Divertente e, a suo modo, originale, “Damsels in distress” rappresenta un piacevole ritorno dietro la macchina da presa per un autore, Whit Stillman, che fa parlare di sè, nonostante non abbia mai raggiunto la fama di altri suoi contemporanei del calibro di Steven Soderbergh
L’ultima volta che ne abbiamo sentito parlare fu ai tempi di Last days of disco, opera datata 1998 che, fino a oggi, sembrava essere il canto del cigno di un autore interessante. Stiamo parlando di Whit Stillman, cineasta indipendente che aveva fatto parlare di sè con Metropolitan e Barcellonae che ora, dopo tredici anni di assenza dal set, torna sul grande schermo con Damsels in distress.
Qui a essere raccontate sono le vite di alcuni collegiali della Seven Oaks, dove vivono le tre amiche Violet (Greta Gerwigh), Heather (Carrie MacLemore) e Rose (Megalyn Echikunwocke), abbastanza note nella scuola, soprattutto perché sostenitrici di un movimento anti-suicidi per giovani studenti depressi.
Amiche cui si unisce presto anche Lily (Analeigh Tipton), entrando a contatto con un nuovo modo di vedere le cose e le problematiche adolescenziali, attraverso uno sguardo a tratti distaccato e diffidente, ma che, in verità, è alla ricerca della vera felicità, magari racchiusa nel giusto ballo di gruppo da fare tutti insieme.
Divertente e, a suo modo, originale, Damsels in distress rappresenta un piacevole ritorno dietro la macchina da presa per un autore che fa parlare di sè, nonostante non abbia mai raggiunto la fama di altri suoi contemporanei del calibro di Steven Soderbergh (che ha iniziato proprio come lui, ma ora devoto anche al cinema mainstream), rischiando quasi di rimanere nell’anonimato come Hal Hartley (qualcuno lo ricorda, il regista di Trust-Fidati?).
Stavolta, il nostro azzarda uno sguardo cinico verso le generazioni moderne, accennando a uno stile anni Cinquanta sia nel look delle protagoniste che nella scelta della colonna sonora, probabilmente al fine di mettere a confronto la mentalità “quadrata” e conservatrice del passato con i folli tempi moderni, composti da più correnti di pensiero possibili.
Naturalmente, il tutto punta molto sulle attrici, a partire da una Gerwigh (To Rome with love) fredda e, allo stesso tempo, compassionevole, punta di diamante del lungometraggio, insieme al linguaggio narrativo di taglio teatrale per raccontare l’intera storia.
Si ride a denti stretti e, se vogliamo, con fare anche snobistico, senza escludere che, di tanto in tanto, un’ombra di noia sia in agguato.
In ogni caso, un’operazione che si lascia guardare senza problemi, perché, anche se i difetti non sono assenti, si tratta di una tipologia di cinema pur sempre godibile.
Certo, materiale di una certa portata sarebbe lecito chiedersi cosa sarebbe diventato nelle mani di un umorista al vetriolo doc come John Waters… Allora, probabilmente, i risultati non sarebbero stati soltanto modesti.