Rivière di Hugues Hariche, in concorso ad Alice nella città, segna l’esordio nel lungometraggio del regista francese. Una storia ascrivibile nel Coming of Age, ma che si allarga al cinema sportivo e alla descrizione sociologica di un piccolo borgo.
Sebbene nella seconda parte si sfaldi, a causa di troppe storie portate avanti che non si concretano, Rivière è un film interessante, che aggiunge un punto di vista nuovo al già cospicuo genere del romanzo di formazione.
Rivière, la trama
L’adolescente Manon (Flavie Delangle) scappa dalla sua famiglia per ritrovare il padre, che ora vive nel piccolo borgo di Belfort. Non lo trova, però mentre lo attende in questa cittadina, incomincia a inserirsi nel gruppo di ragazzi del posto.
Dimostra di essere un’abile giocatrice di hockey, e comincia a stringere soprattutto un forte rapporto, conflittuale, con la coetanea Karine (Sabine Timoteo).

Tra Coming of age e film sportivo
Nel realizzare un film incentrato sull’adolescenza, sul percorso di maturazione del personaggio, c’è sempre il rischio di realizzare un’opera superficiale oppure di cadere nel déjà-vu. Pertanto bisogna dare atto a Hugues Hariche di non incappare in nessuno dei due comuni errori.
Rivière riesce ad offrire uno stimolante punto di vista sulla difficile età adolescenziale. In particolare nel descrivere una figura femminile, quella di Manon, quasi inedita nel vasto panorama del Coming of age.
Una ragazza caparbia (il lungo viaggio per cercare suo padre) e pragmatica (l’unica del gruppo che non si lascia realmente andare). Una ragazza ferita (l’abbandono del padre) ma che non si commisera (è conscia che deve lottare).
E attraverso questa figura alla ricerca del padre, di cui comunque ostenta con orgoglio il cognome (la casacca da hockey), entriamo nella realtà del piccolo borgo di Belfort, sineddoche di cittadine simili.
Vi approda di notte, e chiaramente non può averne una concezione definita. La scoprirà lentamente, e in particolar modo conoscerà le dinamiche di un branco codificato di adolescenti presenti in un paese ristretto.
Da questo inserimento di un elemento esterno/estraneo in una realtà già strutturata, Hariche, assieme alla sceneggiatrice Joanne Giger, fa partire le altre storie. Attraverso Manon vediamo le altre problematiche dei personaggi: dalla nuova compagna del padre anch’essa abbandonata, a Karine, “reginetta” del gruppo che vorrebbe scappare da quel buco di città.
Si aggiungono le descrizioni dei ragazzi infantili e maschilisti, e soprattutto lo sport. L’hockey è l’unica salvezza e sfogo per Manon. Uno sport principalmente maschile, che si contrappone al femminile pattinaggio sul ghiaccio. Due sport, ma sarebbe corretto dire espressioni d’intenzioni, che contraddistinguono Manon e Karine.
Nel raccontare questo Coming of Age, senza happy end, Hariche ha anche attinto dai suo ricordi adolescenziali, come evidenzia la scelta di ambientare la storia a Belfort, sua terra natia. E al contempo fotografare questo spaccato di realtà adolescenziale e cittadina con una fotografia tendente a colori cupi, e vintage.
Sfumature di luce che trasformano la pellicola, ambientata ai giorni nostri, quasi in un reperto degli anni Novanta, per dimostrare che, tutto sommato, nulla è cambiato.
La pecca di Hariche è quello di voler quasi realizzare un film corale, innestando altre storie problematiche che purtroppo minano la ben intagliata storia intima e complicata di Manon.
