato a Bellocchio. È un film che ho molto amato, perché rappresentava un po’ questa rabbia. Riguardo al mio film, ho pensato molto a questo titolo, e alla fine l’ho scelto perché rappresentava sia il mio punto di vista, per quello che avevo dovuto affrontare per poterlo realizzare, e sia il punto di vista di Lucien, che è un personaggio che trattiene questa collera. Racchiudeva bene questi due aspetti.
Prossimi progetti?
Ho molte idee, incentrate sulle relazioni familiari, però ho talmente penato nel realizzare questo film, che vorrei avere un soggetto forte che mi permetta di andare avanti con più facilità. Chiaramente, tutti i film hanno le proprie difficoltà.
Nella realizzazione, quello che a me spaventa maggiormente è la fase della scrittura, perché è una fase totalmente solitaria. A me piace il lavoro con gli attori, quindi sulla scrittura fatico, e questo fa si che si dilata il tempo, proprio perché è un lavoro in solitudine.